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Ripresa e conclusione delle trattative con l’Inghilterra:  Ricordiamo che in un contesto più vasto questo stesso periodo fu testimone della guerra franco-prussiana. Gli Inglesi temevano che il conflitto avrebbe potuto coinvolgere altri paesi, incluso il loro, e che i cantieri americani avrebbero potuto sfornare una quantità di navi da guerra da vendere ai loro nemici. Meglio dunque pensare di chiudere la vertenza con gli Stati Uniti, contando sul fatto che questi iniziavano a rendersi conto che i Canadesi, dopotutto, non avevano tanta voglia di farsi annettere. Le argomentazioni americane erano state del tutto controproducenti e non erano servite che ad infiammare il nazionalismo canadese e contribuire alla creazione di un’identità canadese.

Sconfitta la Francia a Sedan e caduto l’imperatore Napoleone III, Hamilton Fish nel 1871 colse l’occasione per riaprire le trattative con Londra: si era reso conto che entrambe le parti erano adesso bene intenzionate a lasciarsi alle spalle le ruggini del passato. Il trattato di Washington mise così fine ad ogni contenzioso, affidando al Kaiser l’arbitrato sulla disputa di frontiera delle isole San Juan, la risoluzione della controversia sul Pudget Sound riguardante i confini del Canada sul Pacifico e la contesa relativa ai diritti di pesca. Di conseguenza, nessuno negli Stati Uniti parlò più di annettere il Canada e la questione dei diritti di pesca si concluse con un nuovo trattato che riuscì a soddisfare ambo le parti.

In quanto alla risoluzione della faccenda della nave Alabama e degli altri contenziosi finanziari, l’intero pacchetto venne deferito ad un Tribunale internazionale che propose un insieme di regole utili a dettare la condotta degli Stati neutrali in tempo di guerra. Stabilite queste, fu deciso che sarebbero state applicate retroattivamente alla Guerra Civile. Il costo per gli Inglesi sarebbe stato più alto, ma le due parti ne uscirono comunque soddisfatte. La questione del blocco navale dei porti del Sud, le dispute e le trattative che ne seguirono portarono al condono di un certo numero di pratiche discutibili tanto che, nel 1914, quando l’Inghilterra decise il blocco contro la Germania si avvalse di tutti quei precedenti che risalivano ai giorni della Guerra Civile.

Hamilton Fish potè così finalmente raggiungere i suoi obbiettivi più importanti: era naufragato il piano di annessione di Santo Domingo e la questione canadese apparteneva ormai al passato. Restava da chiudere solo la rivolta di Cuba. Benché l’insurrezione si prolungasse e si fossero verificati alcuni spiacevoli incidenti, con la sua ritrovata autorità il Segretario di Stato riuscì a contenere le intemperanze degli interventisti e tenere gli Stati Uniti lontano da Cuba.

Il Segretario di Stato rifiutò il rischio di una guerra anche nel 1873 in seguito alla vicenda del vascello cubano Virginius, battente illegalmente bandiera americana: fu fermato mentre trasportava un carico di armi destinate ai ribelli cubani e le autorità spagnole fecero strage dell’equipaggio e dei passeggeri ritenendo fossero dei pirati. Vi furono 53 vittime, 8 delle quali americane. In quell’occasione gli Stati Uniti chiesero solo un indennizzo insieme alla restituzione della nave.

L’azione di Fish – come si è potuto vedere – mirava al compromesso e si fondava sulla moderazione, ovvero fare il possibile per ridurre le tensioni e gettare acqua sul fuoco. Il trattato di Washington fu il primo grande passo in direzione dell’amicizia tra Stati Uniti ed Inghilterra e servì come precedente per successivi arbitrati tra le due nazioni.

Al termine della Guerra Civile vi furono molte questioni che avrebbero potuto essere affrontate in modo irresponsabile e con gravi conseguenze. Fish ebbe la capacità di imporsi e dire di no quando necessario, fino a diventare per il presidente Grant quell’indispensabile elemento di equilibrio in un’amministrazione altrimenti tra le più erratiche ed imprevedibili della storia americana. Come si è visto, la storia diplomatica del periodo può essere in gran parte descritta in termini di personalità e di conflitti tra di loro.

Egli svolse il suo compito con tanto successo che una volta rieletto Grant nel 1872, il suo secondo mandato fu praticamente privo di eventi.

