Il prossimo 9 Ottobre 2023 si celebrerà il sessantesimo anniversario della tragedia del Vajont. Riportiamo un ricordo della visita effettuata nei giorni del cinquantesimo anniversario (1963-2013).

Già dai tempi dell’istruzione scolastica, dai racconti di famiglia, dalle rievocazioni di ricordi di persone che in quel tempo vissero direttamente o indirettamente l’evento, mi ha sempre incuriosito la storia del Vajont. Ricordo le molteplici definizioni citate ogni anno: alluvione, terremoto, esplosione, crollo, valanga, frana, strage, disastro, tempesta, delitto, sterminio oppure olocausto come definito da Tina Merlin nel suo libro “Vajont 1963 – La Costruzione di una Catastrofe”. Non ho mai ottenuto una definizione corretta di cosa si trattava e cosa fosse realmente avvenuto. Quindi data la specialità lavorativa trascorsa e attuale con le relative correlazioni, ebbe inizio un approfondimento che a seguito della visita effettuata nei luoghi interessati dall’evento in concomitanza del cinquantesimo anniversario, mi ha realmente fatto capire il significato di quella storia che in coloro che per studio, scienza, lavoro, incarico, istituzione, diventi insito per sempre. Durante questo viaggio ero accompagnato da mia moglie co-autrice dell’articolo. Le immagini fotografiche acquisite sono state effettuate nei luoghi in cui era concesso effettuarle. Comprendiamo e condividiamo il motivo.

L’avvicinamento al tema

La tragedia del Vajont verificatasi nell’Ottobre 1963 è l’esempio della mancata attenzione dell’uomo di fronte a eventi naturali e della superficialità con la quale si è pensato, durante il corso degli anni, più allo sviluppo che alla tutela del territorio e alla prevenzione dei rischi potenziali su tutti i livelli. Nel corso degli anni la consultazione ed approfondimento ha trovato materia presso la Fondazione Vajont, il Centro Regionale di Studio e Formazione per la Previsione e la Prevenzione in Materia di Protezione Civile di Longarone, ricerca di testi e articoli su diversi aspetti dell’evento. Significativo è stato l’impulso all’approfondimento dato dal monologo dell’attore teatrale Marco Paolini che ha permesso ai più di conoscere con rispetto la storia unitamente ad altri testi citati in bibliografia.

La ricorrenza dei 50 anni

Abbiamo ritenuto la visita un momento costruttivo dal punto di vista della conoscenza, che segue il percorso di approfondimento intrapreso anni prima. Abbiamo scelto di evitare la presenza alle manifestazioni ufficiali, ma di entrare il più possibile in tutti i luoghi significativi e, anche se immeritato, provare per alcune ore a essere uno degli abitanti in quel periodo e oggi. L’esperienza è stata veramente particolare: la diga vista dalla strada Alemagna sembra poco più di uno spicchio di muratura, che per chi non conosce la storia potrebbe confondere la situazione avvenuta. Il primo impatto con la chiesa di Longarone, tutta in cemento armato, moderna, quasi stona con l’ambiente e la situazione, conserva alcuni reperti della chiesa vecchia ritrovati anche in luoghi lontani perché portati via dalla violenza del vento e dell’acqua, le immagini del giorno seguente la tragedia, la lapide bronzea con i nomi delle vittime. Nonostante non sia una giornata fredda, al suo interno si avverte una sensazione di gelo, svuotamento, perdita, cancellazione, forza e ripresa: significati spontanei. Continuiamo e lungo il viale principale troviamo una gigante bicicletta rosa, segno del passaggio del Giro d’Italia 2013 a ricordo del cinquantesimo del disastro. Una testimonianza non solo sportiva ma qualcosa di più. Proseguiamo per Pirago la frazione dove il campanile e l’abside della chiesa resistettero alla violenza e potenza dell’onda. Oggi ristrutturato e messo in sicurezza lascia un segno importante di ricordo. 

Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblio della memoria

Questa frase è scritta in più lingue sul pannello antistante l’ingresso al Cimitero Monumentale delle Vittime che si trova a Fortogna, frazione a valle di Longarone. Entrando, questa frase ci accompagna mentre camminiamo lungo le lapidi, quasi non si vorrebbe proseguire… Su delle colonne gli scolari hanno affisso dei biglietti con i nomi dei loro coetanei di allora dedicando una margherita per ognuno. La chiesa raccoglie un pannello circolare ove sono scritti i nomi delle vittime suddivisi per famiglia. Sul retro della chiesa vi sono lapidi commemorative anche di personalità estere, di soccorritori periti durante le operazioni, e di altre vittime le cui lapidi erano presenti o sono state ritrovate in cimiteri sparsi sul territorio. Non vi è bisogno di commentare, parlare o dire. Solo esserci. L’ingresso centrale del Cimitero Monumentale è disposto su due piani dove è riposta una esposizione di fotografie delle ore successive al disastro e alcuni materiali ritrovati anche molti anni dopo durante lavori di scavo o edificazione in luoghi anche lontani da Longarone. Le immagini parlano da sole.

Longarone, Vajont: attimi di storia

Si intitola così il percorso museale sito in Comune di Longarone. Più che un museo è un percorso nella storia degli eventi, anzi qualcosa di più. La sintesi esplicativa che guida il visitatore così si esprime: stringhe metalliche verticali rappresentano numericamente le 1910 Vittime accertate, la cui forma ritorta delle stringhe stesse rappresenta la sofferenza, lo sconvolgimento. Le lamelle di colore bianco ricordano i bambini mai nati. All’ingresso trova posto il modello della diga elaborato dall’I.S.M.E.S. (Istituto Sperimentale Modelli E Strutture) di Bergamo, donato dalla famiglia Torno, l’impresa che costruì la diga. Testimonianza di un ardito progetto. Quasi un messaggio, ovvero convertire la capacità ingegneristica, edilizia, innovativa in capacità preventiva, di tutela, di rispetto ambientale, di vera e seria prevenzione. Di forte impatto la gigantografia posta all’ingresso raffigurante la vista sulla diga, la frana e la spianata il giorno dopo il disastro. La frase riportata è emblematica, toccante ed è presagio di come e cosa sta avvenendo nei giorni nostri a tutti i livelli sociali, amministrativi, istituzionali. Nove sezioni del percorso illustrano molto bene tutta la storia. Le vicende prima del 9 ottobre 1963, la costruzione della diga, la tragedia: qui ci si immerge nel momento e si fatica ad allontanarsene perché è altamente coinvolgente. Prosegue poi con i tempi seguenti l’evento quali i primi momenti di soccorso, di ripresa, di contestazione e ricostruzione. Significativo il rimando e ricordo a simili eventi avvenuti prima e dopo il Vajont. Bello lo spazio dedicato ai più piccoli, per elaborare pensieri sull’esperienza della visita. Tutto è un luogo di conoscenza, di storia che trasmette emozioni forti con un messaggio importante sull’insegnamento del passato per costruire il domani, senza cadere nell’inettitudine umana. L’incontro casuale con un uomo che si avvicina dicendoci con gli occhi lucidi: “…son cose che non si dimenticano…” con un accento non del luogo, mi porta a chiedere se era in servizio militare ai tempi dell’evento. Confermò dicendo che vi rimase per oltre un mese e se ne andò. Avremmo voluto chiedere, sapere, ma in un breve momento, il suo volto e il suo modo di osservare rivivendo quei giorni, ci aveva detto tutto.

La Diga del Vajont, Casso ed Erto

Si lascia Longarone e si sale per la strada regionale n.251 che collega la provincia di Belluno a Pordenone. La diga si nota sempre piccola da Longarone. La delimitazione del parcheggio e del percorso pedonale che porta alla diga è contornato da piccoli drappi colorati con riportati i nomi dei bambini mai nati e morti a seguito dell’evento. Camminando si nota la diga dal versante del lago, ora svuotato dall’acqua, cui rimane solo tutto il materiale caduto dal Monte Toc la sera del 9 Ottobre 1963. Si fa ancora fatica a capire il modo degli eventi. E’ presente una piccola chiesa moderna con all’esterno alcuni pannelli documentali e all’interno una lapide che ricorda gli operai morti su lavoro durante la costruzione della diga. Il percorso protetto pedonale fiancheggia la forra ed è ricco di gigantografie di immagini storiche e dati tecnici. Sono presenti tecnici Enel che rispondono alle domande dei visitatori. Ci si incammina sul coronamento su cui è stata realizzata una passerella protetta. Ai tempi era presente una strada carrabile che si affacciava direttamente sulla strada regionale n.251. Si notano le armature della diga piegate dall’impatto dell’acqua e l’imponente scenario della diga con la superficie di cemento ancora bianca che emerge nel naturale ambiente della forra del Vajont. Arrivati al versante opposto e dove una volta vi era la cabina comandi della diga, ora vi è uno spiazzo con pannelli documentali e una cabina elettrica Enel. Ci fermiamo. Altri visitatori sono presenti e silenziosi. A bassa voce si sente parlare con cadenza linguistica del luogo, un uomo che indicando sui pannelli cita i momenti della tragedia. La voce a tratti si ferma a tratti è roca. Chi ascolta è a dir poco emozionato. E’ presente anche un gruppo di studenti e loro insegnanti. Anche loro silenziosi e taluni anche impauriti dal luogo. Ritorniamo sulla passerella e scendiamo dal versante del lago lungo un piccolo sentiero che ci porta a toccare con mano la struttura muraria della diga. Anche se la parte visibile è ridotta, mostra ancora oggi la sua presente e possente struttura.

