E’ finalmente tempo che i cattolici riconoscano che ad essi compete un ruolo o, meglio, come siano oggettivamente convocati, dal momento storico, ad assumere una responsabilità nei confronti del Paese e della collettività.
Non solo sul piano politico ed, in ogni caso, pur secondo il pluralismo delle loro opzioni. Tra le quali – in ogni caso e senza che se ne adontino i cultori del cosiddetto “pre-politico” – è necessario contemplare la presenza di una forza organizzata – questo in ultima istanza il progetto di INSIEME – che abbia la ferma determinazione e la trasparenza necessarie a rivendicare la propria ispirazione cristiana, sul piano della quotidiana presenza politica.

Non si tratta più – come sostanzialmente è stato fin qui – di coltivare, come succede da anni, la legittima, ma pur sempre soggettiva aspirazione di molti cattolici perché la voce della loro cultura torni a farsi sentire nella vita del nostro Paese. E tanto meno di alambiccare ogni giorno attorno a progetti di rientro dalla cosiddetta “diaspora” che consentano di aspirare a qualche prebenda elettorale, ricavando per sé una nicchia nel sistema politico sfatto di cui godiamo oggi. Si tratta, piuttosto, di constatare come vi sia un vuoto da colmare, una slabbratura da ricucire nel tessuto civile dell’ Italia, prima che sia troppo tardi ed il nostro Paese – altro che nazional-sovranismo – si avviti giù per la china inarrestabile di una decadenza senza ritorno.

La radicalizzazione dello scontro politico, destinata a crescere nei prossimi mesi di avvicinamento alla scadenza elettorale europea, sta favorendo ed accompagnando – ad un tempo causa ed effetto – una polarizzazione altrettanto radicale sul piano della cultura nel significato più ampio del termine, cioè per quanto concerne la concezione stessa che si ha della vita.

La deriva “radicale” si va codificando a sinistra. “Dio, Patria, Famiglia” campeggia a destra.
Posizioni fortemente polarizzate sul piano politico, addirittura tali per cui destra e sinistra vivono sostanzialmente della reciproca contrapposizione, dando luogo ad una sorta di gioco degli specchi, cosicché il contrario dell’ una diventa effige dell’altra.

Eppure, se restiamo al profilo culturale e cerchiamo più a fondo, ambedue i campi sono figli dello stesso tempo storico più di quanto non appaia e , in definitiva, si mostrano come “variazioni sul tema” dello stesso spartito.
All’ antica dialettica tra liberalismo e collettivismo, sembrano subentrare atteggiamenti che, per quanto si divarichino sul piano della competizione politica, condividono, in ultima istanza, una radice comune nel segno di una declinazione individualista dei valori della vita che decisamente prevale, dall’ una e dall’ altra parte, rispetto all’apprezzamento dei diritti sociali.

Si potrebbe dire, per inciso, che la sinistra perde anche perché, di questo passo, gioca permanentemente fuori casa ed il fattore campo risulta decisivo. L’originale, in ogni caso, appare, anzi è più autentico della copia e, dunque, prevale. Destra e sinistra, paradossalmente, recitano lo stesso copione se pur lo leggono a rovescio. Le loro culture sono, ambedue, espressione di quell’ “atomizzazione” del contesto civile che fa risuonare stonati, come fossero la voce di una campana fessa, anche valori apprezzabili, pur nel loro differente segno, dall’ una e dall’ altra parte.

La libertà si dissolve nell’autodeterminazione. La giustizia sociale si riduce a moderate, parziali aritmetiche di redistribuzione del reddito. Insomma, destra e sinistra non ce la fanno, non ce la stanno facendo, né mai ce la faranno a riportare l’ Italia fuori dalla palude in cui sta scivolando. Non hanno pilastri culturali sufficientemente robusti da reggere le politiche di “trasformazione” di cui abbiamo bisogno, al di là del tradizionale riformismo.

Peraltro, non succede a caso che molti termini tra i più ricorrenti, in un certo senso le parole d’ordine che oggi si impongono – rete, complessità, coesione, interdipendenza, globalizzazione, pluralismo, dimensione multipolare e così via – abbiano in comune una domanda di “relazione”, rinviino alla necessità di un collante che garantisca coesione e reciprocità, lamentino una lassità di quei tessuti connettivi che dovrebbero tenere assieme le cose del mondo, ma anche il vissuto di ciascuno, evitando che ogni cosa si scomponga e che gli stessi affetti si dissolvano in una melassa di sentimenti.

Insomma, manca la “persona”, manca una cultura, una prospettiva che da essa tragga ispirazione, principi e criteri d’azione. La “persona” come soggetto di relazioni, fattore di ricomposizione del tessuto civile, spazio di maturazione e condivisione di un orizzonte comune, luogo primario di attestazione di quel “principio di responsabilità” di cui non possiamo più fare a meno.

Domenico Galbiati

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