Un quadro degli Stati Uniti dopo la Guerra Civile:   Il Paese uscì dalla Guerra di Secessione con tutte le carte in regola per diventare una grande potenza mondiale. La sua industria, già in forte espansione, era stata capace di sostenere lo sforzo di una guerra moderna. Alla fine del conflitto gli Stati Uniti possedevano anche la flotta più potente ed erano in grado di schierare un esercito pari a quello di qualsiasi potenza europea.

Questa forza non risultò evidente, in quanto la distanza geografica continuava a proteggere gli americani dalle baruffe europee e nessun vicino ne minacciava la sicurezza. Di conseguenza, una volta terminata la guerra l’esercito e la marina furono in gran parte smobilitati mentre il servizio diplomatico operava al minimo: nei dieci anni dal 1880 al 1890 gli Stati Uniti non ebbero ambasciatori all’estero e furono rappresentati da qualcosa come 25 incaricati d’affari. L’intero Dipartimento di Stato contava in tutto 60 persone.

Tranne per i fatti visti in precedenza, i rapporti con l’estero si ridussero alla gestione di questioni minori quali una controversia con l’Italia per il linciaggio di alcuni immigrati a New Orleans, problemi con l’immigrazione cinese, controversie con l’Inghilterra sulla navigazione nel mare di Bering, complicazioni con il Cile per una rissa scatenata a Valparaiso da alcuni marinai americani e ostracismo da parte tedesca riguardo l’importazione di prodotti derivati da carni suine. Pertanto, fino al 1890 la politica estera americana non ebbe scopi o indirizzi precisi. Ad assorbire il paese non furono tanto le questioni internazionali quanto i problemi interni, che andavano ancora affrontati e risolti e richiedevano l’impegno di notevoli energie.

Da questi anni di conflitto il Sud emerse devastato e con la sua economia a pezzi. Ad essere distrutta anche la sua classe dirigente. La sua forza lavoro al contrario ne uscì liberata, spazzando via ogni ostacolo all’affermarsi di un’economia capitalistica fondata sul lavoro libero. Rimase però aperta la questione dell’equilibrio dei poteri tra gli Stati ed il governo federale, tanto da restare virulenta fino all’epoca dello scontro sui diritti civili e durare ancora oggi.

Gli Stati Uniti avrebbero presto conosciuto la crescita economica più sostenuta del mondo. Da questa sarebbe derivato un significativo consolidamento politico ed economico, liberale e democratico nei suoi princìpi, sorto in un clima favorevole per l’impresa privata. La politica dei partiti sarebbe stata dominata soprattutto da questioni etniche, religiose, settoriali ed anche economiche.

La colonizzazione interna dopo il 1865 venne facilitata da progressi tecnologici quali l’introduzione dell’aratro d’acciaio, l’uso della recinzione di filo spinato e la diffusione della pistola a sei colpi. I bufali e gli Indiani, di conseguenza, furono in grado di sopravvivere solo in riserve protette.

Gli anni tra il 1877 ed il 1892 corrisposero al periodo di maggior crescita dell’industria americana: le fabbriche triplicarono la loro produzione, tanto che nel 1890 gli Stati Uniti emersero come la prima potenza industriale del mondo. Alla fine del secolo, il volume della produzione siderurgica, meccanica, petrolifera ed elettrica raggiunse il primato mondiale superando persino Inghilterra e Germania. In quanto alla rete ferroviaria, questa era più estesa di quella europea, incluse Inghilterra e Russia.

Dal punto di vista demografico la popolazione americana aveva superato quella di qualsiasi paese europeo ad eccezione della Russia. Tra il 1865 ed il 1910 il numero degli americani si era moltiplicato per tre e, se è vero che da un lato iniziava a diminuire il tasso di natalità per via dei progressi della medicina e dell’igiene pubblica, dall’altro si riduceva quello di mortalità.

Col passaggio dalla navigazione a vela a quella a vapore andò crescendo anche il numero degli immigrati, tanto che dopo il 1880 la legislazione sull’immigrazione si fece più complessa e restrittiva.

Riguardo i centri urbani, alla fine della Guerra Civile New York era la terza città per numero di abitanti e nei successivi trent’anni sarebbe passata da un milione a tre milioni e mezzo di abitanti; Filadelfia era più grande di Berlino e passò da 560mila a 1 milione e 300mila abitanti; Chicago era al secondo posto, passando da 100mila abitanti a 1 milione e 700mila.

