Prendo le mosse dal convegno svoltosi a Camaldoli dal 30 settembre al 3 ottobre sul tema ” La metamorfosi della democrazia”. Il mio non vuole essere un resoconto esaustivo dei temi affrontati, che potranno essere tratti dagli atti che verranno pubblicati dalla rivista Il Regno, promotrice insieme all’omonimo monastero dell’incontro di studio. Cercherò di mettere in luce i nodi tra i quali la democrazia oggi cerca di districarsi, affinché vengano offerti a un dialogo condiviso per un approfondimento politico e intraprendente.
Mutamenti della geopolitica
Ci troviamo in un momento di svolta storico in cui sta mutando la geopolitica, dove vuoti di potere e nuove conquiste rompono i vecchi equilibri di politica estera, e nell’attesa della ricostruzione di nuovi si vive nei paesi europei il disorientamento causato dalle ricadute interne di un posizionamento divenuto inaffidabile e da reti diplomatiche incerte. La domanda che ha guidato l’intervento di Maurizio Molinari è stata: “Cosa succede dopo l’egemonia americana?”.
Trump e la vicenda afghana hanno modificato il ruolo degli USA nel mondo e non è stata gestita l’imprevista fine di questo primato. Il processo democratico statunitense, con la sua dinamica di messa in discussione e ricostruzione istituzionale, ha investito la dimensione mondiale attraverso la globalizzazione. Anna Camaiti ha messo in luce come il punto di svolta di Trump e i colpi che ha assestato al sistema democratico con la manipolazione delle istituzioni non sia ancora risolto.
Neppure l’amministrazione Biden ha per ora segnato una svolta rispetto alla precedente, continuando a perseguire la ricerca di consenso elettorale che la porta a un ripiegamento interno. D’altra parte, con l’emergere della potenza cinese come “avversario, rivale e partner (Antony Blinken)”, la partita si è deciso di giocarla sul versante dell’Oceano Pacifico, come dimostrano gli accordi con Gran Bretagna e Australia, disimpegnandosi sempre più dalla polveriera del Medio Oriente allargato.
Come si è visto in queste vicende, i primi alleati a farne le spese sono stati gli europei, che devono diventare major partner dell’Alleanza atlantica se vogliono tenerla viva, mentre gli USA guidano l’alleanza militare (con Gran Bretagna e Australia) ed economica (con Corea del sud, India, Giappone e Taiwan) nell’Indopacifico.
Un’autonoma difesa europea legata al presupposto di una politica estera comune è ciò che si rende necessario oggi per l’UE, se vuole impegnarsi per il futuro a protezione delle democrazie che la compongono. Questo le permetterebbe di essere un polo di riferimento a garanzia della pace e della stabilità in un approccio multilaterale alle controversie, di rilanciare la centralità strategica del Mediterraneo, in collaborazione con il Continente africano, in cui Cina, Russia e Turchia sono sempre più influenti, e anche di costituire un elemento di equilibrio nell’oriente indopacifico grazie alla Francia che può proiettarsi in quel contesto. Il rilancio della centralità del Mediterraneo come luogo strategico di costruzione della pace e di una stabilità necessaria e proficua per le sue sponde e del il Medio Oriente allargato passa attraverso il dialogo con la cultura araba e le società islamiche, che Oliver Roy ha descritto mostrando quanto sono rilevanti le azioni di soft-power in quel contesto e i rischi della deculturazione anche all’interno delle società europee.
Riguardo alla Cina, l’approfondimento di Gianni Criveller ha permesso di comprendere la storia del maggior partner economico di 130 Paesi, fino alle implicazioni dell’attuale imperialismo nazionale guidato da Xi Jinping. Conoscere il pensiero che ha attraversato i secoli della civiltà cinese si rende oggi necessario per capire le dinamiche del principale attore commerciale (e non solo) del nostro tempo. Un serio approfondimento meriterebbero le vicende del Myanmar, dove la Cina proietta i suoi interessi per la costruzione di una zona autonoma con un porto commerciale e in cui i cristiani, seppur minoranza, hanno assunto un ruolo di primo piano nella resistenza per la democrazia. Non va dimenticato che in Cina esiste una coscienza democratica, come hanno dimostrato le manifestazioni di Hong Kong, in cui il movimento studentesco nato nell’’89 resiste saldo nei suoi valori e affonda le radici culturali nelle democrazie asiatiche di origine confuciana come Taiwan, luogo in cui sono conservate le tradizioni cinesi, al centro del dibattito in questi giorni dopo le intimidatorie dichiarazioni di Xi Jinping sulla sua annessione.