Ci dirigiamo verso Casso e dalla strada scorgiamo il fronte di frana (la più volte ricordata M che rimanda al geologo Leopold Muller che predisse l’evento se non fossero posti dei correttivi). Un borgo ancora abitato ma in tono minore rispetto a quegli anni. In parte ristrutturato, in parte in ristrutturazione. In alcuni aspetti sembra che il tempo si sia fermato al 9 Ottobre 1963. Incrociamo un abitante all’ingresso del borgo e ci porgiamo un semplice saluto. Osservava l’arrivo di alcuni (pochi) visitatori, quasi a chiedersi il perché. Comprendiamo e proseguiamo. Incontriamo altri visitatori che sembrano alla ricerca di una casa, un segno ricordando i tempi. Guardando il loro aspetto d’età non paiono militari allora in servizio, hanno un passo deciso, li seguiamo e si fermano davanti a una casa. Stiamo distanti. Probabilmente sono figli o nipoti sopravvissuti. Poco dopo si affaccia una signora anziana che salutandoci ci dice tristemente “…lì non abita più nessuno da tanto tempo…”. Forse spera che qualcuno ritorni, qualcuno a cui raccontare cosa è avvenuto perché non avvenga mai più. In direzione di Erto, appare tutto il fronte di frana e dall’alto il materiale caduto nel lago. Impressionante. Torna alla mente la frase che Dino Buzzati l’ 11 Ottobre 1963 scrisse sul Corriere della Sera a pag. 3 “un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso grande come un montagna, e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature che non potevano difendersi”.

Erto: nel raggiungerlo ci soffermiamo lungo la strada dove la mappa indica dei punti di vista del lago, delle frazioni sommerse, o delle infrastrutture legate alla diga. E’ definito paese fantasma, anche se riscontriamo alcune parti in ristrutturazione nel nucleo vecchio. Un segno di ritorno a vivere nei luoghi d’origine. Anche qui pochi visitatori, forse figli o nipoti sopravvissuti tornati per un ricordo. Incrociamo casualmente Mauro Corona,  noto autore di testi sul Vajont e sulla Valle Ertana. Ci soffermiamo presso il Municipio a una visita documentale sulla storia del paese ai tempi della costruzione della diga, sulla morfologia territoriale e sul disastro e poi ci dirigiamo verso il Centro Visite di Erto. Nelle piccole vie troviamo graffiti di contestazione e di ricordi su case disabitate.

La catastrofe del Vajont: uno spazio della memoria

Una sintesi storico-cronologica dell’evento così come riportata nel Centro Visite del Comune di Erto, non un percorso museale come tanti, ma se liberata la mente da ogni pensiero, percorrendo le sale, la disposizione espositiva ci avvicina agli eventi e cerca di trasmettere la sensazione di essere ancora oggi in quel scenario drammatico, anche se solo a chi ha vissuto realmente la situazione è con rispetto doveroso e obbligato lasciare gli stessi a rielaborare il vissuto per essere monitori per sempre. Siamo riconoscenti imparando da quanto hanno provato per far sì che non si ripeta nulla del genere.

Alle ore 22,39 del 9 Ottobre 1963 circa 300 milioni di metri cubi di roccia scivolano dai pendii del Monte Toc all’interno dell’invaso artificiale del Vajont, collassando a valle in un arco di tempo di 40 secondi, con una velocità di 65 km/ora, causando una enorme onda d’acqua che si abbatte sui sottostanti paesi di Longarone, Castellavazzo, Erto e Casso. L’impatto della frana nel lago mette in movimento una massa di 48 milioni di metri cubi d’acqua: con un’onda di 80 metri che si diffonde nel lago, investendo gli insediamenti delle rive e con un ‘onda di 174 metri che scavalca la diga che, precipitandosi a valle da un’altezza di 438 metri, cancella gli insediamenti sottostanti, causando distruzione e la morte di circa 2000 persone, sacrificate alla logica del profitto.

