Pubblichiamo la prima parte della nota elaborata dal prof Flavio Felice da coordinatore del  Dipartimento Scuola di Insieme.

Priorità scuola
In una società come la nostra in cui il ruolo di ciascuno dipenderà dalle conoscenze acquisite,
l’investimento nell’intelligenza, nell’istruzione e nella formazione avrà un ruolo chiave per far sì
che ciascun individuo possa costruire la propria qualifica nell’attuale “società conoscitiva”.
Pertanto, l’attenzione ai bisogni concreti delle persone ci induce a sottolineare l’importanza della
scuola e del sistema formativo delle nuove generazioni. Colpevolmente la politica di questi anni se
ne è dimenticata. Quindi, la scuola torni a educare e l’università persegua un equilibrio tra specializzazione e
sviluppo umano, senza mai perdere di vista la “società della conoscenza”.

Le scuole devono tornare ad essere luoghi di educazione, e non solamente di istruzione, con al centro
il valore della persona: docente e discente. Urge un patto educativo globale, nato da un serio
confronto tra Stato-Regioni-Realtà locali e tra docenti-discenti/genitori, nonché il mondo lavorativo,
che dovrebbe contribuire a ridare priorità e dignità alla nostra scuola. Si potrebbe pensare ad un
sistema scolastico europeo, da elaborare a seguito di confronto costruttivo con realtà scolastiche del
nord Europa i cui sistemi educativi sono all’avanguardia e universalmente riconosciuti come tali.
Si porterebbe così a compimento la ratio che ha indotto il Parlamento e il Consiglio europei ad
esprimersi con le Raccomandazioni del 2006 e del 2018 per il riconoscimento di hard e soft skills
sul territorio Ue; troverebbero la naturale collocazione le certificazioni Europass, i label lingue per
la promozione del multilinguismo e, infine, la libera circolazione e il riconoscimento della parità di
trattamento in ambito UE per l’accesso al lavoro e ai benefici sociali e fiscali individuati dall’art.45
del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

Priorità alla scuola significa che lo Stato e le istituzioni locali devono porre al centro della loro
attenzione il reperimento di accresciute risorse finanziarie e fisiche, insieme ad un profondo
rinnovamento dei meccanismi di reclutamento del personale docente, e ad un più attento sistema di
valutazione dei risultati (ivi compreso il recupero dell’abbandono scolastico) e a un serio
programma di borse di studio per i meno abbienti e i meritevoli.

Priorità alla scuola vuol dire poter mettere realmente al centro l’alunno, vale a dire poter costruire
ambienti di apprendimento motivanti e rispondenti ai bisogni educativi del discente; vuol dire
contrastare la dispersione scolastica; far sì che la scuola sia realmente “di tutti e di ciascuno”.
Perché ciò sia possibile, è basilare fornire ai ragazzi anche strumenti e occasioni per individuare i
propri punti di forza e di debolezza, il proprio stile cognitivo, le proprie attitudini ed i propri talenti,
in modo da metterli in grado di auto-orientarsi e di maturare la capacità di elaborare il proprio
progetto di vita, di operare delle scelte a partire dalla conoscenza non solo della realtà in cui vivono
ma soprattutto di se stessi.

Priorità alla scuola vuol dire costruire percorsi didattici che puntino a far acquisire la maturazione
personale, l’autonomia e lo sviluppo delle competenze del “saper fare” e del “saper imparare”,
dell’imparare a valutare ed ad auto valutarsi, vuol dire sviluppare un vero “percorso di
orientamento” finalizzato a dotare gli allievi di adeguati strumenti per conoscere meglio se stessi,
per imparare a pensare, al fine di orientarsi in una realtà complessa ed individuare il percorso di
studio e/o di lavoro più consono a ciascuno. Priorità alla scuola vuol dire spianare la strada, nel
senso letterale del termine, a quanti sono a rischio di abbandono: potenziare le infrastrutture, i
sistemi viari e di trasporto, la banda larga; vuol dire accorciare le distanze fisiche e gli ostacoli,
anche materiali, che si frappongono al raggiungimento degli obiettivi di welfare.
In tale prospettiva, i dati che emergono dalle rilevazioni periodiche nazionali e internazionali
devono indurci a riflettere: nel 2015 su un campione di 12 milioni di quindicenni di settanta Paesi
con redditi alti o medi, uno studente su due non era in grado di svolgere neppure compiti elementari
in lettura, matematica e scienze (rilevazioni OCSE PISA).