Nel 1900 un americano su tre viveva in città ed oltre 40 centri urbani contavano più di 100mila abitanti: per fare un esempio, Minneapolis da 2.500 abitanti era passata a 200 mila e Los Angeles da 5.000 a 100 mila. A conoscere invece un graduale spopolamento furono le aree rurali.

Col progredire della Rivoluzione Industriale apparvero le prime reti tranviarie, New York e Boston si stavano dotando di una metropolitana e gradualmente si diffondeva l’illuminazione elettrica. Sorsero i primi grattacieli, nelle abitazioni si diffondeva l’uso del telefono e della macchina da cucire e nei negozi si potevano trovare alimenti in scatola. In quanto al cittadino, questo poteva adesso usufruire del fonografo, della macchina fotografica, di spettacoli di massa, cinematografo incluso. Appare l’automobile, nasce lo sport e si sviluppa l’istruzione. All’inizio del Novecento negli Stati Uniti venivano pubblicati 2.190 quotidiani, insieme a 15.813 settimanali, più che nel resto del mondo.

Quella americana era diventata l’economia più produttiva del mondo, il paese cresceva e progrediva mentre il suo governo si era fatto più forte, stabile e centralizzato. Unendo i due Oceani, gli Stati Uniti erano riusciti anche a crearsi una sorta di impero al loro interno.

La sirena dell’imperialismoAlla caduta di Napoleone e nel periodo del Congresso di Vienna, vi erano molti angoli del mondo ancora sconosciuti all’Europa. Alla fine del secolo, attraverso l’opera di esploratori, missionari, commercianti, soldati, banchieri ed amministratori, la civiltà europea era entrata nelle aree più remote del mondo: il XIX secolo è stato infatti visto da molti come il grande periodo dell’espansione europea, già all’epoca descritta come imperialista.

Nel contesto politico europeo del XVIII secolo, i conflitti coloniali avevano avuto un ruolo importante. In seguito andarono gradualmente perdendo di importanza, tanto che nel 1852 il premier inglese Disraeli considerava le colonie come “dei macigni intorno al nostro collo”. Passati pochi anni emerse una nuova vocazione imperiale basata sulla competizione tra le nazioni tanto che, dopo il 1870, la civiltà europea si stava estendendo in tutto il mondo e numerosi imperi furono creati in Asia, Africa e nelle isole degli oceani. Alla fine del secolo una vastissima parte del mondo era passata sotto il controllo delle potenze europee.

Mentre queste ultime imponevano il loro dominio sulle aree occupate, negli stessi possedimenti coloniali si andavano lentamente sviluppando quei grandi ideali provenienti dall’Europa quali libertà, democrazia, nazionalismo, indipendenza e sovranità. In campo economico si sarebbe in seguito manifestata un’opposizione al capitalismo con la diffusione di idee socialiste.

Prima in Asia, poi in Medio Oriente ed in Africa questo processo fece penetrare e diffondere quell’insieme di princìpi figli della Guerra di Indipendenza americana, della Rivoluzione Francese e dei moti del 1848 sui quali si fondava l’Occidente: fu in questo modo che la storia dell’Europa finì con l’allargarsi per diventare parte di quella del mondo.

Nel tempo prese forma una civiltà globale sempre più interconnessa che negli anni si sarebbe affermata provocando grandi difficoltà e stravolgimenti, scontri con la modernità dei quali siamo ancora oggi testimoni e che continuano a creare non pochi problemi. A globalizzarsi furono anche i mercati, la produzione, il lavoro e l’economia. Se in futuro fosse scoppiata da qualche parte una crisi, questa si sarebbe inevitabilmente estesa al mondo intero ed avrebbe colpito tutti indistintamente.

Quelli dal 1870 al 1914 furono gli anni dell’imperialismo e delle rivalità coloniali, del dominio di un popolo su un altro e del diffondersi nel mondo di quella civiltà industriale e scientifica che si esprimeva in Europa. Al centro del mondo civile vi era il continente europeo con le sue grandi potenze, che nel tempo avrebbe portato i suoi possedimenti coloniali ad entrare nella civiltà moderna e industrializzarsi per avere accesso ad una vita diversa e migliore.

Avere delle colonie era un metro per misurare la grandezza di un Paese e consentirgli di far parte delle nazioni che contano. Francia ed Inghilterra possedevano da secoli le loro mentre le nuove nazioni che si andavano formando dopo il 1860, Germania, Italia, Giappone e a loro modo anche gli Stati Uniti, dovevano adesso partecipare anche loro a questa corsa.

