Introduzione
Senza andare troppo indietro nel tempo, dall’inizio del secolo abbiamo visto insediarsi alla Casa Bianca quattro amministrazioni diverse tra loro: dal repubblicano Bush, bianco, ricco, ex-governatore del Texas e bene inserito nell’establishment americano al democratico Barack Obama, nero, di origini modeste, con un padre kenyota ma cresciuto dalla madre e dal brillante trascorso accademico. Successivamente è stato eletto Trump, magnate immobiliare di New York, narcisista, autoritario, bugiardo ed inaffidabile, per finire poi con Joe Biden, uomo rispettabile e perbene, politico di professione, dalla vasta esperienza e per otto anni già vice-presidente dello stesso Obama: inutile dire che per entrambi le vedute sulla politica estera sono su quasi tutto divergenti.
Ognuno di loro a modo suo ha rappresentato un aspetto dell’America, ha voluto guarirla e correggerne la direzione. Ha soprattutto iniziato il proprio mandato con l’intenzione di dare la precedenza alle questioni interne. Il successivo corso degli eventi li ha spinti a coinvolgersi nelle questioni internazionali probabilmente molto più di quello che avrebbero desiderato. Così facendo, hanno dato una loro impronta alla politica estera degli Stati Uniti anche se poi, malgrado le differenze, si è visto come le loro decisioni sono state spesso simili e in più di un modo ancorate alle passate tradizioni della politica estera americana.
Per meglio capire queste posizioni, in alcuni casi contraddittorie, sarebbe utile collegarle a concetti come l’esportazione della democrazia, il multilateralismo, la difesa dei diritti umani e la cooperazione internazionale. Di fronte a questi, l’ ”America First” di Trump, lo slogan “Make America Great Again”, con il loro distanziarsi dagli accordi internazionali, dalle alleanze e l’unilateralismo che ne conseguono. Dietro a tutto ciò, quelli che sono stati i princìpi fondanti della nazione americana e della sua politica estera, partendo dall’idea della “città sulla collina”, dell’isolazionismo, del “Destino Manifesto” e della “Dottrina Monroe”.
Di alcune di queste idee all’estero si parla spesso, ma altrettanto spesso non sono del tutto comprese. Con Biden assistiamo ora ad un ritorno di una politica di valori, fondata sull’idea della superiorità della democrazia di fronte all’autocrazia e alle dittature. In futuro, a secondo delle circostanze e della personalità di chi siede alla Casa Bianca, si tornerà nuovamente a parlare con tutta probabilità di isolazionismo, di interventismo, oppure in altri casi di distanziamento o di cooperazione.
A chi osserva gli eventi è necessario per comprenderli meglio trovare quel giusto equilibrio tra quelle che sono le spinte di forze impersonali, ad esempio visioni ideologiche e nazionalismo, e quelli che sono i tratti salienti del carattere e della persona che sta al comando. Di questi esempi la Storia è piena.
E’ anche necessario non volgersi al passato con gli occhi del presente: ogni periodo ha le sue peculiarità che vanno osservate nel contesto del loro tempo e non confuse e giudicate col modo di vedere di altri periodi: sarebbe un grave errore e porterebbe ad una falsificazione della Storia. Una cosa, ad esempio, sono gli Stati Uniti del XVIII e del XIX secolo ed un’altra quelli odierni nei quali, con la fine della Guerra fredda, si è passati dalla relativa stabilità e semplicità di un mondo bipolare alla confusione e all’imprevedibilità dei nostri giorni.
Per meglio capire l’origine delle diverse posizioni assunte dagli Stati Uniti in campo internazionale è dunque bene tornare al passato, ricordando anche il ruolo che hanno avuto gli eventi esterni nel condizionarne la genesi. Questa nazione è cresciuta e si è formata in un contesto internazionale che vedeva un numero di potenze europee perennemente in conflitto tra loro. Colonizzata da europei e nata perciò come estensione dell’Europa, non ne fu mai una replica ed in questo l’ambiente ebbe una parte molto importante.
