La confusione sembrava regnare ieri a Washington sul futuro delle truppe americane in Iraq. Prima i comandi militari presenti a Baghdad presentano una lettera al ministero della Difesa iracheno con l’annuncio che i preparativi sarebbero iniziati immediatamente “per garantire che il trasferimento fuori dall’Iraq sia condotto in modo sicuro ed efficiente”. Poi, arriva la smentita da parte del segretario alla Difesa, Mark Esper, secondo il quale quella missiva” non è coerente” con lo stato delle cose.
Crediamo con non poco imbarazzo, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Usa, Gen Mark Milley, lui avrebbe dovuto essere il più alto in carica tra i militari ad autorizzare la consegna di quella lettera, ha precisato che è “ stata inviata per errore”.
Adesso il quadro cambia ulteriormente dopo che l’Iran ha risposto all’uccisione del generale Soleimani lanciando una serie di missili balistici su due basi aeree americane in Iraq , quella di Irbil e quella di Al Asad. Intanto notiamo che, per quanto sia tutto ancora da chiarire, le batterie antimissili statunitensi non sono riuscite ad impedire che le ogive iraniane colpissero loro basi che c’è da ritenere dovessero godere di una sufficiente protezione. Secondo la BBC, sarebbero partiti dalle rampe iraniane 12 missili, di cui ben sei avrebbero colpito le strutture americane di Al Asad.
Secondo La Repubblica, il contingente italiano presente nella base di Erbil sarebbe stato costretto a rifugiarsi in un bunker per non finire colpito dall’arrivo dei missili.
I vertici militari statunitensi valuteranno l’accaduto e gli eventuali limiti delle loro difese antimissilistiche. Così come le minacce iraniane di effettuare altre azioni su Haifa, Dubai e Tel Aviv in caso di risposta statunitense. Se è vero che le forze armate statunitensi possono portare gravi colpi agli avversari è stato dimostrato dal bombardanento della notte scorsa che gli iraniani possono infliggere anch’essi una dura lezione.
Trump e la Difesa Usa devono anche considerare che i democratici, che hanno la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti di Washington, non sono con loro. Nancy Pelosi lancia un monito ricordando che Stati Uniti e il mondo intero ” non possono permettersi una guerra” e che va dunque assicurata la sicurezza delle truppe statunitensi “mettendo anche fine alle non necessarie provocazioni dell’amministrazione e chiedendo all’Iran di cessare la violenza”.
Teheran, attraverso il ministro degli esteri Javad Zarif, sostiene di essersi limitata a rispondere proporzionatamente, e in auto difesa contro la base da cui sarebbe partito il colpo mortale portato al generale Soleimani.
La faccenda si complica, quindi, ulteriormente perché ne viene la conferma che il possibile conflitto con l’Iran potrebbe non resteare delimitato, ma le conseguenze finiranno per farsi sentire in tutta la regione e forse persino oltre.
Diventa ancora più complicato per gli Usa lasciare le loro basi militari in Iraq. Il Presidente Usa era già stato chiaro al riguardo. Ha ricordato i miliardi spesi dagli americani per metterle in piedi ed ha aggiunto che se ne fossero scacciati imporrebbe delle pesantissime sanzioni al governo di Baghdad fino al pagamento dell’ultimo dollaro dei costi sostenuti. A maggior ragione oggi non potrà far vedere che scappa dall’Iraq.
Il bombardamento iraniano della notte scorsa pone più che mai la questione della presenza anche delle altre truppe occidentali, tra cui quelle italiane. Ieri si era saputo che i nostri restavano, sia pure dopo alcuni spostamenti. Germania e Croazia avevano già deciso per un trasloco, ma loro hanno poche decine di persone coinvolte, tra Kwait e Giordania.
Questo nonostante i paesi europei si siano ben guardati di plaudire all’uccisione del generale iraniani e alle successive minacce di Trump di colpire addirittura i siti archeologici e culturali presenti in quella che fu l’antica Persia. E’ evidente che la vicenda iraniana fa emergere la frattura esistente tra gli Stati Uniti e i propri alleati.
La minaccia di distruggere il patrimonio storico iraniano ha portato persino il Primo ministro britannico Boris Johnson a distinguersi rispetto a Trump. Un modo indiretto per criticare il comportamento Usa in tutta la vicenda che segna la fine definitiva dell’accordo sul nucleare perseguito, invece, per anni dai paesi europei.
Le prese di distanza, però, non mancano anche da parte di altri attori importanti sulla scena mondiale. Se il Primo ministro giapponese, Shinzō Abe, nel momento i cui rende nota la decisione di inviare proprie forze nel Golfo per proteggere le petroliere giapponesi, ricorda i rapporti di amicizia con l’Iran, The Guardian definisce “sorprendente” la dichiarazione del Primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu, secondo il quale, come ha detto nel corso di una riunione del suo gabinetto, “l’assassinio di Solimani non è un evento israeliano ma un evento americano. Non eravamo coinvolti e non dovevamo finirci dentro “.
ll Jerusalem post, però, riporta il controcanto dell’ex Capo di stato maggiore d’Israele, Ilan Lavi, il quale avverte: “Se gli Stati Uniti ritirassero le loro forze e l’Iran continuasse la marcia attraverso l’Iraq e la Siria, Israele alla fine si ritroverebbe in guerra lungo tutto il suo confine settentrionale”. Lavi, così, aggiunge:”Gli Stati Uniti costituiscono il principale deterrente nella regione e il loro ritiro porterebbe a un’escalation, dal momento che gli iraniani continueranno a perseguire le loro aspirazioni a raggiungere l’egemonia regionale”.
E’ vero che in un’intervista al Corriere della Sera Ahmad al Assadi, deputato del Parlamento di Baghdad per la coalizione Al Fatah vicina alle milizie iraniane ha sostenuto che gli italiani potrebbero restare, come tutti gli altri europei, a patto che “se ne vadano subito gli americani”. E’ chiaro, però, che quando volano missili da una parte e dall’altra la questione cambia completamente.