Nel confronto che, nei primi anni del 2000, ebbe con Jurgen Habermas, l’allora Cardinale Ratzinger si chiedeva come, in una società globale, “con le sue differenti visioni di ciò che è giusto e di ciò che è morale, si possa trovare una evidenza etica operativa, con sufficiente potere di motivarsi e di imporsi per rispondere alle sfide……”.
Le sfide, anzitutto, della guerra e della sua trasformazione endemica nelle forme del terrorismo. La sfida di una scienza che conduce l’uomo ad essere “prodotto di se stesso” e non piu’ “dono della natura o del Dio Creatore”.
Un’ etica “operativa”, dunque, comune; strumento e, ad un tempo, frutto di una “interculturalità….oggi dimensione inevitabile della discussione sulle questioni fondamentali dell’essenza dell’essere umano”. Una discussione ed un confronto che non può essere condotto “né del tutto all’interno del Cristianesimo, né puramente all’interno della tradizione razionalista occidentale”, in vista di “un diritto che superi tutti i sistemi giuridici e leghi e delimiti gli esseri umani come tali nel loro incontrarsi”. A tale fine – sostiene ancora il Cardinal Ratzinger – “forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani”.
Una prima lezione da apprendere per tutti e segnatamente per chi abbia l’ardine, o forse la presunzione, di declinare la visione cristiana dell’uomo, della vita e della storia, anche sul piano dell’azione politica, sta nel prendere atto che si debba muovere da lì: da una ricognizione in ordine a quale sia niente meno che l'”essenza dell’essere umano”.
Si tratta di un approccio ostico, anzi francamente incomprensibile per chi stia dentro la logica – apparentemente protettiva e rassicurante – di un mondo “del fare”, nella quale la inesausta sollecitazione delle trasformazioni incalzanti suggerite, anzi imposte dalla tecnica, inducono la frenesia di adattamenti contingenti ed occasionali, di volta in volta parziali che, pur tuttavia, nell’ardore dell’affacendarsi quotidiano creano l’illusione di una presa sugli eventi che, al contrario, manca del tutto. In una cornice del genere, il respiro del pensiero diventa dispnoico e doloroso come l’oppressione toracica dello scompensato che ha fame d’ aria.
In effetti, dobbiamo assumere ed elaborare la consapevolezza del fatto che oggi la politica ha bisogno di una vera e propria “rifondazione antropologica”. Potrebbe sembrare una perdita di tempo, l’invito ad infilarsi in una spirale viziosa, nel labirinto di filosofemi astratti ed inconcludenti.
Eppure, ci vuole un momento di tregua, una pausa che ogni grande tradizione culturale deve concedere a se stessa per prendersi le misure a fronte di un “nuovo mondo” che andiamo scoprendo non oltre il “mare oceano” come successe secoli fa e neppure navigando incontro ad altre stelle, bensì nella profondità inaudita del nostro cuore e della nostra mente.
Anche per questo sono pericolose e controproducenti forme di sincretismo culturale e politico che annullano quella giusta distanza in cui le idee, possibilmente “chiare e distinte”, delle diverse culture di fondo – “Il numero delle culture concorrenti è tuttavia più limitato di quanto può sembrare ad un primo sguardo”, sostiene Ratzinger – possono misurarsi e commisurarsi in un dialogo fecondo, “nel tentativo di una correlazione polifonica in cui (le grandi componenti della cultura occidentale) si aprano spontaneamente alla complementarieta’ essenziale di ragione e fede”.
Anche la politica – purché abbia rispetto di sé stessa e sia consapevole della propria dignità – ha un grande compito
di cui farsi carico in questo orizzonte.
Domenico Galbiati