Un recente articolo del Corriere della Sera evidenziava come la fase della ricostruzione post bellica fu seriamente indirizzata al rilancio economico della nazione. Al contrario, le scelte dell’attuale esecutivo non riescono a dare né certezza né speranza di effettivo rilancio economico, ma solo di assalto qualunquistico alle opportunità di credito statale. Ma se i risultati delle scelte operate sono questi, c’è da interrogarsi sulle ideologie che sostengono tali scelte.

La tesi è che dal 1992 si è instaurato in Italia un vero e proprio regime politico che ha scelto di continuare la metodologia della gestione economica, perfezionata nel 1935 ed elevata a sistema dopo il 1978, che prevede una centralità finanziaria del capitale misto a danno del capitale privato. Questa scelta, che porta l’Italia in un sistema economico in grado di stare in piedi solo a condizione di una crescita continua del debito pubblico e di una cronica depressione delle aziende piccole (messe sostanzialmente nella impossibilità di crescere), spinge i grandi gruppi privati ad instaurare un neo feudalesimo grazie ad intrecci sempre più fitti con il potere politico.

Analizziamo questi fenomeni e verifichiamo tale tesi dallo specifico punto di osservazione del settore immobiliare.

Il titolo di questo contributo evidenzia che abbiamo avuto due gestioni: storicamente possiamo infatti dividere i circa ottanta anni (dal 1947 ad oggi) in due periodi quasi equivalenti divisi dall’anno spartiacque 1992 (anno, fra l’altro, della riforma bancaria e assicurativa).

La prima gestione post bellica è affidata a personalità come Luigi Einaudi, De Gasperi e Fanfani che guidarono la ricostruzione in direzione di una forte rivalutazione del patrimonio immobiliare nazionale e di una concentrazione d’investimenti sul settore edilizio e manifatturiero.

La seconda gestione – caratterizzata invece dal consolidamento dello statalismo attraverso il controllo delle aziende pubbliche – ha visto una crescita esponenziale del prelievo fiscale, in primis sugli immobili. Quindi una progressiva emarginazione economica del settore immobiliare e delle manifatture collegate. Questa seconda fase è gestita da personalità non meno rilevanti (Ciampi, Napolitano, Berlusconi, Monti) e giunge fino ad un presente interamente inscrivibile (anche simbolicamente) dentro la figura di Mario Draghi.

Si aggiunga a questo schizzo che il sistema è perfezionato fra il 1996 e il 2009 e che il completo depauperamento del mercato immobiliare si realizza attraverso il sistema bancario. L’attuale crisi, che si evidenzia con la gestione della pandemia, è solo uno dei passaggi di un ben più vasto processo di distruzione di valore – in Italia e in Europa – a tutto vantaggio di un nuovo regime globale di carattere pervasivamente finanziario.

Ancora, focalizzando l’analisi sul settore immobiliare, ricordiamo alcuni interventi legislativi:

  • 1949, legge Tupini (sostanziale esenzione delle tasse sugli immobili di nuova costruzione), riserve matematiche bancarie e assicurative;
  • 1963, piano casa;
  • 1967, legge sulla prima casa.

Si tratta di una serie di interventi che concedono esenzioni per facilitare l’accesso all’immobile; amministrativamente il sistema è veloce e semplice, nonostante una normativa urbanistica presente e funzionante (legge del 1942). Vogliamo fare un raffronto con le estenuanti discussioni odierne sull’araba fenice “semplificazioni”? Forse non sarebbe il caso di domandarsi se conditio sine qua non delle semplificazioni è una “volontà politica” in tal senso? E se quella che oggi manca è proprio tale volontà? E, magari, cercare di indagarne le cause un po’ meno superficiali (cioè gli interessi che tale situazione serve)?

Dal 1978 inizia un processo di onerizzazione del costo costruttivo con la legge Nicolazzi e poi con l’equo canone. Da quel momento la realtà immobiliare dapprima frena il proprio dinamismo e poi (dal 1992) inizia un processo di continuo declino. Particolarmente rilevante, nel 1992 appunto, la nuova legislazione in materia bancaria e assicurativa che, eliminando le riserve matematiche, autorizza la liquidazione soprattutto del patrimonio immobiliare abitativo, immettendo sul mercato immobili di pregio a prezzi sostanzialmente di realizzo e aprendo un vero e proprio mercato parallelo.

