Introduzione.

Il principio di laicità interessa la storia della cultura giuridica, politica e del costume sociale fin dall’antichità. Si afferma con l’autonomizzazione del diritto dalla sfera religiosa, quando i precetti giuridici nella cultura occidentale si distinguono da quelli religiosi o etici. Nella Grecia antica l’inizio di questo processo è fatto risalire attorno al 500 avanti Cristo alla cacciata del tiranno Ippia e all’avvento dell’età di Pericle che corrisponde all’età di Sofocle (469-399 a.C.) e del pensiero sofista.

Le leggi non erano più espressione della volontà degli Dei, di un ordine prestabilito nel cosmos ma di una volontà regolatrice da parte degli uomini. In Roma antica inizialmente lo ius non si distingueva dal fas e dal nefas. Il diritto era ciò che era lecito secondo il volere divino e frutto di interpretazione del Pontifex, che esercitava lo ius edicendi, in quanto sacerdote componente il collegio degli auguri. Il processo di laicizzazione del diritto inizia con Gneo Flavio, nel 304 a. C., edile curule e tribuno della plebe che riuscì a sottrarre ai Pontefici le formulae rendendole pubbliche nel Foro, specie quelle con cui i sacerdoti calcolavano il tempo.

Il processo di laicizzazione continuava alla metà del V secolo con la legge delle XII tavole e con la lex Ortensia fatta approvare dal dittatore Quinto Ortensio nel 286 a. C.; in essa si annoveravano tra le fonti del diritto i plebis-scita. Da quel periodo in poi l’attività giurisprudenziale prendeva le forme di sapere laico dai caratteri di scienza. Anche il Cristianesimo ha fornito una forte caratterizzazione alla laicità. Gesù di Nazareth nel Discorso della Montagna ha esaltato come principio fondamentale di tutte le norme, l’amore verso Dio e verso il prossimo. Così depotenziava l’insieme di regole minute di cui era intriso il Pentateuco cui erano legati i farisei. A delineare il concetto di laicità hanno contribuito i padri della Chiesa, per i quali non tutto ciò che costituiva peccato doveva essere punito dalla legge terrena e viceversa non sempre la violazione della legge terrena costituiva peccato.

Nel mondo islamico invece la distinzione tra sfera del diritto e sfera religiosa non esisteva e non esiste. Gli ordinamenti più integralisti affermano che la shari’a è la fonte principale del diritto e i precetti che se ne ricavano afferiscono a tutti gli aspetti della vita, sia religiosa che civile. Dio parla immediatamente e direttamente e la sua parola è norma immediatamente coercibile nella sfera giuridica e politica. Il diritto è interpetrato e studiato non da giuristi laici ma dai religiosi delle scuole coraniche. Il risultato della interpretazione è la fatwa, interdetto religioso e giuridico. L’Islam, in questi paesi è   religione di Stato e le altre confessioni possono essere tollerate e a certe condizioni solo protette (specie se si tratta di quelle del “libro”- Antico e Nuovo Testamento -). Non è tutelata la libertà religiosa e per un musulmano, cambiare religione è peccato e reato al contempo.[1]

Il presente scritto intende offrire uno spunto di riflessione sul principio di laicità tentando di delinearne l’atteggiarsi nella esperienza politica e giuridica italiana e comparata, interrogandosi sui modi della sua affermazione e della sua vigenza e sul significato e valore che esso può rivestire, avvertendo che trattasi di espressione polisenso. Può indicare l’autonomia dell’ordinamento giuridico dalla sfera etico -religiosa, un limite alla prevaricazione del potere ecclesiastico su quello civile (confessionismo) e viceversa un argine alla invadenza del potere civile (giurisdizionalismo) su quello religioso. Può costituire e garantire la libertà religiosa e il pluralismo religioso, oppure l’indifferenza e l’estraneità della sfera pubblica rispetto al fattore religioso, attraverso la quale la laicità tende a divenire essa stessa ideologia militante (laicità protetta) infine può esser intesa come garanzia della libertà individuale e del pluralismo delle culture e tradizioni.