Sin dagli inizi si è assistito ad un’espansione interna non solo geografica, ma anche economica, finanziaria, tecnologica, demografica e culturale. Ne è sorta una comunità capace di rinnovarsi continuamente e incline a volgere lo sguardo verso il futuro; una nazione plurima all’interno della quale ogni volta che una parte faceva un passo indietro, un’altra ne compiva uno avanti; una nazione che non ha mai attinto ad un’unica tradizione europea, ma a molte eredità diverse caratterizzate da una miscela di popoli, lingue e culture.
La sua Guerra di Indipendenza fu anche un conflitto civile ed è solo dopo la Guerra di Secessione che viene definito l’assetto economico e sociale del paese. Con la vittoria dell’Unione il Nord inaugurò il capitolo del “Destino Manifesto” in un contesto di crescente urbanizzazione, meccanizzazione, unificazione del Paese per mezzo della rete ferroviaria, produzione di massa ed afflusso di milioni di immigrati dall’Europa e dall’Asia.
In politica estera è con la guerra Ispano-Americana e l’acquisizione, a cavallo del Novecento, del canale di Panama che si passa da una fase tendenzialmente isolazionista all’imperialismo. A seguito del primo conflitto mondiale e del tramonto dell’Europa dopo il secondo, il XX secolo potrà dirsi “il secolo americano”.
Diceva Arthur Schlesinger che “per capire la condotta degli Stati Uniti all’estero bisogna conoscerne bene la storia”.
L’eredità puritana e i primi passi di una Nazione in attesa di nascere
Questa storia inizia con gruppi di coloni provenienti dall’Inghilterra che per sopravvivere devono lottare contro gli elementi e anche difendersi dalle tribù indiane, dai Francesi e gli Olandesi, che pure loro stavano mettendo piede sul continente. Per farvi fronte, nel 1643 quattro colonie inglesi decisero di unirsi creando la Confederazione della Nuova Inghilterra.
In un’ottica più ampia, tra il 1689 ed il 1763 gli Inglesi e i Francesi si trovarono coinvolti in quattro guerre successive: la guerra della Lega di Augusta, quella della successione Spagnola, della successione Austriaca ed infine quella dei Sette Anni. Le prime tre ebbero inizio in Europa e finirono poi con l’estendersi oltre Atlantico. Ogni grande guerra del periodo aveva infatti un suo parallelo al di là dell’oceano. Va anche ricordato che lo scontro tra Francia ed Inghilterra per la supremazia sul continente americano ebbe inizio molto presto.
Per i coloni americani queste erano tutte guerre straniere. A trasformarsi in un conflitto più vasto fu la guerra dei Sette Anni (1756-1763), che vide scontri in Europa, nel Mediterraneo, in India, nelle Antille e in territorio nord-americano. Alla fine di questa guerra l’Inghilterra ottenne il Canada e tutti quei possedimenti francesi che si trovavano ad oriente del fiume Mississippi. Dalla Corona spagnola, in cambio della restituzione di Cuba e delle Filippine, ricevette la Florida.
Tra le conseguenze di questa guerra, il raddoppio del debito dell’Inghilterra che presentò non pochi problemi, tanto che il re cercò di ottenere soldi dalle colonie, denaro che serviva però anche a difenderle.
Queste richieste suscitarono scontento tra i coloni, tanto che decisero di staccarsi dall’Inghilterra. Ne seguì un conflitto nel quale finì con l’inserirsi la Francia, trasformando così una guerra locale in uno scontro mondiale. Per Luigi XVI si trattava di un modo per capovolgere i risultati della guerra dei Sette Anni. Dopo la battaglia di Saratoga del 1777 riconobbe i ribelli, schierandosi ufficialmente al loro fianco. A seguito di questa sconfitta inglese, nel 1779 anche la Spagna decise di entrare in guerra come alleata della Francia. L’anno successivo, a questa coalizione contro l’Inghilterra si unirono Olandesi, Svedesi, Danesi e Russi.
