Anche la scienza vacilla? Legioni di virologi, immunologi, infettivologi, epidemiologi, rianimatori hanno occupato da febbraio ininterrottamente ogni spazio mediatico disponibile e l’hanno fatto quasi sempre in modo misurato, puntuale e, ad un tempo, prudente, garantendo una comunicazione complessivamente efficace, che non ha avuto poco merito nel consentire che il Paese affrontasse con compostezza una prova mai sperimentata prima ed in sé difficile.

Soprattutto questi “specialisti” sono diventati spesso star televisive eppure avrebbero meritato almeno altrettanta attenzione i medici di base ed i loro colleghi in prima linea nei Pronti Soccorso ospedalieri, cioè i sanitari che affrontano i pazienti in un impatto immediato che precede la diagnosi differenziale, se si tratti o meno di Covid-19. Insomma, quella fascia di professionisti in cui prevalentemente si contano gli oltre duecento morti da Covid – 19.

Gli specialisti intervengono in seconda linea, quando sanno di doversi proteggere e come farlo. Senonché le parole del professor Crisanti, nel momento in cui ci si avvicina al passaggio delicato delle vaccinazioni, hanno provocato una cascata di reazioni e di commenti che testimoniano come questa nostra età della comunicazione abbia in sé un elemento di potenziale equivoco e, dunque, di fragilità pericolosamente annidato in ogni piega del discorso pubblico.

Crisanti ha detto una cosa del tutto ragionevole. Forse in modo affrettato, ma questo lo impone il linguaggio televisivo. Senza considerare che destinataria del messaggio, dato in quel  modo, era la “gente”, cioè un’ entità indistinta e sgranata di individui mille volte diversi l’uno dall’altro, indotti ciascuno a proiettare in quella dichiarazione il vissuto delle proprie ansie e dei propri timori, al di là del contenuto oggettivo che sarebbe stato altrimenti considerato, ad esempio, in un contesto scientifico. 

Non è detto che uno scienziato debba essere, di per sé, esperto di comunicazione. Cosicché, basta una frase appena fuori luogo a rovesciare la frittata ed accrescere a dismisura  nella pubblica opinione quell’atteggiamento ambiguo nei confronti della scienza che, peraltro, non è nuovo. Da un lato una fiducia acritica in una supposta onnipotenza della scienza e della tecnica soprattutto; dall’altra, una sorta di timore reverenziale e di sospetto, di temuta manipolazione.

In effetti, la scienza non si è mostrata divisa, né vacillante, senonché – soprattutto quando ci si allontana dal campo delle “scienze esatte” e si affrontano i campi della biologia e della vita – non è necessariamente così metallicamente oggettiva e certa, come comunemente si vorrebbe. Non scende dall’ “empireo”, calzata e vestita. E’ opera dell’uomo, dunque storicamente contrassegnata ed aperta a quel tanto di soggettività interpretativa dei dati che non può mai mancare.

Del resto, questi ultimi, per quanto sperimentalmente accertati, sono sempre parziali, nella misura in cui rispondono all’assunto originario che seleziona e definisce il campo di indagine da cui li si ricava. Questo non giustifica un atteggiamento di sfiducia nei confronti della scienza che, del resto, è sostanzialmente “globalizzata” fin da prima che scoprissimo la globalizzazione tout-court e si avvale di un imponente apparato planetario di verifiche incrociate tra esperti che ben difficilmente consentono di spacciare svarioni per oro colato. Purché anche la scienza abbia – in quanto opera umana e, dunque, inevitabilmente segnata dalla nostra finitudine – consapevolezza dei suoi limiti e, dunque, coltivi quell’umiltà necessaria a consentire che il dubbio continui ad arrovellare il suo cammino ed a sospingerlo via via più avanti.

Si potrebbe dire infatti, in un modo semplicistico, ma che ha del vero, che c’è vera scienza solo laddove la risposta ad un quesito suscita almeno due nuove domande su cui è necessario prolungare la nostra indagine.

La coscienza del limite , cioè la consapevolezza che la realtà è di una ricchezza inesauribile cosicché la nostra ricerca non avrà mai fine, deve poi introdurre alla cognizione di quella straordinaria interdipendenza dei fenomeni, di quelli naturali e di quelli sociali – “tutto si tiene” – in cui consiste il fascino della complessità, nella quale siamo immersi e che, in questa nostra epoca, in modo particolare, via via impariamo ad apprezzare. Nel contempo, a temere, assecondando quella dialettica dei contrari che illumina la sfida epocale che contrassegna il crinale della storia che ci tocca, come figli del nostro tempo tormentato eppure esaltante.

La scienza, nella misura in cui rappresenta una – non la sola, ma qui il discorso si farebbe lungo – delle frontiere più avanzate del nostro sforzo conoscitivo deve “amare” la complessità, accoglierla, seguirla come fosse un filo d’Arianna, dipanarla un passo dopo l’altro, rinunciando ad una semplificazione che tralasci quel tanto di contemplativo che non manca mai nella ricerca di base, per ridursi ad ancella di una traduzione tecnica, in chiave di immediato utilitarismo, delle sue acquisizioni. D’ altra parte, per tornare al dramma della pandemia, andrebbe anche detto che, una volta tanto, politici e tecnici hanno dato prova di una discreta capacità di relazionarsi, senza prevaricazioni, rispettando i rispettivi ruoli, assumendo ciascuno la propria parte di responsabilità, senza giocare a passarsi il cerino. Forse molti non condivideranno, ma Palazzo Chigi ha avuto qualche merito in questa non facile composizione.

Anche la politica deve coltivare il sentimento del limite che le appartiene e la puntuale considerazione di quella interdipendenza che, legando gli eventi in una serie di con-cause indipendenti, produce la non-linearità di molti fenomeni sociali che li rende impredicibili e complessi. Via via qualcosa in più stiamo imparando – grazie alla pandemia ? – anche in questo campo.

Sul piano dei contenuti da affrontare congiuntamente ed anche sul piano del metodo, politica e scienza hanno, l’una e l’altra, versanti da condividere o almeno da esplorare insieme, purché la prima sappia che viene pur sempre il momento del dunque ed a quel punto non ci sono scuse: tocca a lei ed a chi la interpreta sul piano istituzionale farsi carico della responsabilità di decidere e di rispondere degli esiti cui le determinazioni assunte conducono.

Domenico Galbiati

About Author