 La laicità nelle esperienze di diritto comparato

Nelle esperienze di diritto comparato gli Stati Uniti d’America   hanno seguito la via della “laicità aperta”. In questo ordinamento giuridico si è assicura il massimo di libertà e di pluralismo religioso e dall’altro garantita l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, sottoponendole al regime del diritto comune. Lo spazio pubblico è stato considerato aperto ai valori religiosi, seguendosi la via della religious freedom, della libertà e del pluralismo religioso e non della indifferenza rispetto al sentimento religioso.

Nella Costituzione americana veniva inserita la “no establishment clause” che sanciva la netta separazione tra Stato e religione, impedendo di promuovere o favorire alcuna confessione religiosa ma non escludendo il rilievo pubblico della religione. La giurisprudenza della Corte Suprema ha ulteriormente chiarito il significato della laicità; il punto di riferimento è enucleato nella sentenza Lemon v. Kurtzman del 1971 che stabiliva il limite costituzionale che garantiva il suo rispetto: il Lemon test consentiva di verificare se il provvedimento governativo adottato non avesse l’effetto di favorire o inibire una determinata fede religiosa.

La seconda via possibile era quella francese che a differenza di quella americana precludeva alle confessioni religiose gli spazi pubblici. Si è parlato di “laicità protetta”. La Francia ha   realizzato non solo la libertà di religione ma la libertà dalla religione (Weiler). Nel 1905 la Francia si era data la prima legge europea sulla separazione dello Stato dalla Chiesa la legge Combes. Si basava sui principi della libertà di coscienza, della separazione tra Stato e confessioni religiose e della libertà di culto che erano affermati in maniera espressa nelle costituzioni del 1946 e del 1958 in cui la Francia si definiva “Repubblica Laica”.

La definizione ha comportato che la République non riconoscesse sovvenzionasse o favorisse alcun culto (laicité-separation) e che nelle istituzioni pubbliche e in particolare nella scuola venisse espunto ogni riferimento a specifiche fedi o religioni, rifiutando lo Stato di garantire specifiche fedi o simboli religiosi (laicité-neutralité). La legge Debré del 1959 sull’istruzione scolastica sembrava aver affermato un modello nuovo di laicité-ouverte ma l’esplosione della questione islamica faceva riemergere la laicité de combat.

Negli ultimi due decenni si è svolto in questo paese un dibattito non scevro di polemiche e ripensamenti; nel 2004 è stata emanata una legge che ha limitato l’esposizione dei simboli religiosi, i cui principi sono stati ribaditi nel 2010 da quella sul “burqua”. Paradossalmente si è assistiti ad una mutazione del principio nel dibattito politico; da valore della sinistra, simbolo progressista di emancipazione sociale e culturale a valore di una destra conservatrice e nazionalista espressione di una cultura xenofoba (del Front National) o comunque paternalista nei confronti delle popolazioni immigrate di provenienza islamica.

Con la legge 15 marzo 2004 (di cui si diceva) sul divieto per gli alunni di portare simboli religiosi ostensibili a scuola la laicità da “mero principio costituzionale”, applicato dalla giurisprudenza, diveniva prodotto legislativo sottoposto alle contingenze della politica. Nella sentenza del Consiglio Costituzionale del 19 novembre 2004 sulla ratifica del Trattato per una Costituzione Europea si poneva tra le condizioni dell’adesione all’integrazione Europea da parte della Francia, il rispetto del principio di laicità come delineato nelle tradizioni nazionali, riconoscendosene il relativo margine di apprezzamento nazionale nel definirla.