La crisi delle democrazie rappresentative liberali
Biagio De Giovanni, partendo da una riflessione storica sulla portata degli anni successivi al 1989, ha individuato quelli che a suo parere sono oggi i sintomi della crisi delle democrazie rappresentative liberali: la perdita della centralità dei territori causata dalla globalizzazione con le implicate questioni di sovranità; l’inizio della destrutturazione delle società civili con le conseguenti crisi identitarie che si sono riflesse nei paesi occidentali; la perdita del rapporto tra rappresentazione e rappresentanza di cui vivono i populismi, per i quali il popolo viene prima del diritto e della mediazione istituzionale; ai quali Giovanni Guzzetta ha aggiunto la polarizzazione del conflitto politico; la crisi dei partiti che non sono più in grado di selezionare le domande politiche; i fenomeni migratori e le società multietniche; la dislocazione dei centri di decisione; il relativismo politico mosso dai sondaggi, che considera i cittadini solo come un pubblico da soddisfare; la decostruzione delle forme e dei valori costituzionali; la rottura dell’equilibrio mondiale internazionale che provoca spinte securitarie nell’affrontare le nuove sfide globali; il paradigma tecnocratico a cui si legano i cyber processi e le nuove tecniche del potere.
Insomma quella democrazia che all’indomani dell’89 sarebbe dovuta essere vincente insieme al mercato capitalista oggi sembra soffrire per le questioni interne che appaiono essere più rimosse che risolte e sotto la pressione delle “società omogenee” (come la Cina), che paiono giocare d’anticipo prendendosi un vantaggio rispetto alle società aperte e spingono democrazie di massa come quelle del gruppo di Visegrad ad abbandonare progressivamente il compromesso con il liberalismo.
Questi Paesi dell’est Europa all’indomani della fine dell’URSS hanno attivato un processo di transizione che li ha portati dal fallimento dell’esperimento comunista verso le forme delle democrazie occidentali. Come risulta dall’analisi di Paolo Segatti e Luka Lisjak Gabrijelcic, mentre dal punto di vista sociale c’è stato un progresso, l’ansietà di emulazione dell’occidente a un certo punto ha iniziato a provocare frustrazione fino alla svolta quei Paesi di assumersi un ruolo di primo piano ritenendosi la “nuova Europa”.
Se prima i trend culturali e politici passavano da ovest a est, oggi si è attivata anche un’osmosi inversa. Nelle periferie dove il sistema è meno forte “le crepe appaiono prima”: per questo qualcuno ha potuto affermare che, partendo dall’analisi politica dell’est Europa, si poteva prevedere l’elezione di Trump. Tuttavia occorre tenere distinti i timori delle società dalle strumentalizzazioni mistificanti di scopo della politica: le società dei Paesi di Visegrad non sono anti-europeiste, di conseguenza Orban ha buon gioco nel sostenere che quella che rappresenta lui è la vera Europa.
C’è da considerare inoltre che il comunismo ha congelato le tradizioni nazionalistiche dei Paesi dell’est (ad eccezione della Cecoslovacchia), impedendo un processo di rielaborazione dopo le due guerre mondiali, che in occidente ha portato a disinnescare le spinte fasciste e che il capitalismo ha creato un forte divario tra città e campagne. Tutti questi aspetti attraversano le questioni identitarie, le quali, quando vengono ricondotte alla propaganda sui confini e alle politiche securitarie come risposta alle migrazioni con la costruzione dei muri, non tengono conto della reciprocità dei provvedimenti e del fatto che l’uscita dal proprio Paese per i giovani di oggi è la valvola di sfogo alternativa alla contestazione.
Un tema fondamentale che si sta delineando nelle politiche per il futuro è la lotta tra cosmopolitismo e territorialità. La sfida della “sovranità condivisa” pone la domanda se sia possibile una democrazia sovranazionale, dato che è difficile che la democrazia così come l’abbiamo conosciuta possa oltrepassare i confini nazionali e quindi i confini dello stato.