La politica imperiale degli Stati UnitiNel corso di questo testo si è visto come su quali basi ideali, pratiche e teoriche si sono formati gli Stati Uniti. Si è anche vista la genesi della dottrina Monroe e come ebbe poco effetto sull’Europa, tanto da far dire al premier inglese George Canning nel 1823 che “la dottrina, se così la si può definire, è del tutto inaccettabile sia per il mio governo che per la Francia”. A dargli scarsa importanza furono gli stessi americani.

Una volta terminato il processo di colonizzazione dell’intero territorio americano, abbiamo visto come questa dottrina acquistò la sua D maiuscola portando il Paese ad agire in tutti i modi per fare delle Americhe la loro riserva esclusiva. Fino alla metà del XIX secolo l’isolazionismo americano fu prudente e realistico, gli Stati Uniti non avendo nulla da guadagnare intervenendo nelle questioni europee, al punto che il tenersene fuori servì indubbiamente ad aiutarne lo sviluppo e la crescita come territorio, nazione e istituzioni politiche.

Chiusa la fase della colonizzazione dell’Ovest, gli americani iniziarono a cercare altri sbocchi per le loro pulsioni espansionistiche. Le potenze europee erano impegnate a spartirsi l’Asia e l’Africa e procurarsi basi navali nel Pacifico. In un mondo di crescenti rivalità imperiali, gli americani si accorsero presto di poter avanzare e proteggere i loro interessi solo attraverso una politica aggressiva ed espansionistica: ne seguì una febbre nazionalista, la cui volontà era quella di imporre il potere degli Stati Uniti.

Questo movimento ricordava in un certo senso la dottrina del “Destino Manifesto”, dandogli però un alone scientifico basato sulla teoria della selezione naturale e della sopravvivenza del più forte. A sostenerlo, si aggiungeva anche l’idea del genio della razza anglosassone in voga a quei tempi e come espressa da John Fiske in un articolo del 1885. In questa direzione anche un libello pubblicato dal reverendo Josiah Strong nel quale descriveva il ramo americano della razza anglosassone come predestinato da Dio al trionfo nella competizione fra le razze.

Altro e più celebre teorico dell’espansionismo americano fu l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan, che faceva del potere marittimo la base della grandezza di una nazione. Egli insisteva per l’acquisizione di basi navali oltremare, soprattutto nei Caraibi e nel Pacifico e la costruzione di una flotta mercantile insieme ad una potente marina da guerra per proteggerla. Queste sue teorie influenzarono numerosi politici americani, soprattutto Theodore Roosevelt che nel 1897 sarebbe poi diventato sottosegretario alla Marina.

Questo clima portò ad una costante crescita della marina tanto che per la fine del secolo, in termini di navi da guerra, gli Stati Uniti erano inferiori solo all’Inghilterra e alla Germania: queste tre potenze ebbero quindi una grande influenza nella formazione del mondo moderno. Unendosi nel 1917 alla guerra tra Gran Bretagna e Francia contro la Germania, gli Stati Uniti a seguito della sconfitta di quest’ultima emersero come la prima potenza mondiale.

Un importante passo in questa direzione fu l’acquisto dell’Alaska dalla Russia, considerata dagli Americani come via d’accesso al Canada ed “un dito puntato verso l’Asia” per via delle isole Aleutine che si estendevano in direzione del Giappone. Se per gli Stati Uniti l’Alaska era un ponte naturale verso l’Asia nord-orientale, le isole Hawaii erano per loro la principale base commerciale in direzione dell’Oriente. A mantenere instabili i rapporti con questo regno vi era una contesa a tre con Francia ed Inghilterra. Ciò non impedì ai colonizzatori americani di creare importanti piantagioni di zucchero e di ananas e controllare sia l’economia che il governo delle isole.

Con l’annessione nel 1867 dell’isola di Midway gli Stati Uniti passarono in vantaggio, tanto che nel 1875 un trattato commerciale fece virtualmente delle Hawaii un protettorato americano. Nel 1877 ottennero Pearl Harbour come stazione per rifornimento di carbone e futura base navale. Le isole Hawaii furono finalmente annesse quando un manipolo di coltivatori di zucchero e di uomini di affari di Honolulu, con l’aiuto di funzionari americani, fecero cadere la monarchia per poi fondare una repubblica ad immagine di quella americana. Alcuni anni dopo, nel 1891, al trono salì la regina Liliuokalani con l’idea di porre termine a questa influenza straniera. Due anni dopo, Appoggiati dall’equipaggio dell’incrociatore Boston, gli americani organizzarono una rivolta che si concluse con la deposizione della regina, l’instaurazione di un governo provvisorio ed un appello a Washington per l’annessione delle isole.