Quindi il principio di laicità alla francese era per il Conseil Costitutionel inderogabile. Con la “Charte de la laicité dans les services publics” del 2007 si estendeva di fatto quanto previsto per la scuola pubblica nel 2004, a tutti i settori della Pubblica Amministrazione, mentre con la Charte de la laicité à l’Ecole si ribadiva l’obbligo di tutto il personale scolastico di trasmettere agli scolari il senso della laicità, il divieto di proselitismo e il divieto di ostentare quei simboli che potessero rappresentare l’appartenenza degli allievi ad una fede religiosa.

Lo stesso Presidente della Repubblica Nikolas Sarkozy sul tema aveva tenuto un atteggiamento altalenante. Da Ministro degli Interni aveva mostrato un atteggiamento di apertura volto anche a modificare la legge di separazione del 1905, valorizzando le esigenze dei nuovi culti, ridisegnando il regime di laicità francese. Ma questi propositi erano abbandonati nel corso del mandato presidenziale, sotto la pressione della opinione pubblica con l’emanazione della legge sul burqua e la circolare Chatel, con una interpretazione rigida e intransigente nei contenuti del principio di laicità, anche per rintuzzare le polemiche e la crescente pressione del Front National di Marine Le Pen.

Nel rapporto Ayrault redatto da un magistrato del Conseil d’Etat si denunciava l’avvento di un laicisme de combat furibondo e si aggiungeva che la laicità non fosse uno stato fisso del diritto, ma un principio di morale pubblica, che strutturava una azione pubblica. Forti polemiche seguivano alla pubblicazione del rapporto Peillon del 2013 “sull’insegnamento della morale laica nella scuola pubblica” ove si affermava che non potesse imporsi il principio di laicità agli studenti, ma che esso dovesse esser rispettato soprattutto dal personale. Le aperture del documento venivano riconsiderate proprio nella “Charte de la laicité a l’école”(di cui si è detto) emanata dallo stesso ministro Peillon e diretta anche agli studenti.[2]

Infine per venire ai giorni nostri il 2 ottobre del 2020 il Presidente Macron in un discorso a Mureux informava, nel 115.simo anniversario della legge sulla laicità,  l’opinione pubblica della prossima emanazione di una legge “contre le séparatisme” Quest’ultima costituisce una reazione agli attentati recenti nella cattedrale di Nizza e all’uccisione del professore Samuel Paty, espressione del terrorismo spersonalizzato di presunti aderenti all’Isis,e vi si proponeva un aggiornamento della legge del 1905, con un testo decisamente di laicité de combat.[3]

 La laicità costituzionale italiana e la sentenza n. 203/1989

La Corte Costituzionale Italiana e la dottrina pubblicistica fino al 1989 avevano espresso dubbi sulla esistenza nel nostro ordinamento di un autonomo principio di laicità. La Corte lo ha scoperto dopo quaranta anni di attività e la dottrina, allora parlava solo di principio personalista, di principio democratico, di principio lavorista ma non di un principio di laicità. Allora pesava l’esistenza di un Concordato e la laicità urtava con la diversità di trattamento tra la Chiesa Cattolica e le altre Confessioni religiose. Alla Chiesa cattolica, riconosciuta come ordinamento sovrano, non sottoposta al diritto comune (come le confessioni diverse dalla cattolica con intesa) era riconosciuta una posizione di privilegio, salvandosi, per esempio i reati a tutela del sentimento religioso.

Nicola Colaianni ha   sottolineato, che in quell’aprirsi degli anni 70 quando cominciarono ad avvertirsi i primi fermenti revisionisti dei Patti e dell’art. 7 della Costituzione, l’idea guida, equilibratrice dello strisciante confessionismo interpretativo, era rappresentata dal “principio di eguaglianza” e i casi concordatari furono esaminati alla luce di quest’ultimo.  La questione che avrebbe dato il via alla sentenza 203/1989 era quella dei non avvalentesi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, costretti a rimanere in classe, in attesa che gli avvalentisi terminassero la loro lezione.[4] L’affermazione della laicità fu “un fulmine a ciel sereno” afferma l’autore, anche perché gli art. 2 Cost. (riconoscimento dei diritti inviolabili) 3 cost., (uguaglianza) 19 Cost. (libertà religiosa) di per sé sarebbero stati da soli sufficienti a definire la questione. Bastavano queste sole tre norme a dichiarare che la scelta di non avvalersi di un insegnamento facoltativo, non poteva essere gravata da oneri aggiuntivi.