L’Unione Europea, che nasce come “precipitato” del costituzionalismo moderno, sembra essere una risposta convincente, che testimonia che non è vero che fuori dal paradigma statale non può costituirsi una democrazia. I regolamenti europei tengono conto del fatto che non c’è volontà dell’Unione senza partire dalle differenze, in modo da definire un “pluralismo delle convergenze”. La sfida non è costruire un’UE come si sono costituiti gli Stati a partire dal ‘500, ma inventare nuove forme di democrazia. In questa linea due sarebbero le innovazioni da fare: togliere il voto all’unanimità del Consiglio Europeo in particolari circostanze e l’integrazione di difesa e politica estera comune. Perché, come ha fatto notare Romano Prodi, bisogna rendere operante la democrazia a livello continentale, altrimenti si verrà sconfitti da giganti come la Cina, che in pochi giorni ha regolamentato il gioco d’azzardo online e la rete e ha svolto un ruolo anti trust decapitando grosse aziende, tutte decisioni sulle quali da noi si tergiversa per anni. In particolare occorrerebbe agire per un coordinamento fiscale e la regolamentazione dei giganti del web, oltre che proseguire con gli euro union bond sul nuovo sentiero di emissione comune di debito aperto dal piano Next Generation UE, come sottolineato da Alberto Quadrio Curzio. Inoltre consapevoli che i valori democratici fondamentali sono custoditi in modo sistemico solo in Europa, occorre che le società civili si mobilitino per un appello che sblocchi la stasi delle contrattazioni europee e ripartendo dalla carta dei diritti fondamentali dell’UE la spinga a un’innovazione democratica ed efficace.
Per quanto riguarda il nostro Paese, anche alla luce delle recenti elezioni amministrative, bisogna interrogarsi su quali sono le problematiche che in Italia hanno maggiormente intaccato la dialettica tra partecipare e decidere di cui vive la democrazia. Ci sono due modi per far contare i cittadini: il primo è la democrazia diretta, la quale però manca di responsabilità, indirizzo politico, possibilità di costruzione di un sistema multi/inter livello, un dialogo tra società e visioni del mondo; l’altro è la riabilitazione della democrazia rappresentativa facendo in modo che i cittadini votino, esprimano le loro preferenze e i risultati vengano accolti.
I big -data tra il business e la scienza
Sauro Succi, introducendoci nel mondo della fisica computazionale, ha mostrato le possibili ricadute sociali delle ricerche che si stanno svolgendo. Sottolineando come i big-data seguano più il business che la scienza, ha fatto notare le differenze e i limiti che intercorrono tra analisi dei dati e ricerca scientifica. L’elaborazione computazionale dei big-data aiuta ad accelerare i tempi lunghi del metodo scientifico, accettando l’incertezza, così la scienza diventa gestione delle probabilità e la correlazione diviene più importante della causa. Dato che le previsioni offerte da questi sistemi sembrano funzionare, si butta all’aria la scienza, che non è più certa, ma lavora sulle probabilità; infatti c’è anche chi annuncia la fine del metodo scientifico, perché la conoscenza verrà dai dati e non più dalla teoria. Questi metodi di analisi applicati al sociale tramite la profilazione degli individui permettono lo studio delle “dinamiche di opinione” e l’”analisi dei sentimenti”. Già Clive Staples Lewis aveva messo in guardia da alcuni sviluppi della tecnologia, affermando che l’abolizione dell’uomo passa attraverso l’abolizione dello spazio-tempo.
L’indifferenza di luogo e la contrazione dei tempi legata all’accelerazione virtuale della tecnica può provocare oggi diverse conseguenze come per esempio il fatto che il bombardamento delle informazioni causa paura e irrazionalità o il fenomeno di rapida “polarizzazione magnetica” degli influencer, i quali costruiscono nuove comunità di cui loro sono il centro riconosciuto come riferimento. Su questa anteprima si è inserita la riflessione di Giuseppe Riva riguardo alla cyberpsycology ossia alle ricadute della tecnologia sulla psiche umana.
In dieci anni l’antropologia è cambiata: la conoscenza linguistica avviene dopo quella tecnologica nello sviluppo dei bambini e di conseguenza le tecnologie impattano sugli schemi cognitivi e la conoscenza procedurale. Un forte elemento di impatto è dato dal fatto che i sistemi operativi non richiedono più un approccio linguistico, ma utilizzano schemi motori senza linguaggio. Le conseguenze più gravi si rilevano nei bambini in fase evolutiva, soprattutto nei primi 36 mesi di età, dove “l’immersione” prolungata nel tempo davanti a schermi non solo cambia gli schemi mentali/procedurali, ma danneggia anche la sostanza bianca del cervello nelle aree preposte allo sviluppo del linguaggio.
Dare uno smartphone o un tablet ai bambini vuol dire cambiare il loro destino, con effetti negativi sulla loro vita e il loro futuro. Ci sono anche degli effetti nuovi manifestati dai giovanissimi che possono avere anche caratteri positivi: una conoscenza implicita e intuitiva della tecnologia permette di agire direttamente senza lo sforzo e i tempi di un pensiero tematico; la cosiddetta incorporazione, che porta a utilizzare lo strumento tecnologico come un’estensione del proprio corpo; l’indipendenza dai luoghi in una sorta di teletrasporto che elimina lo spazio-tempo.
