Un dato consolidato è il crescente impoverimento dei ceti sociali medio-bassi e alle conseguenti disuguaglianze nel mondo del lavoro, con un significativo spostamento della ricchezza dai salari ai profitti finanziari.
Sono decisamente aumentate le disuguaglianze sociali, le disuguaglianze ingiuste ed eccessive; va privilegiata, invece, la redistribuzione delle risorse che fanno la qualità della vita: dall’istruzione al primo posto, alle dignitose condizioni abitative ed ambientali al riconoscimento della diversità degli apporti al bene comune da parte dei singoli cittadini.
Approfondendo il ragionamento, è più corretto parlare, più che di uguaglianza e disuguaglianza, di inclusione e di esclusione nel godimento dei diritti della cittadinanza sociale, tra cui il lavoro è prioritario. Non si tratta solo di benessere economico. E’ vitale la possibilità di dare a tutti un effettivo sviluppo intellettivo e di acquisizione dei saperi, in particolare a chi è svantaggiato per doti naturali e/o per provenienza sociale.
Negli ultimi anni, invece, la politica attuata è stata di delegare al libero mercato la distribuzione, spesso iniqua, di quote crescenti di servizi, escludendo i ceti più deboli e poveri.
L’alternativa alle politiche liberiste è nella ricerca dell’uguaglianza, parola in forte disuso, come ci ha ricordato Ermanno Gorrieri, già nel 1999, (Università di Trento lectio brevis).
E’ saltato il compromesso sociale che è stato alla base dello sviluppo delle economie occidentali dopo la seconda guerra mondiale. Le democrazie europee si sono date allora un contesto di norme per fare sì che i benefici della crescita affluissero in misura significativa a chi stava peggio, ottenendo il risultato molto positivo di modificare gli equilibri politici, sociali ed economici ereditati dalla guerra.
Il patto sociale che è stato alla base degli anni della crescita si è basato sul principio della solidarietà internazionale e della cooperazione, ridimensionando le logiche del “laisser faire”. E’ stata data priorità agli investimenti produttivi rispetto a quelli speculativi. I paesi in surplus si erano impegnati ad aggiustare gli squilibri con i paesi in deficit, come sosteneva con vigore J.M. Keynes.
E’ importante sottolineare la consapevolezza politica che c’era in quegli anni sull’uso del surplus che doveva servire a favorire la ripresa dei paesi più deboli.
Si è già detto che, invece, negli ultimi decenni, si è affermata una visione strettamente liberista, sottovalutando il ruolo svolto dallo Stato, nella ricostruzione postbellica soprattutto in Italia, dove la redistribuzione del reddito è stata una politica prioritaria e socialmente condivisa.
Negli anni recenti si è, invece, andata affermando la convinzione che l’intervento pubblico è dannoso, diversamente dal mercato che è sempre in grado di autoregolarsi per il meglio anche dal punto di vista sociale.
La conseguenza è che nelle economie sviluppate la crescita dei redditi si polarizza nei ceti sociali alti. Sono loro a beneficiare maggiormente della liberalizzazione e della deregolamentazione. La regola virtuosa dei più ricchi è la massimizzazione dei profitti nel breve periodo, secondo logiche speculative, favorite da un sistema di mercato integrato e connesso.
In altri termini, c’è chi vede nell’estensione dei mercati (globalizzazione)e con essi della logica dell’efficienza la soluzione a tutte le esigenze di giustizia sociale. I mercati operano sempre e comunque per il bene comune.
In antitesi a questa visione il mercato è inteso come luogo di sfruttamento del più forte sul più debole. A questo proposito, in “Economia civile” di L. Bruni e S. Zamagni (ed. il Mulino) si dà una prospettiva diversa molto interessante.
Si sostiene che non si può continuare a ritenere che la redistribuzione delle ricchezze sia compito o del mercato o dello Stato. Occorre, invece, intervenire nel momento della produzione del profitto. All’impresa è chiesto, cioè, di diventare “sociale” nella normalità della sua attività economica.
Parlare di disuguaglianza vuol dire anche pensare alle sofferenze di tante persone; e alla mente vengono le parole di Papa Francesco (“La mia porta è sempre aperta”, Ed. Rizzoli).
Papa Francesco, ricordandoci la solidarietà umana, dice che “vede la santità nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti e le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta, nei deboli e nei poveri che hanno la costanza di andare avanti, giorno dopo giorno”.
Siamo chiamati, dunque, non solo alla solidarietà sociale, ma alla fratellanza. Papa Francesco ci sollecita ad “essere capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte senza perdersi, saper dialogare con il prossimo senza perdersi nella notte”.
L’invito di Papa Francesco, quindi, agli uomini di oggi è “Avere una storia di fecondità”.
Roberto Pertile