Alla fine degli anni ’50 la comunità era profondamente legata all’economia agricola tradizionale, integrata con il piccolo commercio ambulante. La stretta forra del Vajont suggerisce alla S.A.D.E. (Società Adriatica Di Elettricità), che verrà definita dall’allora Presidente della Provincia di Belluno Alessandro Da Borso “un vero organismo dominante la vita stessa dello Stato”, l’idea di utilizzare la valle come bacino artificiale. Viene così realizzata una diga a doppia curvatura di 265 metri, la più alta del mondo. Nel 1960, in coincidenza dell’inizio dell’invaso, hanno luogo due frane. Viene disposto il monitoraggio del versante instabile, dell’estensione di due milioni di metri quadrati. Si dispone così di un preciso diagramma delle relazioni che legano l’aumento del livello del lago con l’aumento degli spostamenti della frana. Nel mese di Ottobre del 1963 l’imminenza della frana è evidente. Non vengono adottate adeguate misure di protezione della popolazione.

Dopo la frana non esiste più controllo del livello del lago. Nello scenario desolante della valle sconvolta, “dopo”, le istituzioni sopravvalutano il rischio. Tutta la popolazione viene evacuata. Quando tre anni dopo, il lago è stato del tutto svuotato, si insiste nell’imposizione del totale trasferimento degli abitanti. Ciò determina una forte conflittualità interna tra chi accetta il trasferimento e chi vuole riconquistare la propria valle e viverci. Nel 1971 si arriva alla traumatica scissione della comunità: viene istituito il nuovo comune di Vajont, frutto del trasferimento. Il Piano di ricostruzione estende l’azione su un’area 22 volte più grande rispetto a quella danneggiata e “dimentica” di fatto la valle del Vajont. Se si esclude il ripristino della viabilità in riva destra, l’unico intervento di piano consiste nell’abbandono, della vecchia Erto, per realizzare un nuovo insediamento poco più in su. Nessun altro intervento è stato attuato nella valle. Tutto il versante sinistro della valle è tuttora gravato da vincoli di inaccessibilità mai rimossi.

La causa penale dura oltre 8 anni: vengono rinviati a giudizio 11 imputati; nel processo di primo grado, il PM chiede una condanna per 158 anni complessivi. Il giudice afferma in sentenza che “la frana non esiste dal punto di vista giuridico” e condanna, per il solo mancato allarme, 3 imputati, per 12 anni complessivi. In sede di Appello la condanna è ridotta a complessivi 4 anni e 6 mesi. In sede di Cassazione viene ampliata la responsabilità e ridotta la pena a due soli imputati per un totale di 2 anni e 8 mesi.

La causa civile venne intentata contro l’Enel dal Comune di Erto e Casso e poi da quello di Vajont. Dopo 32 anni dalla catastrofe, la sentenza definitiva obbliga l’Enel a pagare danni per 19 miliardi di lire. L’Enel tenta di evitare il pagamento non riconoscendo la titolarità del Comune di Vajont a chiedere i danni, rallentando di fatto l’iter di 7 anni; non riconoscendo il metodo per calcolare l’attualizzazione degli importi da corrispondere; non ammettendo di dover pagare due soggetti senza conoscere la quota spettante ad ognuno. Il 3 gennaio del 2000 il Comune di Erto e Casso accoglie la proposta di transazione avanzata dall’Enel, con l’offerta di un corrispettivo di 9.399.515 euro, a fronte dell’abbandono delle cause in corso. La ripartizione tra i due comuni viene stabilita attribuendo un 65% a favore del Comune di Erto e Casso e un 35% a favore del Comune di Vajont. Dopo 37 anni dalla catastrofe il Comune di Erto e Casso incamera un indennizzo di 6.109.685 euro.