La legislazione nazionale del periodo post 1992 è ondeggiante a causa delle diverse finalità che persegue (recupero clientelare, pressioni delle grandi realtà esenti, accordi di potere con le società immobiliari). Le norme più importanti sono la legge 431/98 per le locazioni, i successivi interventi in materia condominiale, le normative per il recupero crediti, la grande svolta fiscale di Monti con l’eccezionale invenzione dell’IMU, fino alle cessioni di credito d’imposta del periodo più recente.

L’attuale programma economico in materia immobiliare parte da una realtà economicamente (ma anche ideologicamente) diversa. L’assenza di liquidità nel sistema oltre alla impossibilità di accedere a crediti, sia privati che pubblici, fa da sfondo a tutta la situazione. Lo Stato si trova nella necessità di entrate fiscali indifferibili mentre il settore immobiliare, d’altra parte, soffre enormemente della impossibilità di avere redditi e di reperire risorse da reinvestire.

La soluzione proposta è quella del credito accessibile per cessione di crediti d’imposta per lavori di ristrutturazione. La scommessa è quella di creare denaro da immettere nel sistema. Il documento più noto è l’ipotesi del Bonus del 110 %. Ancora non sono chiari i dettagli (decisivi) di carattere applicativo.

Lo Stato crea un valore economico che deve onorare, ma se si riserva di impugnarlo a priori e dopo i termini di godimento del beneficio come è previsto nella norma stessa, il titolo non è più valido come tale, e fortemente ridotta la sua spendibilità. Ebbene, la risposta al “problema immobiliare” maturata nella prima delle due fasi storiche indicate ha una impronta fortemente cattolica. Soprattutto per periodo 1947-1978; la stretta connessione fra accesso alla proprietà e risparmio rappresenta lo svolgimento pratico dei principi della Rerum Novarum e gran parte di quella spinta a concepire il recupero immobiliare come via maestra verso la conquista di un nuovo stato di benessere individuale è il segno evidente di una cultura cattolica in ottima salute e capace di esprimere una vera egemonia su ampi strati di ceto medio e di proletariato.

La stessa Costituzione (articolo 42, norme sul risparmio, sulla piccola proprietà e sulla casa di abitazione) evidenzia proprio in questi profili la sua larga ispirazione cattolica, così come (parallelamente) le riserve matematiche per le banche e le assicurazioni mantenevano reddito e patrimonio a livello di rivalutazione costante ed esprimevano in ciò la loro profonda derivazione liberale.

La storia ha evidenziato invece come l’eredità fascista del capitale misto ha distorto la seconda parte della gestione della Prima Repubblica, dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica. L’interesse politico verso la creazione di realtà di godimento economico, soprattutto legate alla gestione delle società nazionalizzate, ha portato lo stato italiano varie volte sull’orlo della bancarotta, oltre che accrescere i condizionamenti esercitati dalla forte presenza comunista nell’apparato politico e amministrativo di governo.

Se la conservazione di questo nucleo economico – che per brevità definiamo “del capitale misto” – ha portato addirittura alla deflagrazione della Prima Repubblica, essa – nel frattempo – aveva prodotto il totale cambiamento dell’atteggiamento dello stato nei confronti della realtà immobiliare.

La necessità di aumentare la liquidità bancaria e assicurativa per sottoscrivere debito pubblico – ma anche la necessità di adeguare le imprese finanziarie e industriali al mercato globale – hanno imposto scelte strutturali sull’investimento immobiliare di tipo nuovo: il settore abitativo, praticamente ingestibile per i contenziosi legali, è stato abbandonato al suo destino. Grandi interessi si sono invece concentrati nell’investimento sul non abitativo.

La cosa diventa evidente tra 1996 e il 2005 con la ristrutturazione amministrativa (cosiddetta “riforme Bassanini e successivamente Titolo V) che cambia il sistema amministrativo dello stato e segna il definitivo abbandono dell’edilizia residenziale pubblica. Tra il 2009 e il 2011 il sistema pubblico, per recuperare il controllo della amministrazione delle realtà controllate, lancia un programma di drenaggio del liquido circolante a vantaggio tedesco e costringe le banche a eliminare tutti i debiti a lungo termine cioè, guarda caso, i fondiari.

Il ricorso all’indebitamento dello Stato deflagrato dopo 1992, il controllo sul circolante anti inflattivo dal 2002 con un deprezzamento del nostro patrimonio e del nostro potere di acquisto del 50 % (immissione nell’area euro) hanno colpito sempre di più il settore immobiliare, soffocato dall’assenza di liquidità indotta dal nuovo regime.

