Esiste una leggenda che da circa trent’anni aleggia su tutte le discussioni sul ruolo dei cattolici in politica e, in particolare, sull’opportunità che dei laici cattolici decidano di dar vita ad un di partito aconfessionale, quindi libero da ingerenze clericali, che si regga sulle proprie gambe, con le proprie forze, e non sulla spinta e il sostegno delle gerarchie; insomma, un partito che nasca e muoia, rispettivamente, per la capacità ovvero l’inadeguatezza dei suoi interpreti.

La leggenda si sviluppa intorno ad una narrazione apparentemente molto persuasiva, ai limiti dell’ipnotico: i cattolici sono presenti ovunque e possono condizionare la vita politica a prescindere dal ritrovarsi all’interno di un partito; il ruolo politico dei cattolici è trasformare e modellare la società dall’interno, operando nella società civile e condizionando la vita dei partiti nei quali militano.

Il fatto che possa apparire persuasiva è perché poggia sulla retorica che fare politica significhi influenzare la società, fino a plasmarla e non, come invece ci hanno insegnato Sturzo e De Gasperi, che un partito l’hanno fondato, utilizzare al meglio le istituzioni democratiche, giocando la partita parlamentare, per assumere decisioni di interesse comune: si veda ad esempio la scrittura del DDL Zan.

Sturzo ci ha insegnato che l’identificazione della società con l’ambito del politico sarebbe all’origine di quel processo mentale che ha condotto all’idea che la politica abbia il primato sulle tante sfere della società civile e che lo Stato rappresenti il vertice sintetico che tutto comprende e assorbe, al punto da ritenere che esso esprima la forma politica della società. È una visione abbastanza diffusa presso una parte anche consistente della tradizione politica cattolica, ma non rappresenta il suo intero spettro e, accanto a tale prospettiva, grazie anche a documenti come la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa: la Dignitatis humanae, oltre ai contributi di autori come Padre John Courtney Murray, il principale estensore di quel documento, e il già menzionato Sturzo, si è fatta strada l’idea che politica e società non andrebbero confuse e che la politica presenta un oggetto, un fine e una cassetta degli attrezzi che le sono propri, rispetto ad altre forme sociali.

Oggetto della politica è la pace e l’ordine pubblico, il suo fine è stabilite le regole del gioco affinché sia possibile una discussione critica su questioni di interesse comune che garantisca quell’oggetto e la cassetta degli attrezzi è data dalle istituzioni rappresentative. L’idea che possa esistere un partito “di” cattolici, dunque, né “dei” cattolici né, tantomeno, “cattolico”, andrebbe esattamente nella direzione di rispondere a questa specificità, ossia, alla consapevolezza che agire politicamente richiede forme e strumenti propri, in nome della distinzione tra società e autorità politica.

Si può essere contrari alla nascita di un partito “di” cattolici per una serie di ottime ragioni, come ad esempio il giudizio negativo nei confronti degli interpreti di una simile iniziativa oppure per un legittimo dissenso sul programma, ma negarne la plausibilità, teorizzandone l’inutilità in nome della superiore efficacia della diaspora ovvero per l’assenza di fantomatiche condizioni, come se le condizioni fossero entità metafisiche, rivela un’idea di azione politica che sfocia nella pratica lobbistica, in cui valori e interessi non sarebbero presentati nella pubblica piazza della discussione democratica, ma negoziati, di volta in volta, con il “principe” pro tempore regnante.

La discussione democratica non assomiglia neppure lontanamente al metodo lobbistico, in cui legittimi gruppi di pressione rappresentano specifici interessi davanti al decisore politico e fanno appunto pressione affinché possano essere accolti. È estranea al metodo democratico, di ispirazione sturziana a liberale, l’idea totalitaria che la società sia un tutto organico che possa e debba essere plasmato. Appartiene invece a questa tradizione l’idea che la politica serva a prendere decisioni d’interesse comune e che il criterio meno peggio sia quello democratico.

A pretendere di influenzare la società fino a plasmarla e di guidare le scelte del “principe”, senza passare per il gioco democratico in cui le teste si contano e non si pesano, né si tagliano, si corre il rischio di assomigliare alla “mosca cocchiera”; la mosca che si illude di guidare il mulo per il solo motivo di stare sul suo capo e, purtroppo, questa non è una leggenda.

Flavio Felice

About Author