Nel dibattito politico attuale si citano spesso le esperienze del Partito Popolare, di Sturzo, e della DC, facendo riferimento soprattutto alla figura di Aldo Moro. Viene invece poco citato il pensiero di Alcide Degasperi, a mio avviso molto meno di quanto meriterebbe. Trovo invece che l’esperienza politica di Degasperi sia adatta a dare indicazioni per il tempo presente, improntata come essa è sempre alla concretezza tipica della natura trentina e al realismo cristiano, nel misurarsi con le questioni politiche.
Mi sembra, a questo proposito, che le analisi che circolano in questo periodo sulla costituzione di un “nuovo” partito, o viceversa ne sostengano la impossibilità, siano fortemente viziate da alcuni pregiudizi, che conducono ad equivoci interpretativi.
Il primo riguarda la famosa definizione degasperiana della DC come “partito di centro che guarda a sinistra”, interpretata come indicazione di schieramento politico. Ma non la si comprende appieno se non alla luce delle parole stesse di Degasperi: “bisogna lavorare perché il popolo abbia quello che è necessario, soprattutto perché non perda la fede negli uomini che hanno il senso cristiano e non venga abbandonato a coloro i quali nella lotta contro il Cristianesimo credono di trovare anche la soluzione ai problemi sociali” (Trento, 9 agosto 1952).
Lungi dal dichiarare una preferenza di alleanze, la definizione degasperiana pone il tema della giustizia sociale come tema pienamente coerente con l’ispirazione cristiana, che tuttavia rimane la pietra angolare della visione politica di Degasperi, che non esitava a dichiarare il suo essere cattolico come ragione esistenziale del suo impegno politico.
Il secondo equivoco riguarda l’interpretazione del periodo successivo alla scissione della DC. E’ certamente troppo presto per una lettura storica, ma si possono notare approcci divergenti se lo si guarda con l’occhio dei politici direttamente coinvolti, o con il punto di vista dei cattolici, che già nel decennio precedente stavano differenziandosi nelle posizioni politiche. Senza pretese storiografiche, ma con buona memoria dei fatti, propongo una personale analisi di quel periodo, troppo frettolosamente definito come caratterizzato dal “clericalismo ruiniano”.
La scissione della DC fu il risultato della deflagrazione delle correnti interne, sotto la spinta delle inchieste di “tangentopoli” e senza più il collante della divisione del mondo in blocchi contrapposti. Non fu una soluzione caldeggiata dai Vescovi italiani, che avrebbero preferito una composizione del dissidio con una soluzione unitaria interna alla DC, nel frattempo divenuta Partito Popolare.
La Chiesa italiana, che fin dal 1985 aveva auspicato la ripresa del cattolicesimo politico come assunzione di un ruolo guida nel Paese, stava maturando la consapevolezza che le trasformazioni sociali e gli effetti delle tecnologie facevano assumere centralità alla “questione antropologica”, riassumendo in questo termine i pericoli per la dignità umana racchiusi in una cultura che allo stesso tempo faceva prevalere le strutture economiche rispetto al lavoro e al rispetto dell’ambiente, e consentiva la trasformazione della natura umana con forzature sia sul piano biologico che su quello più profondo della essenza personale.
Una parte del cattolicesimo politico trascurò, in quel frangente, l’importanza di tenere uniti i due aspetti della “questione antropologica”, producendo come effetto, oltre alla divisione politica, anche una frattura culturale nella collettività cattolica.
Su questa divisione si innestò, strumentalmente, la contesa di schieramento che portò i cattolici a sentire maggiormente l’appartenenza politica rispetto alla comune condivisione di fede. Con grande senso di responsabilità il Presidente della CEI assunse in prima persona la rappresentanza del punto di vista ecclesiale sulle questioni politiche, evitando che le divisioni, da politiche e culturali diventassero anche ecclesiali. Anche in questo caso, una riflessione priva di pregiudizi dovrebbe esaminare come i due schieramenti si siano posti rispetto ai problemi sollevati a nome della Chiesa italiana, e in base ai comportamenti effettivi di tutti gli attori si formulino i giudizi storici.
E’ mia convinzione che una sensibilità degasperiana avrebbe saputo “tenere insieme” la DC e, dentro essa, anche la sintesi politica sui temi della “questione antropologica”, evitando il successivo destino di irrilevanza dei cattolici in politica. Ma non ci sono controprove, purtroppo.
Quale insegnamento si può trarre per la situazione d’oggi. A mio avviso tre punti.
1) Realismo nel valutare la contingenza politica e la situazione sociale del Paese, unito alla concretezza nel proporre soluzioni ai problemi sentiti come urgenti dall’opinione pubblica.
2) Visione degli schieramenti politici con una logica “di coalizione”, aggiornata al tempo in cui viviamo, il che significa produrre il massimo impegno di convergenza e di sintesi di sensibilità plurali entro una stessa realtà di partito, escludendo il “frontismo” come scelta politica.
3) Traduzione programmatica del “manifesto” con una cultura politica attenta alla questione antropologica, oggi felicemente sintetizzata dalla definizione del cardinale Bassetti, per ricostruire (almeno) l’unitarietà culturale, o la sua sintesi politica, come premessa per ritrovare anche una incisività del pensiero cristiano sul terreno più strettamente politico.
Andrea Tomasi