Però la sentenza nonostante questo, disegna un affresco sul principio di laicità, addirittura sei paragrafi su nove, anzi la discussione su di esso ne costituiva parte preponderante. Ma se si fosse utilizzato per risolvere la questione solo il meccanismo incentrato sul favor libertatis (art. 2-3-9 Cost) si sarebbe corso il rischio di far salvo il canale di tutela speciale del favor religionis segnato dagli art. 7 Cost. (principio concordatario tra Stato e Chiesa cattolica), 8 Cost. (deroga al diritto comune per le confessioni religiose con Intesa), 20 Cost. (tutela delle associazioni a carattere religioso).

Occorreva con la enunciazione del principio, far confluire questo secondo gruppo di disposizioni (quelle sul favor religionis) sul primo (sul favor libertatis). Si seguì la strada dei principi supremi non derogabili neppure col procedimento di revisione costituzionale. Si trattava di una operazione non a costo zero, perché faceva salvo anche l’art. 7 Cost. dal contenuto fortemente confessionista, anche se assunto in versione depotenziata non cieca alle differenze, una “laicità pluralista” che garantiva la libertà di religione in “regime di pluralismo confessionale e culturale” delineandosi il concetto in una forma diversa da quella “protetta o monista” alla francese. In definitiva la portata dell’art. 7 Cost. era mitigata e razionalizzata dal limite di un principio supremo, determinato e specifico come la laicità (Colaianni), mentre l’accordo di revisione del 1984 e i patti lateranensi, venivano costretti alla compatibilità col sistema costituzionale.

La giurisprudenza dopo la sentenza 203/1989.

In concreto il pluralismo che discendeva da una corretta applicazione del principio ridisegnando il dualismo Stato – Confessioni religiose, non ha avuto seguito, specie a riguardo al “pluralismo culturale” affermato nella sentenza capostipite. Paradigmatica è la vicenda dell’Unione Agnostici Atei Razionalisti, definita nella sentenza della Corte Costituzionale del 10 marzo 2016 nr. 52. In questa si negava il diritto-interesse legittimo della UARR a sedersi al tavolo delle trattative col governo per discutere la conclusione di un’Intesa (anche fermo rimanendo il diritto di quest’ultimo a non concludere o comunque portare avanti la trattativa). In sostanza la conseguenza più evidente della laicità, “la libertà religiosa” (da intendere come positiva, negativa o agnostica) veniva conculcata. La sentenza sull’UARR sembrava peccare di astrattezza anche se riconsiderava e delimitava il principio di bilateralità pattizia affermando che “il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa”.

 La astrattezza era costituita dalla circostanza che l’esercizio della libertà religiosa in concreto (in materia di otto per mille, efficacia civile dei matrimoni confessionali, assistenza spirituale) passava dal raggiungimento delle Intese, dalle quali diverse confessioni erano escluse o ammesse a scelta discrezionale del governo. In decisioni precedenti (vedi quella 27 maggio 1996 n. 178) si era negato alla congregazione dei Testimoni di Geova l’estensione della deducibilità dall’Irpef, delle erogazioni liberali, ritenendosi che questo effetto non potesse ricavarsi in via analogica dalle “distinte disposizioni specifiche” contenute nelle intese raggiunte da altre confessioni, anche perché la congregazione in questione era priva di Intesa. L’avvenuta conclusione dell’Intesa era condizione per la applicazione di norme in materia ecclesiastica, comuni alle diverse confessioni.

