Oggi sulla prescrizione, ieri su altri argomenti, continua la dissidenza di Italia Viva nei confronti della maggioranza di governo di cui pure fa parte ed, anzi, ha attivamente promosso, quando ancora soggiornava nel PD, trascinandovi quel brav’uomo di Zingaretti che coltivava tutt’altri pensieri. Evocando Nanni Moretti e l’abortita stagione di rinascita popolare cui chiamò la sinistra nell’ ormai lontano 2002, si potrebbe dire che l’attuale governo è “il girotondo degli impotenti”.
E’ impotente il partito di maggioranza relativa che addirittura boccheggia sul “bagnasciuga” di una eventuale soglia appena attorno al 5%. Impotente il Pd che non ha né una visione del Paese, né una strategia di possibili alleanze che gli consentano di affrontare credibilmente le urne. Impotente Italia Viva, come dimostra il cicaleccio petulante, lo strepitio e l’ incessante, quotidiana esibizione egotistica del suo leader.
In fondo, in questo mondo alla rovescia in cui la “cifra” della maggioranza non è la forza, bensì la debolezza – che il governo, con una operazione in sé mirabile, traduce in un inossidabile stato di necessità – non c’è da sorprendersi se, in definitiva, l’unica componente che potrebbe osare il confronto con le urne è LEU, esattamente in virtù, a sua volta, di una debolezza tale da potersi permettere tutto senza perderci nulla. Per quanto questa lettura sia un po’ tendenziosa, ha in sé del vero.
Intanto, il Paese galleggia su questa apoteosi dell’impotenza e, forse, aspettando Godot, qua e là impara un po’ ad arrangiarsi da solo. Senonché, in questo quadro – a suo modo edificante perché non è da tutti ricavare un rivolo di forza o almeno di resilienza da un pozzo profondo di inettitudine – Renzi ed i suoi rappresentano un caso di studio del tutto particolare.
Non si capisce, in sostanza, se Italia Viva si attenga alle regole di un normale confronto politico. Oppure, se stia celebrando le sue “Renziadi” sulla pelle del Paese, secondo un’altra chiave di volta che si avvicina di più alla ratio della sfida sportiva, la cui logica è semplice e scarna: uno vince, tutti gli altri perdono. Ciò che conta è solo l’eccellenza della prestazione e l’eccedenza su quelle altrui.
Del resto, ciò che piace nello sport è anche il fatto che il gesto atletico si giustifica da solo ed è bello in sé, a prescindere dai suoi aspetti funzionali e, talvolta, perfino dall’esito conclusivo. Una bella giocata resta tale anche se il pallone si stampa sulla traversa, anziché insaccarsi in rete. Un bel discorso politico, però, lascia il tempo che trova se, al di là della lucida esibizione oratoria, non produce effetti.
Spesso, per contro, in politica si ottengono talvolta risultati di qualche rilievo che pur sembrano il brutto, inguardabile approdo di un parto distocico fatto di tensioni persistenti, sospetti reciproci, compromessi non esaltanti. Un po’ come quando il pallone finisce nella rete per un rimpallo fortuito o a conclusione di una confusa, furiosa mischia in area o, addirittura, per un’auto rete. Eppure l’ arbitro, ovviamente, ti assegna il gol.
Non è questione del merito dei temi in gioco, bensì del metodo che dà conto di una concezione della politica che non è  all’altezza delle difficoltà del momento. Nella misura in cui la ricerca della visibilità, del prestigio personale, del consenso emozionale non deve prevalere su un’attitudine razionale a ricercare una utile composizione dei conflitti.
Che la forma in politica sia sostanza è vero da sempre e, a maggior ragione, oggi nel clima rissoso, vischioso ed incattivito in cui viviamo, a rischio di avvitarci in una spirale di irrimediabile divisione del Paese.
Domenico Galbiati

About Author