Un grande successo dell’Europa, e non della sola Italia; ed un successo destinato a durare nel tempo. E’ così che dovrà essere considerato l’impegno a favore del ponte sullo stretto di Messina, se saranno confermate dai fatti le parole di Adina Valean, Commissaria Europea per i Trasporti. Che si è detta “onorata” di poter favorire un finanziamento della UE alla prima fase dell’iniziativa, ma che ha anche impegnato l’Italia a presentare un progetto concreto dell’opera.

Se l’Italia riuscirà in questo compito, soprattutto fondandosi sui molti, e molto dettagliati, studi già disponibili, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e buona parte della loro maggioranza potranno essere fieri della propria azione, e avranno una volta per tutte dimostrato che effettivamente qualcosa è cambiato nei rapporti tra Roma e Bruxelles. Ed anche dal punto di vista comunitario si potrà essere soddisfatti. Perché sia tratterebbe di uno, e certamente il più eclatante, tra quei progetti concreti e ambiziosi sia dal punto di vista tecnico che finanziario, di cui il vecchio continente ha oggi chiaramente bisogno.

Ne ha bisogno non solo per rispondere alla “sfida americana” contro cui si è levata la voce di Ursula von der Leyen, quando ha criticato i pesanti aiuti di stato messi in campo dall’Amministrazione Biden per rilanciare gli Stati Uniti nell’arena mondiale. Si tratterebbe, infatti, anche di uno di quei successi politici di grande envergure che saranno indispensabili nella difficile fase storica che, per il progetto europeista, si è aperta negli anni che vanno dalla Brexit al ritorno della guerra sul proprio territorio. In una prospettiva – per di più – di rinnovata e duratura Guerra Fredda tra superpotenze extra-europee.

A misura del continente

L’idea e la realizzazione del ponte sono infatti qualcosa che trascende tanto il carattere tecnico-ingegneristico, quanto la dimensione puramente italiana. Un progetto che assumerebbe un significato ancora più pieno, se realizzato sotto gli auspici dell’Unione Europea, e che può diventare un segnale politico inviato al mondo, da parte di tutta l’Europa, di una volontà a lungo termine di continuare nell’ambiziosa costruzione nel Vecchio Continente di un’entità diversa da quelle del passato, inclusiva e pacifica.

Che poi l’Italia ne sarebbe la principale beneficiaria, e non solo dal punto di vista economico, è logico ed innegabile. Oltre ai vantaggi che ne trarrebbero le regioni meridionali – vantaggi effettivi e significativi, checché ne dicano i presunti esperti e i giornalisti di regime – , una decisione europea a sostegno del ponte sarebbe un’indicazione assai significativa per quanto riguarda le audaci trasformazioni che saranno necessarie nei prossimi anni per proteggere il territorio senza rinunciare alla crescita. E che queste trasformazioni non possono ovviamente essere effettuate a caso, bensì come risultato di un lungo e storico impegno collettivo.

Val la pena peraltro di sottolineare che non saranno soltanto le regioni meridionali ad essere avvantaggiate dalla riaffermazione che la Sicilia e l’Italia peninsulare costituiscano, insieme all’Italia continentale, un’unica e identica realtà politica e culturale, dove tutte le componenti del nostro Paese saranno compartecipi di un’unica “democrazia europea con caratteristiche italiane”.

Vista nella specifica prospettiva di lungo periodo di quella essenziale e storica componente dell’Europa che è la Nazione italiana, la saldatura fisica tra l’isola e la Penisola potrebbe infine venire ad essere quella sorta di storica compensazione che alla Sicilia è dovuta. La compensazione per il fatto di essere stata per ben due volte esclusa, ad iniziativa di potenze militarmente a noi ostili, da alcuni dei più importanti successi ottenuti dall’Italia unita.

In debito storico con la Sicilia

Una prima volta, questa esclusione della Sicilia dal processo di costruzione dell’Italia contemporanea accadde ai primi dell’Ottocento, quando la flotta inglese, schierata in funzione anti-napoleonica a bloccare lo Stretto, impedì che il regno murattiano estendesse anche alla Sicilia il messaggio della rivoluzione francese. E con esso la propria azione modernizzatrice ed illuminata; una politica di cui il Mezzogiorno continentale beneficiò in maniera tanto irreversibile che gli stessi Borboni, una volta restaurati al potere dopo il 1815, ne dovettero malvolentieri conservare le riforme.

Le cicatrici del fanatismo reazionario che questa esclusione permise sopravvivesse in Sicilia furino profonde. Erano visibili già all’indomani della spedizione dei Mille, e verranno riassunte nella celebre formula “cambiare tutto perché nulla cambi”, secondo la quale anche l’unità d’Italia sotto i Savoia fu un cambiamento “gattopardesco”, che mascherò l’immutabilità delle relazioni sociali nell’isola. Se ne ebbe di nuovo la prova ancora tre quarti di secolo più tardi, durante il Fascismo, quando la “nobiltà” siciliana, che vantava di derivare i propri privilegi addirittura dal Sacro Romano Impero, ottenne che Vittorio Emanuele III facesse pressione su Mussolini per la rimozione dal suo incarico antimafia del celebre “prefetto di ferro”, Cesare Mori.

Ancora una volta, questa forzata estraneazione della Sicilia rispetto ai progressi realizzati nell’Italia peninsulare si verificò poi negli anni quaranta dello scorso secolo. Accade infatti nel 1947 che l’Italia governata dall’antifascismo, e nobilitata – essa, sì –della già effettuata scelta popolare per la Repubblica, dovette piegarsi ad una realtà locale fortemente caratterizzata dai modi fortemente ambigui in cui era avvenuta la sua conquista da parte degli Anglo-americani. Dovette cioè accettare, ancora prima che la Costituzione di tutti gli Italiani venisse redatta e scritta, che la Sicilia sarebbe stata una regione a Statuto Speciale. E che alla sua amministrazione regionale sarebbe spettata anche la cruciale competenza sulla Riforma Agraria.

In pratica: era la garanzia che nell’isola – come poi di fatto accadde – i poteri economici non sarebbero stati toccati, e che ai Siciliani sarebbe stato negato il beneficio di cui nel dopoguerra hanno goduto tutti gli altri Italiani, il beneficio della diffusione della piccola proprietà coltivatrice nelle regioni meridionali del Paese, a scapito del latifondo. Un fenomeno che fu il primo passo, per certi aspetti addirittura l’innesco, di quello che sarebbe diventato il boom postbellico. E il segno che alla Sicilia sarebbe purtroppo stato negato anche il beneficio della pacificazione civile che quella riforma portò in dono, dopo anni di turbolenze, di occupazioni di terre e di violenze, nelle regioni del Mezzogiorno continentale.

Giuseppe Sacco

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