Il suo capolavoro è stata la vita. Vissuta con la coerenza per noi impraticabile. Per il rifiuto dei compromessi, il pensiero contromano, la ribellione al senso comune delle cose.
Cesare Trebeschi, l’ultimo dei patriarchi e titolare di uno dei cognomi che stanno nella storia di Brescia, è morto all’alba del venerdì santo, un giorno che allunga il mistero dell’angoscia lungo tutta la storia dell’uomo. Ed è, per la città, come aver oscurato una speranza di futuro, archiviato una testimonianza intrecciata con i giorni, come quando la calamita molla la limatura e si sparpaglia. Per ricordare Cesare, che è stato sindaco e amministratore pubblico, non basta la buona politica, serve l’ordine antropologico e culturale. Cesare Trebeschi appartiene alla Zeitgeist ,allo spirito del tempo in cui ha vissuto. Di certo una figura paradigmatica per l’esercizio della cittadinanza a Brescia dal dopoguerra ad oggi. Non per le molte cose fatte e le molte innovazioni apportate, ma per la moralità del comportamento, per quelle lettere alla città che, quasi quotidianamente, ha spedito agli interlocutori occasionali o agli amici intimi per suggerire percorsi alternativi, per sondare sentieri inesplorati, intorno alle scelte da fare od ai giudizi da esprimere o semplicemente ai pensieri da pensare.
Ai figli, ai tanti nipoti e pronipoti ha regalato ad ogni prima comunione un viaggio premio: una preghiera da recitare nel campo di sterminio di Gusen, dove il nonno Andrea , (il padre di Cesare) è andato a morire.
Tino Bino