Entrato in carica all’inizio dello stesso anno, il presidente Grover Cleveland, indignato dal comportamento dei residenti americani, denunciò il trattato che nel frattempo era stato approvato dal Senato. Tornati al potere nel 1897, i Repubblicani decisero di negoziarne uno nuovo. Questo fu però bloccato dai Democratici che, insieme ai produttori di zucchero all’interno degli Stati Uniti, erano contrari ai richiami dell’imperialismo. Nell’estate dell’anno successivo, con la guerra contro la Spagna in corso, grazie all’espediente di una risoluzione congiunta del Congresso che richiedeva solo una maggioranza semplice, le isole Hawaii entrarono ufficialmente a far parte degli Stati Uniti d’America.

Nel 1878 gli Stati Uniti erano riusciti anche ad assicurarsi una base navale nelle isole Samoa ove presto emerse una rivalità con Gran Bretagna e Germania per il loro controllo. Nel 1899 venne firmato un accordo che consentì alla Germania di annettere le due isole maggiori, mentre agli americani sarebbe andato il resto dell’arcipelago.

Nel corso di questi anni era maturata una forma di orgoglio nazionale che spesso sfociava in prese di posizione sciovinistiche, tali da influenzare e segnare il punto di vista americano sulle questioni internazionali. All’interno della classe politica l’importanza dei mercati esteri cresceva sempre di più, così come l’idea che gli Stati Uniti potessero salvaguardare i loro interessi solo attraverso l’attuazione di una politica espansionistica. Dopo il 1890, se in passato non si voleva avere nulla a che fare con il resto del mondo, si era adesso pronti a creare dispute con tutti: a testimoniarlo, la crisi venezuelana del 1895.

Come appena visto, il presidente Cleveland non era favorevole ad un orientamento imperialista. Il 1896 fu però un anno di elezioni e quindi, per venire in aiuto al suo partito, egli andò alla ricerca di un argomento popolare intervenendo in una disputa tra Venezuela ed Inghilterra sui confini della Guyana Britannica. Il suo Segretario di Stato inviò a Londra una nota dal tono provocatorio con l’accusa di violare la Dottrina Monroe e richiedendo un arbitrato sulla contesa.

Il premier inglese Robert Gascoyne-Cecil, terzo marchese di Salisbury, rispose con un rifiuto e respinse la sua interpretazione della Dottrina Monroe. Grover Cleveland si rivolse allora al Congresso chiedendo la nomina di una commissione per determinare la linea di confine e, se necessario, mostrandosi pronto ad usare la forza.

Dato il clima che si respirava nel paese, il Congresso si mostrò pronto ad accogliere questa richiesta con molti dei suoi membri addirittura disposti a chiedere un intervento militare. L’Inghilterra, che in questa faccenda più di tanto non si sentiva coinvolta e si rendeva conto di trovarsi isolata in Europa, in quel momento era preoccupata soprattutto del graduale affermarsi del potere della Germania. Meglio dunque evitare un contenzioso con Washington.

A spostare ulteriormente l’attenzione di Londra da questa disputa, giunse dal Sudafrica la notizia dell’incursione di Jameson contro i Boeri del Transvaal: la cosa preoccupò gli inglesi, tanto più che venne seguita da una nota di congratulazioni inviata dal Kaiser Guglielmo II al presidente boero Kruger. La vicenda finì col chiudersi grazie ad un trattato con il Venezuela che rendeva effettivo l’arbitrato sulla disputa di confine: l’Inghilterra o

Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Spagna:   A sottolineare ulteriormente questo mutato atteggiamento americano di fronte al mondo giunse la guerra ispano-americana. Si trattava per gli Stati Uniti di affrancare il popolo di Cuba dal giogo spagnolo e affermare il proprio potere.

Si era visto in precedenza come era stata domata la ribellione del 1868. Nel 1895 vi fu un ulteriore tentativo di liberarsi dalla Spagna determinato dal Wilson-Gorman Tariff Act che, l’anno precedente, aveva chiuso il mercato americano alla produzione zuccheriera cubana. Nell’isola seguì un impoverimento tale da sfociare in un nuovo moto di ribellione.