Dopo la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, “il ripudio dell’Europa – come scrisse John dos Passos – è dopo tutto la principale ragion d’essere dell’America”. Questa dichiarazione rappresentò infatti ben più di una semplice frattura con l’Inghilterra e con l’Europa: era soprattutto la volontà di smarcarsi da tutti quegli aspetti negativi che agli occhi dei coloni caratterizzavano l’Europa del XVIII secolo.
Trovatisi di fronte ad un continente ancora vergine, gli americani avrebbero avuto l’opportunità di edificare una nuova società e vivere in un mondo migliore. In poche parole, avrebbero potuto sganciarsi dalle dinamiche del Vecchio Continente per imbarcarsi in un esperimento nobilissimo e del tutto nuovo che non avrebbe avuto alcuna possibilità di realizzarsi se fossero rimasti coinvolti nelle beghe e nelle consuetudini dell’Europa.
Solo questo distacco avrebbe consentito la realizzazione di quel credo puritano che vedeva l’America come “la città sulla collina” e “l’ultima speranza di Dio sulla terra”. Questi concetti sono utili a spiegare l’idea dell’eccezionalismo americano che in seguito si sarebbe spesso manifestata nella politica degli Stati Uniti, così come l’atteggiamento isolazionistico che in origine non era che una scelta cosciente di evitare il coinvolgimento nelle faccende europee.
Come vedremo in seguito e queste righe ce lo spiegano, non si può definire la tradizione politica americana del XIX secolo in termini di semplice isolazionismo e limitarsi a questo.
Dalla Guerra di Indipendenza all’età dell’espansione
Questa guerra, che vide un manipolo di coloni inglesi schierarsi contro la madrepatria, fu la prima guerra di indipendenza dei tempi moderni che si concluse con lo spezzarsi dei vincoli imperiali. Ne emerse una nazione nuova fondata su un insieme di idee differenti da quelle europee, a volte anche opposte, che col tempo avrebbero portato all’affermarsi di una coscienza nazionale. Non a caso quest’esempio servì da modello ad altri popoli coloniali che successivamente lottarono per la loro libertà.
Alla fine del XVIII secolo gli Stati Uniti erano un paese piccolo, debole, abitato da poco più di tre milioni di abitanti. Di questi, la maggior parte viveva in aree rurali e solo il 3,3% risiedeva in centri urbani con ottomila o più abitanti. Circa metà della popolazione non aveva ancora raggiunto i 16 anni di età ed oltre la metà del suo territorio era in mano ad altri. La loro economia dipendeva soprattutto dall’Inghilterra ed i suoi ordinamenti politici lasciavano ancora a desiderare. Non avevano una marina e l’esercito contava 840 uomini.
Passati circa cent’anni questa nazione si era trasformata in un gigante: le sue dimensioni erano quelle di un continente, la sua popolazione era superiore a quella di qualsiasi altro paese europeo eccetto la Russia, la sua economia era la più produttiva del mondo ed il suo governo si era fatto forte, stabile e sufficientemente centralizzato.
Il momento di maggior crescita avvenne tra il 1877 ed il 1892: le industrie americane moltiplicarono per tre la loro produzione, tanto che nel 1890 gli Stati Uniti erano diventati il più grande paese produttore del mondo. Nello stesso anno la loro rete ferroviaria era più estesa di quella di tutto il continente europeo, Russia ed Inghilterra incluse. Fino al 1914 gli americani importavano capitali finanziando la loro crescita soprattutto grazie ad investimenti britannici ed europei. Dopo il 1918 gli Stati Uniti erano diventati esportatori di capitali.
Se da un lato le grandi nazioni europee rivaleggiavano nel mondo per lanciarsi alla conquista di possedimenti imperiali scatenando rivalità che sarebbero sfociate nel primo conflitto mondiale, gli Stati Uniti dal canto loro potevano costruirsi un impero in casa propria andando alla conquista dei territori d’Occidente, dagli Appalachi fino alle acque del Pacifico.
