La sinistra – o meglio il PD – non esce malconcio dalla recente consultazione amministrativa. In modo particolare – emblematico il caso di Brescia – dove oltre ad un consolidato radicamento territoriale vanta una storia di ottima amministrazione locale. Non c’entra poco o nulla il cosiddetto ”effetto Schlein”, se non per un generico gusto per la novità che, forse, ha risvegliato qualche attenzione sopita. Non così il Movimento 5 Stelle, a conferma del fatto che quando un partito sostanzialmente di destra, gioca a fare la sinistra, finisce in caricatura.
Ora da sinistra risuonano appelli a serrare i ranghi contro “questa destra”. Ed è del tutto comprensibile che ciò avvenga, da parte delle varie componenti di quel mix di culture che si sono mischiate nel PD. Anche da parte di esponenti cattolici.
Senonché, almeno per ora, non c’è traccia di una riflessione che vada appena oltre la chiamata alle armi dei militanti e poi degli elettori, secondo un encomiabile spirito volontaristico e di riscossa. A sinistra, non possono fingere che “questa destra” sia cascata dal cielo per troppo peso, quasi che si possa imputarne il successo ad una sorta di “destino cinico e baro”. Non ha possibilità di rivincita senza un’adeguata comprensione “politica” del processo che ha portato la Meloni a Palazzo Chigi.
E, dunque, senza la consapevolezza degli errori con cui il centro-sinistra – o sinistra che sia – ha dato un formidabile concorso all’ avvento di “questa destra”, quasi offrendo l’ Italia ai Fratelli su un piatto d’argento. Né pensino di gettare la croce, ad esempio, sulle due ultime segreterie, Zingaretti ed Enrico Letta, come se il PD avesse disgraziatamente inciampato a due passi dal filo di lana. Più che di errori, si dovrebbe, infatti, parlare, al singolare, di “errore”. Di un errore strutturale e sistemico che viene da lontano.
Come succede ogni qual volta si fraintendano i “fondamentali” della politica e ci si mette di traverso rispetto ad una logica di fondo, che, prima o poi, chiede conto del vulnus subito. Il PD deve pur chiedersi quale sia il tarlo che ha talmente corroso la sua intera parabola, fino a consegnare il Paese agli epigoni del MSI. E l’ errore, il peccato d’origine dell’ intera vicenda è lo stesso PD, il partito che non c’è. Sempre che per “partito” si intenda, secondo la tradizione nostra e delle grandi democrazie europee, una forza organizzata che traduce sul piano della proposta politica, una concezione complessiva del momento storico, delle sue sfide, dei suoi possibili esiti, giudicati, appunto, secondo la cifra della visione che li precede. E non un mero aggregato elettorale.
Bisogna, al contrario, prendere atto che l’ attesa fusione strategica tra le grandi culture popolari approdate al PD, quella cattolico-democratica e quella di derivazione marxista, è fallita, né poteva essere diversamente.
Non a caso, paradossalmente, per un inequivocabile processo di eterogenesi dei fini, è proprio sul piano della rappresentanza degli interessi “popolari”, che avrebbero dovuto costituirne la ragione sociale che il PD ha fallito.
Entro lo schema bipolare, come si pone tuttora, dopo vent’ anni e piu’ di “berlusconismo” rischiamo di sorbirci altrettanto “melonismo”.
Bisogna cambiare gioco e suscitare una trasformazione del nostro sistema politico, sottraendolo alla tenaglia del bipolarismo maggioritario e liberando le culture politiche da quell’ abbraccio innaturale, grazie al quale, a sinistra, si sono elise a vicenda. Non a caso, il PD ha finito per essere, o almeno apparire, il paladino dei diritti civili, fino al punto di intestarvi la propria identità. Ed assecondando, in tal modo, un’ interpretazione della libertà come mera “autodeterminazione”, così da indebolirne lo stesso concetto.
La “biodiversità”, si potrebbe dire, è un valore anche in politica. Le differenze, piuttosto che essere accantonate o nascoste sotto il tappeto, come succede in un processo di fusione forzosa, pari a quello da cui il PD ha preso forma, vanno affrontate. Vanno prese di petto, con franchezza, considerate, senza timori, per quel che sono. Facendone, in tal modo, un fattore di forza, piuttosto che di debolezza, attraverso un processo di mediazione che cerchi di coglierne il possibile tratto comune ed un eventuale approdo condiviso.
Ma questo può avvenire solo in un rapporto di “coalizione”, attraverso il quale forze consapevolmente diverse, si confrontano e cercano, nell’interesse generale del Paese, i punti di utile convergenza, mantenendo ciascuna la propria autonomia di cultura e di elaborazione politica.
Domenico Galbiati