L’impressione è che nella Giurisprudenza della Corte Costituzionale, la sua applicazione si sia progressivamente autolimitata o depurata degli effetti più dirompenti, che gli conferivano autonomia e indipendenza, quasi sgonfiandosi. Nessuna norma è stata esplicitamente dichiarata illegittima per contrasto col principio di “laicità”, forse perché solo le disposizioni costituzionali potevano offrire i parametri in base ai quali dichiarare l’incostituzionalità e non certamente i principi, in forza dell’art. 23 primo comma lettera b, legge n. 87 del 1953.

Nelle decisioni sulla tutela penale dei culti il riferimento era meramente retorico. Si affermava che esso comportava “equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose” come se equidistanza e imparzialità non fossero necessariamente alla base dell’eguaglianza giuridica e dell’eguale libertà delle confessioni religiose. In altre recenti decisioni la laicità veniva posta esplicitamente come premessa alla base di altri parametri costituzionali, come nelle pronunce sulle leggi lombarde e venete sugli edifici e luoghi di culto (Corte Cost. 23 febbraio 2016 nr. 2016 nr. 63 e 7 aprile 2017 nr. 2017). Anche qui le veniva attribuita rilevanza, ma in riferimento alla norma sulla libertà di religione delle confessioni (art. 8 Cost.) e dei singoli (art. 19 Cost.) e all’eguaglianza (art. 3 Cost.); dunque esso è stato utilizzato come utile orpello declamatorio.

La critica al principio di laicità come inteso nell’ordinamento italiano

La laicità ha avuto, come precisato, una applicazione limitata nella Giurisprudenza della Corte Costituzionale Italiana perché intesa quale “valore” non regolativo di comportamenti concreti. Da essa “profilo fondamentale della nostra forma di Stato” (sent. 203 del 1989) non si può prescindere, ma vi è il rischio che confinata nell’iperuranio dei “principi fondamentali” finisca poi per essere utilizzata come orpello retorico in motivazioni sorrette da altre norme, che conferiscono alle stesse autosufficienza logica e giuridica.

Colaianni ricorre alla figura della “norma senza disposizione” per indicare un principio che necessita di concretizzazione col rischio che più lo si applichi, più da esso ci si allontani.[5] Invece aggiunge Barbera, concordando con quanto affermato finora[6] che essa esprime in sintesi i valori propri del costituzionalismo liberale, specie se lo si considera svincolato dalle norme relative alle confessioni religiose; in breve la laicità è un corollario degli stessi principi democratico-liberali che informano il modello di costituzionalismo accolto nel nostro ordinamento.

Se il cammino del costituzionalismo democratico coincide col cammino della laicità, le sue diverse forme non tutte coincidenti nel tempo e nello spazio, comportano un atteggiarsi   della stessa in   modi diversi. Neutralità dello Stato non implica una neutralizzazione del fenomeno religioso e quindi per conseguenza la “libertà dalla religione” o la sua privatizzazione. Questa potrebbe anche verificarsi, come esperienze di diritto comparato insegnano, ma non è necessaria per la affermazione della laicità. Voci eloquenti della dottrina hanno in passato criticato il concetto “di laicità positiva”.[7]

 Nella sentenza 203/1989 ci si riferiva infatti alla “non indifferenza” dello Stato nei confronti delle religioni” introducendosi una concezione dei culti come “istituzioni”, la loro dimensione sociale e organizzata, che chiamava in causa il ruolo attivo e non semplicemente neutrale e imparziale dello Stato. In effetti la Corte parlava di “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. Sempre la stessa decisione costituzionale affermava che lo Stato-persona “si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”. Trattavasi di una concezione della laicità che determinava problemi teorici e applicativi, perché di difficile conciliabilità con “la libertà negativa” di religione, assegnando un valore preminente alla esperienza religiosa, nonché con il principio di separazione tra gli ordini ex art. 7,1 comma Cost., in base al quale lo Stato è radicalmente incompetente, in merito alla definizione di ciò che è nonché di ciò che non è religioso.