Nel 1803 il presidente Thomas Jefferson procedette con l’acquisizione della Louisiana. Il suo successore James Madison conquistò la Florida, la cui parte orientale fu successivamente acquisita sotto la presidenza Monroe con la minaccia dell’uso della forza. Tra il 1845 e il 1853 vi furono altre annessioni: quella del territorio dell’Oregon nel 1846, del Texas nel 1845, seguita da quella di vasti territori messicani nel 1848 e dall’acquisto Gadsden nel 1853. Questi vastissimi territori furono ben presto colonizzati, tanto che l’idea della frontiera continua ancora oggi a permeare lo spirito americano. I nativi furono spazzati via per essere sostituiti da una democrazia di matrice capitalista.
Rapporti con l’Europa dall’Indipendenza alla Rivoluzione Francese
Va sottolineato che fu l’Illuminismo alla fine del XVIII secolo ad avviare la democratizzazione degli Stati Uniti. Già prima del 1776, anno della Dichiarazione di Indipendenza, nella visione dei rapporti con l’estero appariva una vena tinta di idealismo e di pensiero utopico che evidenziava il distacco da tutto ciò che fosse europeo. Emergeva in parallelo anche una dimensione pragmatica fondata sul realismo commerciale dei mercanti del New England, che per motivi di scambi economici ritenevano importante conservare legami con l’Europa.
Alcuni anni dopo, in particolare tra il 1780 e il 1800, uomini come Thomas Jefferson ritenevano che nel passaggio da uno Stato coloniale ad una Repubblica gli Stati Uniti avrebbero potuto servire da modello per riformare quel sistema corrotto che gli americani consideravano tipico degli Stati europei. Si sarebbe trattato di una diplomazia nuova da costruirsi sui più alti ideali della nazione e della Repubblica né del tutto isolazionista, né semplice rifiuto dell’Europa. Era piuttosto di carattere riformista ed internazionalista ed avrebbe potuto condurre quest’ultima a lasciarsi alle spalle i suoi vecchi giochi diplomatici costruiti sui capricci e gli intrighi delle aristocrazie.
Va aggiunto che in quegli anni non era possibile per gli americani evitare un coinvolgimento e disinteressarsi sia agli sviluppi della Rivoluzione Francese che a quelli dell’era napoleonica: in quel periodo infatti tra Europa ed America i contatti e i rapporti furono numerosi e consistenti. Nel corso degli anni Novanta del XVIII secolo non furono pochi gli americani a schierarsi a favore o contro la Rivoluzione Francese. Lo scoppio di quest’ultima fu bene accolto almeno fino al momento dell’esecuzione del re Luigi XVI e al periodo del Terrore. Entrambi gli eventi divisero l’opinione pubblica americana.
Dopo 20 anni di servizio pubblico, alla fine del secondo mandato e poco prima di ritirarsi nella sua dimora a Mount Vernon, il presidente George Washington scrisse una lettera di commiato ad “amici e concittadini”: il “Discorso di Addio” (Farewell Address). Ad ispirarla, il timore che i dibattiti sulla Francia e la sua Rivoluzione, spesso molto accesi, rappresentassero un pericolo per il progresso della nazione ed i suoi equilibri interni.
Dal tramonto della Rivoluzione Francese all’acquisto della Louisiana
Thomas Paine nel suo Common Sense (Senso Comune) pubblicato a Filadelfia nel Febbraio del 1776, anno della Dichiarazione d’Indipendenza Americana e ampliato dopo una prima edizione andata a ruba, aveva lanciato il suo appello per l’indipendenza ritenendo che Europa ed America fossero due entità separate e distinte che non dovevano essere collegate tra loro. Dopo il 1790 egli divenne però un convinto sostenitore dei Francesi, sottolineando come la loro lotta per la libertà fosse la stessa di quella americana.