Per via della crudeltà dei metodi repressivi impiegati dalla Spagna contro la popolazione cubana, le simpatie dell’opinione pubblica americana si orientarono presto a favore dei rivoltosi: a stimolare la richiesta di un intervento aveva contribuito anche una serie di articoli apparsi sui due quotidiani di New York che diffondevano notizie spesso esagerate e a volte anche inventate sulle atrocità commesse dagli Spagnoli. Sia il presidente Cleveland che il suo successore repubblicano William McKinley si mostrarono contrari ad intervenire per timore che un conflitto potesse minare quella prosperità seguita alla depressione del 1893. Della stessa opinione era anche la comunità di affari americana.

Le cose cambiarono improvvisamente per la pubblicazione di una lettera dell’ambasciatore spagnolo a Washington, nella quale veniva denigrato il presidente McKinley. Più importante ancora l’episodio dell’esplosione della corazzata Maine, ancorata nel porto dell’Avana. Le vittime furono 260 e benché le cause dell’incidente siano tutt’ora ignote, l’opinione pubblica americana puntò subito il dito contro la Spagna richiedendo un immediato intervento militare.

Dopo aver esitato qualche settimana, il presidente McKinley decise di agire non tanto per rispondere alle richieste della nazione, quanto piuttosto perché stava perdendo la fiducia nelle capacità della Spagna di porre fine all’insurrezione. Non senza esitazioni Madrid accettò la richiesta di un armistizio immediato e lo smantellamento dei campi di concentramento. Rifiutò invece la richiesta di concedere l’indipendenza a Cuba.

Di conseguenza, l’11 Aprile 1898 il presidente americano si rivolse al Congresso per chiedere l’entrata in guerra. Nove giorni dopo, in una risoluzione congiunta e a grande maggioranza, il Congresso riconosceva l’indipendenza cubana ed autorizzava la Casa Bianca ad usare la forza per cacciare gli spagnoli dall’isola. Venne approvato all’unanimità anche l’emendamento Teller che si opponeva all’annessione di Cuba, esprimendo quel sentimento idealistico che aveva portato al conflitto.

Nell’area dei Caraibi la grande ambizione degli Stati Uniti era costruire, proteggere e controllare un canale che, passando attraverso l’America centrale, servisse ad unire l’Oceano Atlantico al Pacifico.

Un trattato del 1851 sanciva che un canale costruito dagli Stati Uniti o dall’Inghilterra doveva essere posto sotto il controllo delle due nazioni e non venire fortificato.

In Africa, la guerra boera che si era conclusa nel 1902 aveva evidenziato l’isolamento di Londra: quest’ultima, di conseguenza, desiderava conservare l’amicizia con gli Stati Uniti e a seguito del trattato Hay-Pauncefote del 1901 accettò sia il controllo americano del futuro canale che la sua fortificazione.

A partire da questo momento, la sfida successiva per gli Stati Uniti fu quella di scegliere il luogo più adatto: il canale avrebbe attraversato il Nicaragua oppure l’istmo di Panama?

Dopo aver inizialmente puntato sul primo, il Congresso americano decise infine per Panama, che però apparteneva alla Colombia e dalla quale una società francese con a capo Ferdinand de Lesseps, aveva acquistato la concessione per la realizzazione di un canale. Dopo 8 anni di scavi, tra malattie e problemi di lavoro, la società fallì. Nel 1894 una seconda società francese ne rilevò la franchigia essenzialmente per tenere in vita il progetto.

Passato qualche tempo, la Francia offrì agli Stati Uniti i diritti sul progetto. La proposta fu accettata ma la Colombia poi si oppose alle condizioni americane. Panama, che da tempo voleva affrancarsi dal giogo colombiano, decise di ribellarsi. Il presidente Roosevelt preferì tenersi distante da questa insurrezione pur informando i panamensi che, se avessero avuto bisogno di un amico, avrebbero potuto contare sugli Stati Uniti.