Altresì criticabili erano quelle concezioni, accolte in sentenze della Corte di legittimità delle leggi (v. la 195 del 1993) in cui si valorizzava   una concezione promozionale e positiva della laicità (mutuata dalla sentenza 203/1989). Ciò è avvenuto nello scrutinio della legge n. 29 del 1988 della Regione Abruzzo (dichiarata incostituzionale nel suo articolo 1) relativa alla disciplina urbanistica dei servizi religiosi. La Corte definiva “del tutto logico e legittimo” il criterio utilizzato dalla predetta legge regionale, che stabiliva una diversità di trattamento per la ammissione a contributo pubblico, derivante dalla “entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione religiosa”. Era evidente il recupero del criterio quantitativo che la Corte Costituzionale aveva abbandonato già dalla sentenza n. 440 del 1995, nella quale si era affermato che “in materia di religione, non valendo il numero, si impone la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione religiosa di appartenenza.”

 Il legislatore italiano ha incontrato forti difficoltà nello esplicitare il principio in norme costituzionali o di legge; fino alla legislatura odierna sebbene siano state presentate molte proposte per normarlo, unitamente o indipendentemente a quello susseguente della “libertà religiosa”, non si è mai giunti alla adozione di provvedimenti organici in materia. Forse gli strumenti che si sarebbero dovuti adottare erano inadatti all’attuazione della laicità, specie ai fini della gestione e del bilanciamento concreto di diritti libertà e doveri, per cui il legislatore si è convinto che anche una abrogazione “della legge sui culti ammessi” non fosse opportuna[8].

CONCLUSIONI.

Francesco D’Agostino in un recente intervento[9] ha sottolineato le difficoltà, nel campo bioetico, di tematizzare adeguatamente ciò che è “bene” in senso oggettivo davanti alle molteplici e molto diversificate immagini con cui esso si presenta; questa difficoltà segue a quella propria della filosofia morale. Questa constatazione del filosofo, non nega però il valore dell’approccio etico, ma invita ad affrontarlo con strumenti rinnovati aperti e inclusivi. La lezione di Giuseppe Dalla Torre per cui il tema della laicità si è spostato dal profilo giuridico a quello etico rimane dunque insuperata. Per il grande ecclesiasticista “il tema della laicità debba passare da una irraggiungibile neutralità degli apparati pubblici, ad un raggiungibilissimo metodo di relazione nella vita della società civile e politica, nel quale alla forza delle posizioni delle singole parti che si confrontano si sostituisce la forza della ragione[10]

Cesare Augusto Placanica           

 

[1] A. BARBERA in Il Cammino della Laicità pubblicato in Laicità e diritto Bonomia University Press, 2007

[2] P. CAVANA in Il principio di laicità nel pensiero di Giuseppe Dalla Torre e la sua recente evoluzione nell’esperienza francese in Recte sapere, Studi in onore di Giuseppe Dalla Torre Vol II pag. 831, Giappichelli 2014

[3] N. COLAIANNI in La resilienza della laicità a fronte del terrorismo cosiddetto islamista in “A chiare lettere” in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica n. 22 del 2020

[4] N. COLAIANNI in Trent’anni di Laicità in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, Fascicolo 21 del 2020

[5] N. COLAIANNI in Laicità: finitezza degli ordini e governo delle differenze in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica n. 9/2013   

[6] A. BARBERA in op. cit.

[7] G. BRUNELLI in La laicità italiana tra affermazioni di principio e contraddizioni della prassi in AIC (Associazione Italiana dei Costituzionalisti) Rivista telematica n. 1/2013.

[8] L. DE GREGORIO in Laicità e progetti per una legge generale sulla libertà religiosa in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica Fascicolo n. 21 del 2020

[9] F. D’AGOSTINO in Pericoloso effetto-covid anche sui paradigmi bioetici in Avvenire Sabato 3 aprile 2021

[10] G. DALLA TORRE in Metamorfosi della laicità in Laicità e relativismo nella società post-secolare a cura di S. Zamagni e A. Guarneri, il Mulino 2009, pag. 160.

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