D’altro canto, ci sono anche Paesi virtuosi che hanno migliorato i loro risultati, raggiungendo alti
livelli di equità e di prestazioni. Ciò ci conferma la necessità e l’urgenza, oggi più che mai, di preparare i nostri giovani ad affrontare l’incertezza di un mondo in cui dominano tecnologie e globalizzazione. Non possiamo
prevedere di quali conoscenze essi avranno bisogno, ma è indubbio che dovranno continuare ad
apprendere in quasi tutte le fasi della loro vita. Di qui la necessità di educare negli studenti le
disposizioni della mente, sviluppando le doti della creatività, della flessibilità, della consapevolezza,
del senso di responsabilità, dell’interdipendenza, strumenti indispensabili per assumere
comportamenti efficaci nella vita e sul lavoro.

In tale prospettiva, si chiede alla scuola di educare gli studenti a diventare persone autonome,
responsabili e capaci di interagire con gli altri. Occorrono, pertanto, politiche educative adeguate e
lungimiranti. Non si tratta più di sviluppare la capacità di riprodurre i contenuti del sapere, bensì
quella di utilizzare le conoscenze acquisite per applicarle nella risoluzione di situazioni inedite.
Pensiamo ai nostri laureati disoccupati e nel contempo alle aziende che faticano a trovare persone
con le competenze necessarie. Non sono richiesti studenti con un notevole bagaglio di nozioni,
capaci di riprodurre quanto hanno vissuto a scuola, bensì giovani capaci di riutilizzare le loro
conoscenze per risolvere problemi nuovi, preparati a svolgere lavori oggi inesistenti, ad utilizzare
tecnologie non ancora inventate. In tale prospettiva, urge promuovere e valorizzare anche
l’istruzione tecnica e i corsi professionalizzanti, se vogliamo che sopravviva la struttura produttiva
italiana. E’ impellente coinvolgere i migranti in tali percorsi, partendo dalle attitudini manifestate e
dalle competenze dichiarate, potenziando i percorsi CPIA e istituendo accordi con associazioni di
volontariato e di categoria che vogliano assumersi l’onere della formazione di soggetti destinati
altrimenti ai margini della società.

Quale lezione possiamo apprendere dai paesi virtuosi, pur non potendo replicare in un contesto
diverso il loro modello?
Il punto di partenza è sicuramente l’importanza dell’educazione. I Paesi che hanno ottenuto i
migliori risultati, hanno operato scelte politiche conseguenti allo scopo di valorizzare l’istruzione, di
offrire servizi educativi di qualità.
Che l’educazione torni, quindi, ad essere una priorità, che gli insegnanti siano lavoratori altamente
qualificati e ben retribuiti, con il doveroso riconoscimento sociale per il ruolo delicato e prezioso
che sono chiamati a svolgere. Di qui la necessità di avere personale estremamente qualificato. Urge,
pertanto, rivedere il sistema di reclutamento, di selezione, che superi la logica dei quiz a tempo e dei
test preselettivi a favore dell’effettivo accertamento di attitudini e competenze, di formazione
iniziale, di tutoraggio ma anche di controllo e di valutazione dell’operato dei dirigenti e dei docenti.
Urge prevedere, anche per questa categoria, un sistema di carriera che non sia un automatismo
legato all’anzianità di servizio, con la creazione di una leadership intermedia. Urge fissare degli
standard professionali specifici che indichino che cosa deve sapere e saper fare tanto un docente
quanto un dirigente scolastico; favorire la costituzione di una comunità professionale educante, che
possa operare in sinergia con i diversi attori del Territorio in un rinnovato Patto di corresponsabilità
educativa.