Questa diventa la condizione cronica dell’economia italiana che si indirizza sempre di più alla ricerca di investitori stranieri e finanziari, che sistematicamente drenano ed esportano i profitti.

Sarebbe interessante aprire un grande cantiere di riflessione ed elaborazione politica su come tutti questi cambiamenti si sono accompagnati ad uno sgretolamento della presenza cattolica su ampi strati della società italiana e ad un parallelo affermarsi di una diversa egemonia che forse possiamo definire di “qualunquismo assoluto ammantato di modernizzazione anglosassone”. Una modernizzazione, invero, fasulla, che accresce lo stato di alienazione e di infelicità diffuse, centrata su un individuo ricostruito come sommatoria di “diritti” avanzati sistematicamente nei confronti dello – o meglio, contro – lo stato.

A questa nuova ideologia egemone si informa anche lo sbandierato Bonus 110%, concepito come mera gratificazione a spese dello stato: una simulazione di immissione di denaro nel circuito economico attraverso recuperi fiscali che viene a creare veri e propri derivati che (al pari di tutti gli altri) distruggeranno ulteriormente il patrimonio immobiliare. In alternativa, l’operazione potrebbe dar vita a denaro virtuale, una valuta spendibile che reggerà 5 anni, attraverso cui lo stato realizzerebbe un nuovo boom (nelle intenzioni degli apprendisti stregoni 5 stelle) o – molto più realisticamente – crollerà sotto il peso di nuovo, ingente, debito.

L’improvvisazione della norma sia sul piano tecnico che sul piano finanziario fa pensare che non vi sia una conoscenza delle difficoltà in cui versano sia il sistema bancario (che, non a caso, recalcitra), sia il sistema immobiliare.

Perché torna utile oggi ripercorrere la storia delle politiche pubbliche per il settore immobiliare? Perché tale storia ci indica i caratteri di fondo – sul piano delle scelte politiche – della cultura liberal cattolica, del rispetto del lavoro giusto che spinge a far avere agli uomini un corretto ristoro e scopo nel lavoro, quello che aveva ispirato dopo lunga discussione il testo costituzionale.

Per contrasto, illumina anche l’attuale progetto di società, infarcito di un qualunquismo che poggia interamente sullo sfruttamento dello stato, concepito come res nullius che tutti possono godere.

I valori che tengono insieme un investimento immobiliare sono la famiglia, la prole, una certa idea di comunità nazionale. Valori oggi sostituiti da altri come la ricerca di piacere e di godimento quale orizzonte ultimo della libertà dell’individuo. Il venir meno di ogni significato della parola “comunità”, accentuato oggi dalla disordinata confusione di etnie e religioni, rende ancora più laceranti le caratteristiche dell’assalto, considerato tuttavia legittimo, per l’assenza completa di ogni funzione mitigatrice da parte dell’attività statale in un ambiente sociale così complesso e non educato.

E’ l’intera strategia su un settore così importante nel nostro paese a risultare capovolta: finchè fu egemone l’ideologia cattolica operò una strategia costruttiva e propositiva di uno sviluppo sociale (oltre che di una valorizzazione economica). Oggi, i nuovi rilanci immobiliari “necessari alla nazione” hanno solo carattere speculativo: producono un valore apparente che si rovescerà sulle nuove generazioni in forma di ulteriore depauperamento.

In conclusione, l’ambizioso progetto del 110% rischia il naufragio per due motivi:

  • la incapacità di ricostruire in Italia quella coesione sociale che la classe politica non riesce più a dare;
  • l’incapacità dell’esecutivo di approvvigionarsi di denaro da immettere a fondo perduto nel progetto.

Intanto, la grande maggioranza – in difficoltà e impaurita del declino del bilancio pubblico e dalla pressione fiscale – cerca attraverso questa proposta l’accaparramento opportunistico. La convinzione che i propri figli dovranno cercare altrove lavoro e formazione dissolve qualunque prospettiva che l’immobile resti come bene-ancora per la sicurezza familiare e pertanto ogni investimento deve essere a recupero dello stato: una nuova opportunità di cui in tanti (è l’auspicio dei 5 stelle) ringrazieranno il brillante ministro che l’ha concepita.

Ivo Foschini

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