Le attività di Soccorso

Negli anni 60 il Soccorso Pubblico era ancora molto in embrione e tutto si basava sostanzialmente sull’organizzazione ed esperienza acquisita durante la Seconda Guerra Mondiale e il primo dopoguerra. La prima istituzione a intervenire fu l’Esercito Italiano con il Corpo degli Alpini, molto diffuso e radicato nel territorio e con tutta la sua organizzazione gerarchica e di competenza multidisciplinare. Si aggiunse il valido supporto del Comando Americano delle Forze Armate stanziato a Vicenza. Il personale Infermieristico e Medico di tali apparati venne impiegato nella sua massima completezza. Il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, mise a disposizione l’iniziale moderna conoscenza ed esperienza in termini di prevenzione e contenimento dei danni intervenendo per evitare spandimenti di materiali pericolosi dispersi lungo il fondovalle. Le Forze dell’Ordine, quali Arma dei Carabinieri e Polizia Stradale si occuparono senza sosta per agevolare le operazioni con attività di recupero e conservazione dei beni, oltre che garantire una viabilità efficiente per favorire il ripristino delle attività. Gli ospedali attivati dall’allora Sanità Provinciale, furono quelli di Belluno, Agordo, Feltre, le Case di Cura di Auronzo e Pieve di Cadore (ove nacque uno dei primi Sistemi di Soccorso Sanitario 118 Italiani). Tutto il personale infermieristico e medico venne prontamente allertato ed immediatamente reso disponibile all’accoglimento dei feriti. Feriti che giunsero in una minima parte, dato l’epilogo infausto dell’evento. Tutto questo personale, di cui molti di loro giovanissimi, divennero presto uomini prima che professionisti. Il totale complessivo del personale ammontò a circa 13.000 unità.

Di fatto fu un primordiale Coordinamento di Enti Istituzionali, che ancora oggi stenta a raggiungere un equilibrio. Coordinamento che è predittivo ancora oggi come unione di metodi, sinergie, allineamento, obiettivi e volontà.

Quale è il significato del Vajont?

Si può definire correttamente con la frase posta sulla gigantografia esposta all’ingresso del Museo di Longarone:

“La storia del Vajont che portò all’immane tragedia, è fatta di leggerezze imperdonabili, arroganza dei poteri, silenzi della stampa, assenza di controlli, gravissime omissioni, segnali non ascoltati, anzi dolosamente ignorati”

Questo testo si rifà a quanto scritto da Giampaolo Pansa nella prefazione al libro di Tina Merlin, a cui aggiunge la ricerca del profitto, la complicità di tanti organi dello Stato, l’umiliazione dei semplici, la ricerca vana di una giustizia, il crollo della fiducia in una repubblica dei giusti, la presenza di organismi esterni dominanti lo Stato.

Ecco il significato esatto. Ora abbiamo capito. Ancor di più rapportando tutto a quanto avvenuto e quanto sta avvenendo dopo il 9 Ottobre 1963 in diversi territori della nazione e nel panorama Internazionale.

Questa frase e il suo concetto, ogni persona, cittadino, lavoratore, istituzione piccola o grande che sia, amministratore pubblico o privato che sia, devono imprimerla nella mente quando assolvono a compiti e funzioni per cui operano intaccano anche minimamente, la sicurezza del proprio Essere e Vivere all’interno del proprio territorio, non solo del singolo ma della moltitudine. E nell’Essere e Vivere sono racchiusi mondi di Vita.

Marco Torriani e Francesca Pozzi

 

Bibliografia:

La catastrofe del Vajont: uno spazio nella memoria. Studio e progetto di Luciano Di Sopra, 1997 aggiornamento 2013.

Longarone Vajont Attimi di Storia, Associazione Pro Loco Longarone www.prolocolongarone.it 

Tina Merlin: Vajont 1963. La costruzione di una catastrofe, ed. Il Cardo

Comune di Longarone, Erto e Casso: Dal Vajont un impegno per la Protezione Civile, 1989.

  1. Demichelis, M. Coletti, G. Toffolo: Psicologia dell’emergenza: il caso Vajont, Comitato sopravvissuti del Vajont, ed. l’Artistica Editrice 2004.

Comune di Longarone: I volti del dolore, a cura di Viviana Capraro, fotografie di Gianni Mario, negativi archivio agenzia Olympia Milano, 2003.

Centro Regionale di Studio e Formazione per la Previsione e la Prevenzione in materia di Protezione Civile di Longarone: Vademecum della Protezione Civile nell’Unione Europea, 2002. 

Roubault M. Le catastrofi naturali sono prevedibili, Einaudi, Torino 1973.

Andrea Prandstaller “Vajont il Coraggio di Sopravvivere”, dvd produzione Venicefilm, 2008.

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