Seguendo il principio del “non si sa mai”, nel 1903 egli decise di inviare un incrociatore al fine di impedire un intervento colombiano. Due settimane dopo l’indipendenza di Panama, seguì il trattato Hay-Bunau-Varilla del 18 Novembre 1903 che concesse agli americani la piena sovranità su quella striscia di terra necessaria per costruire il canale. I lavori ebbero inizio nel 1907 e la prima nave attraversò il canale nell’Agosto del 1914. L’andamento di tutta questa faccenda lese non poco l’immagine degli Stati Uniti in America Latina, cosa che a Roosevelt poco importava: a preoccuparlo era soprattutto il pensiero di possibili interventi nell’area da parte delle potenze europee.

Nel 1902 un blocco anglo-tedesco-italiano al Venezuela dovuto a questioni finanziarie, suscitò le preoccupazioni di Washington che richiese un arbitrato internazionale. Quando la Repubblica Dominicana si trovò nell’impossibilità di pagare il suo debito e venne minacciata da un intervento chiesto dagli azionisti europei, il presidente Roosevelt decise di assumere un ruolo inedito: quello di poliziotto internazionale per tenere lontane dal continente americano le nazioni europee.

Nel 1904 venne reso pubblico un corollario alla Dottrina Monroe e queste furono le parole da lui pronunciate davanti al Congresso: “Stante la dottrina Monroe, comportamenti cronici sbagliati nel continente americano richiedono l’intervento di polizia internazionale da parte di una nazione civilizzata”. Non era dunque compito delle potenze europee intervenire: sarebbe toccato agli Stati Uniti vegliare affinché non fossero costrette loro a farlo per via del comportamento delle nazioni americane. In poche parole, nessuno Stato europeo sarebbe potuto intervenire in America in quanto spettava agli americani stessi farlo in difesa degli investimenti del mondo civile. Da quel momento, gli Stati Uniti avrebbero tenuto sotto stretta osservazione l’intero continente americano.

Nel 1908 Roosevelt scelse come successore l’avvocato William Howard Taft, che mai avrebbe voluto diventare presidente. Malgrado ciò, sconfisse senza difficoltà il suo rivale William Jennings Bryan. Lui stesso non intendeva avere a che fare con disordini nell’area caraibica tali da provocare interventi europei. Verso l’America Latina la politica di Taft era dettata da ragioni non unicamente strategiche, ma anche economiche: incoraggiò gli investimenti americani e si adoperò affinché i capitali europei venissero sostituiti da quelli statunitensi. In poche parole, meno rischi con l’Europa e maggiori profitti per le banche americane, la cosiddetta “diplomazia del dollaro”.

Nel 1909 istituti di credito americani presero possesso delle finanze del Nicaragua con il consenso politico locale. L’anno successivo, allo scoppio di una rivolta contro il governo, il presidente Taft fu costretto ad un intervento militare. Entrato in carica nel 1913, il presidente Woodrow Wilson decise di cestinare sia la politica del “Grosso Bastone” che quella della “diplomazia del dollaro”. Queste le sue parole riguardo l’agire degli Stati Uniti che “non avrebbero mai più tentato di annettersi un metro di territorio con la forza”. In parallelo, condannò anche la pratica di premere per concessioni economiche in America Latina.

A dettare la sua azione politica nella regione era anche quel lato missionario caratteristico della sua personalità che lo spingeva a combattere la povertà ed aiutare la gente a darsi quella stabilità che solo un governo democratico poteva garantire. Malgrado le sue buone intenzioni, Wilson non mancava di senso pratico ed era intenzionato a difendere gli interessi americani: fu così che di fatto intervenne in quei paesi ben più di quanto non lo avessero fatto i suoi predecessori.

Conscio dell’importanza del canale di Panama per la sicurezza nazionale, egli decise che non era possibile per gli Stati Uniti tollerare nessun genere di instabilità politica nell’area caraibica. Da qui la sua azione in Nicaragua e Santo Domingo. In Messico la rivoluzione iniziata da Madero rischiava di destabilizzare il paese soprattutto quando a lui si unirono Pancho Villa e Emiliano Zapata. Nel 1911 fu poi deposto il presidente Porfirio Diaz, la cui amministrazione si distinse per inettitudine, corruzione e divisioni interne. Di fronte all’estendersi della rivolta quest’ultimo venne assassinato dal generale Victoriano Huerta. Il succedersi di tali eventi condusse il presidente Wilson sull’orlo di una guerra. A distrarlo, gli attacchi contro le navi alleate condotti dai sottomarini tedeschi che all’inizio del 1917 lo costrinsero a ritirare le truppe comandate dal generale Pershing e poco più tardi ad entrare in guerra contro la Germania.

Edoardo Almagià

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