Le resistenze che caratterizzano l’altra faccia della medaglia, con gli effetti negativi che ne conseguono, passano attraverso molteplici livelli: il primo è costituito dal corpo, con la risonanza emotiva dei neuroni a specchio, di qui l’incapacità della gestione emotiva di molti giovani e la non comprensione dell’emozione dell’altro e della sofferenza, che genera fenomeni come il cyberbullismo; la forte riduzione della capacità di attesa e riflessione, che fa sì che le capacità di sostenere l’attenzione e di stare su un contenuto cali drasticamente (l’attenzione media durante la fruizione dei contenuti digitali è passata da 12 a 8 secondi); sul piano del senso critico il rischio è quello di rimanere sempre uguali e sempre più omologati, poiché il pensiero critico viene acquisito attraverso il linguaggio, il quale ci permette di essere “altro” attraverso un distacco riflessivo; così si comprende l’importanza della lettura, che è un aspetto su cui gli italiani sono indietro rispetto ad altri paesi europei.
Il cambiamento del concetto di “luogo”, distinto da quello di spazio, modifica irrimediabilmente il costituirsi delle comunità, che storicamente nascono all’interno di luoghi. Per il nostro cervello la videoconferenza non è un luogo, in quanto non attiva i cosiddetti “neuroni Gps” che sono degli elementi chiave della memoria autobiografica. Il fatto di non poter agganciare più l’identità ad un luogo provoca alienazione. In questo modo la tecnologia distrugge il senso dei luoghi (per esempio rispondere al cellulare a tavola ti distoglie da quel luogo dove sei fisicamente). Così mentre prima il confine era determinante, ora non lo è più, in quanto vengono meno le relazioni fisiche.
Si comprende bene perché le comunità fisiche vengono messe in discussione, in quanto non sono più i luoghi dove vivono i ragazzi, mentre si moltiplicano soprattutto i luoghi virtuali (ma non solo) e le “comunità di pratica” all’interno delle quali si condivide una visione del mondo e l’impegno reciproco. Il vantaggio delle smart mobs è quello di creare dei fatti che possono mettere in discussione i fatti istituzionali. Ritenendo più importanti i fatti sociali di quelli naturali, queste comunità cercano di creare realtà alternative. Per esempio i grandi attori della sharing economy come Uber o Airbnb non vendono beni, ma fatti sociali. Così una comunità libera sufficientemente grande può cambiare le istituzioni e ciò che rende idonei non è più la competenza, ma l’appartenenza.
Prendendo sul serio queste considerazioni risulta chiaro come l’educazione oggi sia la più grande scelta politica che si possa fare e la scuola il primo dei punti da cui partire per dipanare il bandolo della matassa.
Il ruolo della sanità pubblica
La medicina durante la pandemia ha visto espandersi i suoi poteri: come ha detto Mariella Enoc la società è stata “clinicalizzata”. Il sistema sanitario ha rappresentato un presidio fondamentale a tutela della vita. L’instancabile impegno per la cura degli anziani, nonostante non siano persone indispensabili alla produzione, dice la buona reazione del nostro paese rispetto ad altri contesti in cui non sono state prese le stesse decisioni. Il rischio di oggi è quello di curare chi rende. La giustizia sociale e il rispetto della vita partono dalla cura dei più deboli, per questo è indispensabile un sistema sanitario universale e gratuito.
Qual’ è il ruolo della sanità pubblica: medicalizzare la società o prendersi cura? L’eccesso di medicalizzazione è spesso il risultato di una scarsa educazione alla salute. L’educazione sanitaria va fatta a misura delle persone, mentre la medicina dovrebbe essere sempre più personalizzata. La Enoc evidenzia il rischio legato alle capacità tecnologiche di credere a una onnipotenza della medicina, in particolare oggi che la persona del medico è posto spesso sulla soglia tra la vita e la morte. L’eccesso di medicalizzazione si verificherebbe qualora si curi solo la malattia e non ci si prenda cura della persona. A questo riguardo una buona pratica sarebbe quella di porre dei limiti all’eccesso di profitto della medicina, pur garantendo la sostenibilità delle strutture.
Un nodo venuto al pettine durante la pandemia è stato il rapporto tra medici territoriali ed ospedali, rispetto al quale la giustapposizione degli ambiti di intervento provoca un forte squilibrio, come se ci fosse una medicina di serie A e un’altra di serie B. Secondo Enoc è quindi necessario collegare i medici territoriali agli ospedali e ripensare questi ultimi come “hub” dai quali si diramano le cure sul territorio, quelle domiciliari e la telemedicina, in modo tale che quello che arriva alla persona sia sempre il meglio. Tra le raccomandazioni c’è quella di tenere separata la sanità dalla politica dei partiti e rimediare allo scandaloso squilibrio tra nord e sud del Paese.
Tommaso D’Angelo