Che fine farà la globalizzazione? Sotto l’urto della pandemia e delle sue conseguenze economiche (il collasso del turismo, i sussulti autarchici qua e là, la diffidenza verso untori e vaccinatori) qualcuno si è spinto a diagnosticare la de-globalizzazione conclamata (o forse semplice “slowbalisation” o più realistico accorciamento regionale di alcune catene del valore. La nostra epoca produce neologismi quasi prima che esistano le cose cui si riferiscono. E poi ci sono i no global).
Non è vero che niente sarà più come prima. Non è vero che tutto continuerà come prima. Metto in fila cinque punti.
Già prima della pandemia – primo punto – per perseguire uno sviluppo sostenibile, ci siamo dati in sede ONU i 17 “Sustainable Development Goals” ( SDGs ). Il cambiamento climatico è un fenomeno globale ed ha in più la caratteristica che gli ultimi arrivati nelle prime file dello sviluppo trovano difficoltà e mostrano resistenze a ridurre la loro impronta. Ineludibile quindi la risposta globale.
Poi, secondo punto, va ricordato che la globalizzazione ha peggiorato le diseguaglianze sociali (si accumulano patrimoni globali) ma ha anche emancipato centinaia di milioni di persone dalla povertà assoluta e fatto crescere nuove classi medie (con possibilità di vita e di realizzazione che aumentano per centinaia di milioni di persone). Anche qui ci sono diseguaglianze perché la partecipazione dei paesi alla globalizzazione non è la stessa per tutti. Per alcuni paesi è marginale con benefici marginali. Inoltre la riduzione dei poveri è stata frenata dalla Pandemia (anche con un peggioramento, che rende meno facile raggiungere nel 2030 l’obiettivo di sconfiggere la povertà, il primo dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile). La dinamica distorsiva delle diseguaglianze va contenuta senza ostacolare la pervasività dello sviluppo.
L’esperienza della pandemia, terzo punto, ha spiazzato noi e altri paesi, mostrando che alcuni beni (mascherine, respiratori, vaccini) almeno parzialmente vanno prodotti in casa (casa può essere in parte UE in parte Italia), perché in casi di tensione della domanda affidarsi al funzionamento del mercato mondiale non basta (ora mascherine ce ne sono abbondanti, ma vaccini no. L’assenza di vaccini italiani pesa. Una questione che al di là della vicenda Reithera dovrà trovare soluzioni adeguate).
La dichiarazione di Roma del G20 (in questo maggio 2021) inoltre sceglie il multilateralismo sanitario. E’ l’inizio di un percorso, che dovrà portare a un trattato internazionale più impegnativo. Intanto i 20 Paesi leader in economia mostrano di voler imparare da ciò che non ha funzionato nella prova da stress della pandemia. Il confronto sul superamento dei brevetti (che va verso altre tappe di discussione) intanto genera l’impegno delle case farmaceutiche a fornire 1,3 miliardi di dosi entro il 2021, e a prezzo di costo o comunque contenuto, ai paesi a minor reddito (l’impegno è di Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson: AstraZeneca sembra sempre più fuori dal giro che conta).
Accade spesso che la politica si muova se ha due pedali, quello delle scelte e quello delle necessità. La coscienza contemporanea (di molti, almeno) non può tollerare che i vaccini siano solo dei ricchi ed escludano i poveri. Ma nessuno oggi si salva dai mali comuni chiudendoli fuori (o chiudendosi dentro): si sta al sicuro se tutti siamo al sicuro. Non è la prima volta che arriva una pandemia: ma per la prima volta è tempo di prevenzione e rimedi globali.
L’esistenza di imprese globali – quarto punto – che riescono a minimizzare gli oneri fiscali, sottraendo una rilevante quota di gettito agli stati, sta facendo scattare una motivazione convergente a provvedere. Ovviamente non c’è un governo mondiale per governare soggetti che hanno una origine e una residenza, ma operano dovunque, sono sostanzialmente apolidi, perseguono una propria politica estera anche differenziandosi dallo stato di appartenenza, scelgono sedi legali e operative per minimizzare gli oneri fiscali. Però un certo numeri di stati con un’apposita convenzione può adottare un’aliquota minima alla quale assoggettare i redditi delle società. Se poi si tratterà del 21% originariamente proposto da Biden o del 15% ipotizzato successivamente, lo vedremo. Verso gli stessi obiettivi si muove il nuovo piano fiscale della UE, finora rivolto più alla uniformazione delle basi imponibili delle società che alla armonizzazione delle aliquote.
Sono solo quattro punti, sufficienti a evidenziare le grandi tendenze che plasmano il mondo. Ma gli eventi e i media di volta in volta richiamano la nostra attenzione sulla globalizzazione economica, e quindi sul commercio internazionale e sulle catene del valore intorno al pianeta, o sulla crisi climatica, o sulla pandemia. Raramente ci viene ricordato come tutte queste dimensioni, e altre – ecco il quinto punto – siano connesse. Ad esempio la Dichiarazione di Roma già citata sottolinea il legame tra crisi sanitarie e crisi ambientali.
Di giorno in giorno cambiano anche gli assetti della politica. Per gran parte della mia vita ho guardato alla guerra fredda tra USA e URSS. Ora, non è che manchino le partite aperte tra USA e la Russia di Putin, ma è più interessante seguire gli andamenti dei rapporti tra USA e Cina. Qui si gioca non un primato esplicitamente militare, ma il primato economico, il dominio delle informazioni, ecco la nuova politica di potenza. Anche se la spesa militare cinese continuerà a crescere. Cambiano più cose di quanto pensiamo normalmente. La prima preoccupazione della Russia è sempre stata a partire dai suoi confini. All’URSS interessava l’Asia e l’Europa orientale, alla Cina sembra interessare il mondo. La conclusione è una domanda retorica.
Le grandi questioni del nostro tempo hanno estensione e dinamica sovranazionali. Se anche le grandi potenze, quelle globali, non possono affrontarle in modo solitario, che cosa potrebbe fare da solo uno Stato più piccolo?
L’Italia, paese importante e non senza responsabilità internazionali, ha circa lo 0,77% della popolazione mondiale e il suo territorio è circa lo 0,2% delle terre emerse. Stando così le cose smetterei di chiamare cessione di sovranità l’atto con il quale si decide di fare insieme ciò che è precluso ai solitari. Solo formalisticamente è rinuncia (a fare da soli ciò che non si può fare), mentre sostanzialmente è una conquista). Questa è acquisizione di sovranità, partecipazione a una sovranità condivisa, effettiva, esercitabile ed efficace. Questo – non l’impotenza dell’arroccamento domestico – è il sovranismo che non mente.
Vincenzo Mannino

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