Inoltre, in una prospettiva di dignità e libertà della scuola si deve andare verso il superamento della
dicotomia, propria di una vecchia cultura, tra scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria, di
ogni orientamento religioso o culturale che sia. Va riconosciuto il ruolo pienamente pubblico anche
di quest’ultima per la sua funzione essenziale di integrazione dell’offerta educativa e di garanzia del
pluralismo di pensiero e di formazione in piena applicazione del dettato costituzionale. Tutta la
scuola deve avere i mezzi per svolgere appieno la sua funzione educativa. Potenziare e favorire reti
di collaborazione tra scuola privata e scuola pubblica perché si rimuovano i pregiudizi verso la
prima.

Infine, le università e tutto il sistema pubblico e privato della ricerca devono essere aiutati a
crescere, garantendo loro piena autonomia, risorse adeguate e una forte apertura al reclutamento dei
giovani. Borse di studio adeguate dovrebbero facilitarne l’accesso alle università, queste dovrebbero essere
incoraggiate a combinare il necessario sviluppo delle specializzazioni con una formazione generale
che guardi all’uomo integrale, in vista di quella formazione permanente sempre più necessaria in un
mondo in continua trasformazione. L’evoluzione tecnologica richiede il sostegno di progetti
formativi adeguati pensati in accordo tra istituzioni pubbliche, sistema delle imprese ed enti
universitari e di ricerca. I giovani che lavorano nelle università non sono un costo: sono la ricchezza del futuro, la
producono e la rendono disponibile. Favorire la ricerca e sostenere la carriera dei ricercatori perché
sia rivalutata sotto il profilo contrattuale e sia trasparente, meritocratica e stabile. Investire
nell’istruzione, vuol dire rendere possibile un futuro per i nostri giovani.

Scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria

1. La scuola di Stato è un patrimonio grande e prezioso che va protetto, salvato; solo che quanti
difendono il monopolio statale dell’istruzione non aiutano la scuola di Stato a sollevarsi dalle
difficoltà in cui versa. Nessuna scuola sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, una
segreteria più operosa, una biblioteca ben fornita, un laboratorio ben attrezzato, insegnanti più
preparati, ecc. bastano a fare la differenza. Me se nessuna scuola sarà mai uguale all’altra, non sarà
allora che tutte potranno migliorarsi attraverso la competizione? In breve, non esistono forse buone
ragioni per affermare che è tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di
migliorare il nostro sistema formativo: la scuola statale e quella non statale?
La realtà è che, è bene insistervi, il monopolio statale dell’istruzione è la vera, acuta, pervasiva
malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di
libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola. E favorisce
l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non
pochi genitori.
Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà: unicamente l’esistenza della scuola libera
garantisce alle famiglie delle reali alternative sia sul piano dell’indirizzo culturale e dei valori che
sul piano della qualità e del contenuto dell’insegnamento.
Il monopolio statale dell’istruzione viola le più basilari regole della giustizia sociale: le famiglie che
iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte –
per un servizio di cui non usufruiscono – e una seconda volta con la retta da corrispondere alla
scuola non statale.
Il monopolio statale dell’istruzione devasta l’efficienza della scuola: la mancanza di competizione
tra istituzioni scolastiche trasforma queste ultime in nicchie ecologiche protette e comporta di
conseguenza, in genere, irresponsabilità, inefficienza e aumento dei costi. La questione è quindi
come introdurre linee di competizione nel sistema scolastico, fermo restando che ci sono due
vincoli da rispettare: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione.

2. Chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato: è semplicemente contrario al
monopolio statale nella gestione della scuola. E questa non è un’idea di bacchettoni cattolici o di
biechi e ricchi conservatori di destra. É la giusta terapia per i mali che necessariamente affliggono
un sistema formativo intossicato dallo statalismo. Scriveva Gaetano Salvemini su «L’Unità» del 17
ottobre 1913: «Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano
sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente
eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da
perdere». Sempre su «L’Unità» (17 maggio 1919), Salvemini tornerà ad insistere sul fatto che «il
metodo migliore per risolvere il problema […] è sempre quello escogitato dai liberali del nostro
Risorgimento: non vietare l’insegnamento privato, ma mantenere in concorrenza con esso un
sistema di scuole pubbliche». La verità è che la concorrenza è la migliore e più efficace forma di
collaborazione; è, come dice F.A. von Hayek, una macchina per la scoperta del nuovo da cui
scegliere il meglio – e questo vale nella ricerca scientifica, nella vita di una società democratica e
sul libero mercato. Nell’ambito del sistema formativo strutturato su linee di competizione, la scuola
privata – è ancora Salvemini a parlare – «rappresenterà sempre un pungiglione ai fianchi della
scuola pubblica. Obbligandola a perfezionarsi senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta».
Di conseguenza: «se nella città, in cui abito, le scuole pubbliche funzionassero male, e vi fossero
scuole private che funzionassero meglio, io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a
studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio
servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se i miei figli saranno
educati male». Insomma, con Salvemini si trova d’accordo Luigi Einaudi allorché afferma che il
danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno creato da ogni altra
specie di monopolio». E non è da oggi che contro le disastrose conseguenze del monopolio statale
dell’istruzione si sono schierati, in contesti differenti, grandi intellettuali come Alexis de
Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e tra altri ancora, Bertrand Russell,
Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani.

3. «È tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste,
non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse». E ancora: «Basta guardarsi in giro e si scopre
che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole
pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio». Questa una
coraggiosa e lungimirante dichiarazione fatta tempo addietro da Luigi Berlinguer, al quale è legata
la Legge 62/2000, in cui si definisce il passaggio dalla “Scuola di Stato” a “Sistema Nazionale di
Istruzione” costituito dalla “Scuola Pubblica Statale” e la “Scuola Pubblica Paritaria”. Solo che
dichiarare giuridicamente uguali Scuola Statale e Scuola Paritaria finanziando solo la prima e
lasciando morire di inedia la seconda è un ulteriore inganno perpetrato da una politica cieca e
irresponsabile. E qui va detto che tra le diverse proposte – tese a sradicare in ambito formativo il
diffuso, insensato e deleterio pregiudizio stando al quale è buono solo ciò che è pubblico ed è
pubblico solo ciò che è statale – la migliore è sicuramente quella del “buono-scuola”. Idea avanzata
da Milton Friedman e ripresa successivamente Friedrich A. von Hayek e sulla quale, da noi, ha
insistito negli anni passati Antonio Martino. Con il “buono-scuola” i fondi statali sotto forma di
“buoni” non negoziabili (vouchers) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli
studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro
“buono”. Ed è così, che pressata nel vedere diminuire l’iscrizione alla propria scuola o vedere
allievi già iscritti scappare da essa, ogni scuola sarà spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti. In
poche parole: quella del “buono-scuola” è una misura in grado di coniugare libertà di scelta,
giustizia sociale ed efficienza del sistema formativo. Una domanda ai politici di sinistra da sempre
ostili all’idea del “buono-scuola”: ma quando riuscirete ad aprire gli occhi e capire che il “buono-scuola” è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti? E una domanda ai politici liberali e
a tutti gli altri sedicenti tali: uno Stato nel quale un cittadino deve pagare per conquistarsi un pezzo
di libertà è ancora uno Stato di diritto? ( Segue )

Flavio Felice

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