Un referendum pro o contro Trump, una manifestazione di odio inestinguibile contrapposto ad un indomabile consenso, più che uno scontro tra due candidati e due proposte politiche, le elezioni americane del 3 novembre sono destinate a lasciare una traccia che non scomparirà tanto presto nella storia dell’Occidente.

Vanificatasi nel nulla l’ipotizzata “ondata azzurra” che avrebbe dovuto spazzare via il presidente tanto inviso alla sinistra radical chic, a quella americana come ai suoi patetici scimmiottatori di casa nostra, il presidente uscente è stato ininterrottamente al centro della scena, e – pur nella sconfitta finale – la ha ininterrottamente dominata.

L’avversario è stato sempre inesistente, tanto da ricordare lo “hollow man”, lo “stuffed man” di T. S. Eliot. E la sua elezione alla testa di una potenza il cui carattere nazionale è ancora fortemente marcato – anche se spesso in maniera capovolta – dal puritanesimo dei suoi originari fondatori, non lascia un vero segno se non per il fatto che un cattolico è stato eletto alla Casa Bianca senza quasi che la cosa si notasse:  un’importantissima novità se si pensa alle grida  e al furore che accompagnarono, nel 1960, l’elezione del primo e  sino a ieri unico presidente “papista” degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. Un segno indubbio di come, in sessant’anni, siano culturalmente mutati l’America e, con la sola eccezione dell’Europa, il mondo intero.

Ma ancor più denso di significati è il fatto che il Presidente eletto quasi a sorpresa quattro anni fa, abbia oggi portato a casa circa 5 milioni di voti in più rispetto al 2016,  e che la sua scarsa disponibilità ad accettare il risultato come politicamente valido sia condivisa da mezza America,  in qualche caso disposta anche a scendere in piazza impugnando qualcuna dei 200 milioni di armi da fuoco oggi in possesso dei civili americani. Perché personalmente Trump finirà pure per essere considerato come una meteora passeggera, ma come fenomeno politico la sua presidenza sarà chiaramente considerata, dagli storici futuri, come l’espressione della profonda trasformazione del tessuto sociale degli Stati Uniti, e di una sua forte disgregazione.

Lo si è ben visto nel fatto –  che tanto ha sorpreso i molti improvvisati osservatori politici che popolano questo lato dell’ Atlantico – che un’orda di poveri, di disoccupati e di disperati, nonché di esponenti della “middle class”, abbia votato per il partito repubblicano, il quale tradizionalmente ha sempre costituito la scelta  elettorale di chi vive di rendita, degli imbroglioni di Wall Street, dei fanatici religiosi, e delle strutture dello “Stato profondo”. Ma è stato il candidato , e non il partito, a determinare la loro scelta, il 3 novembre, così come determinante è stata la sua denuncia del fatto che il trasferimento massiccio dell’attività manifatturiera verso la Cina ha gettato sul lastrico parecchi milioni di famiglie americane, mettendole letteralmente “in mezzo alla strada”,  come conseguenza della “repossession”,  del recupero delle loro case. da parte delle banche.

Dopo quarant’anni di globalizzazione, la struttura sociale delle società occidentali, e di quella americana in primo luogo, infatti appare sconvolta rispetto allo schema classico creato dai capitalismi nazionali. Finita la dura contrapposizione di interessi tra i datori di lavoro e le loro – ormai estinte, fuori dalla Cina – controparti operaie; finita la fertile e produttiva dialettica tra Conservatives e Liberals, (o tra liberisti e socialisti, come dicevamo noi in Europa)! Oggi il quadro delle società occidentali è caratterizzato dalla presenza di pochi ricchissimi sempre più ingordi di potere e di danaro, e di una plebe pseudo impiegatizia, la cui vita è sempre più invasa da numerosi e sofisticati sistemi di pseudo informazione, di comunicazione, e di effettivo controllo. Si è creata di fatto una plebe televisivo-mediatica i cui comportamenti, usi e consumi non possono che aggravare la situazione economica ed ambientale in cui i suoi componenti sono ormai condannati a vivere.

Questi ceti invocano la protezione, il prolungamento e la sopravvivenza di  meccanismi economici obsoleti, che sono poi quelli responsabili della loro presente scarsa possibilità di inserimento nell’economia di un’America ormai de-isdustrializzata. E Trump si è fatto portatore delle richieste impossibili di questa categoria sociale, che corrisponde poi alla generazione cui il presidente Lyndon Johnson aveva promesso la “grande società”, e  che ha finito invece per diventare una “generazione perduta”,  che sprofonda nell’alcol e della droga senza lasciare nessun retaggio positivo alle generazioni che seguiranno.

La sua voce, prima e dopo le elezioni del 2016, ha indubbiamente suscitato in questo anomalo gruppo sociale un’eco assai profonda. Ed un consenso elettorale di massa anche tra coloro che, ancora in bilico, temono di sprofondare nell’abisso.

Ma la linea di politica economica seguita – che ha cercato di rispondere alle richieste di questa nuova categoria di poverissimi e di famiglie in difficoltà col vecchio metodo di gonfiare la ricchezza dei super ricchi, e di sperare che il “trickle down” facesse il resto – non poteva che avere risultati transeunti, e rivelarsi fallimentare, almeno a medio termine. La pandemia, e la distruzione di ricchezza che ne è conseguita, hanno accelerato i tempi, portando alla delusione elettorale del 3 novembre.

Trump, anche a causa di una francamente strana percentuale “bulgara” a favore dia Biden nel voto posto postale, esce oggi di scena. Ma lascia dietro di sé una lezione che non sarebbe male cercare di apprendere. Lascia dietro di sé la prova provata che i vecchi schemi interpretativi della società capitalistica non sono più utilizzabili e vanno rinnovati.  Non solo gli schemi tradizionalmente utilizzati dalla sinistra,  ma anche quelli proposti dalla destra neoliberale.

Al suo posto, alla Casa Bianca, subentra Biden, vincitore. Ma vincitore – nonostante il massiccio ed unanime impegno a suo favore di tutti gli establishments d’America – soltanto per un soffio; un soffio che rischia forte di non essere sufficiente  per mettere su una via positiva,  sulla sponda occidentale l’Atlantico, una società in cui le crepe razziali appaiono più profonde che mai, ed ancor meno per  consentirle di esercitare,  sulla sponda orientale di quello stesso oceano, l’influenza che sarebbe necessaria per controllare i rinascenti, pericolosi egemonismi del passato.

Giuseppe Sacco

About Author