A seguito dei conflitti che insanguinavano l’Europa, gli Stati Uniti riuscirono a barcamenarsi con successo tra Francia, Gran Bretagna e Spagna. Queste guerre avevano contribuito ad unire il paese e consolidarne il governo. Thomas Jefferson era dell’opinione che le milizie di Stato e qualche cannoniera fossero tutto ciò che poteva servire alla difesa di un Paese “separato dalla natura e da un vasto oceano dalla rovina sterminatrice dell’Europa”. Nonostante ciò, egli fondò nel 1802 l’accademia militare di West Point.
Solo dopo la Rivoluzione Francese ed il tentativo dei regimi monarchici di soffocare i movimenti rivoluzionari in Europa, gli americani iniziarono a pensare di avere una missione speciale da compiere: tenersi distanti dall’Europa della reazione e servire da rifugio per la libertà nel mondo. Il ripudio dell’Europa divenne dunque pienamente effettivo solo dopo il tramonto delle rivoluzioni democratiche nel continente e dei movimenti rivoluzionari liberali. Da qui un atteggiamento isolazionista negli affari internazionali.
Alexander Hamilton, che contribuì al Messaggio di Addio di Washington, partendo da una analisi pragmatica degli interessi del Paese riteneva che gli Stati Uniti dovessero esercitare una politica di potenza al solo scopo di privilegiare i propri interessi, evidenziando come questi dovessero limitarsi all’emisfero occidentale. Quando insisteva per una politica di distanziamento dell’Europa egli lo faceva perché voleva che gli americani fossero liberi di espandere i loro interessi nell’area a loro più prossima.
Emerso all’epoca dei Padri Fondatori, questo atteggiamento isolazionista nasceva da un processo di analisi ben diverso da come viene concepito oggi, tanto che è possibile dire che almeno fino alla prima metà del XIX secolo le caratteristiche dell’isolazionismo americano fossero in gran parte basate sulla prudenza, il realismo ed il senso di ciò che era possibile compiere.
Messi di fronte alle nazioni europee, gli Stati Uniti non erano che un paese debole, distante e con poco o nulla da guadagnare nel farsi trascinare nelle loro questioni politiche. Quest’isolazionismo aveva dunque connotati positivi in quanto garantiva libertà d’azione e impediva interventi esterni: lontana dal coinvolgimento in Europa, la giovane nazione si sarebbe trovata in una posizione migliore per delineare i suoi territori, espandersi verso Ovest ed avvantaggiarsi dei guai del Vecchio Continente.
Portare a termine quest’impresa significava anche popolare un continente vasto e ancora vuoto per forgiare una nazione da popoli di origini ed esperienze diverse. Il tenersi distanti dalle faccende europee non poteva che facilitare questo processo. Nelle parole di John Quincy Adams si trattava per gli Stati Uniti di essere “il campione ed il difensore” della sola indipendenza americana.
Nel 1800, in vista del rafforzamento del suo impero in Nord America, Napoleone aveva concluso con la Spagna un trattato per il ritorno della Louisiana alla Francia. Jefferson, che conosceva bene ed amava la Francia, temeva che ad una monarchia debole come quella spagnola si sarebbe potuto sostituire un regime imperiale ed aggressivo. A preoccuparlo ancora di più le sorti di New Orleans, porto dal quale usciva quasi la metà dei prodotti americani.
Jefferson inviò a Parigi James Monroe con l’incarico di offrire a Napoleone dieci milioni di dollari per l’acquisto di New Orleans e della Florida occidentale. Giunto in Francia egli si accorse che l’Imperatore aveva cancellato i suoi progetti sul Nuovo Mondo: un’epidemia di febbre gialla aveva ucciso vicino Haiti il generale Leclerc insieme a gran parte delle sue truppe, convincendolo a fare marcia indietro.
A sorpresa, Napoleone decise di offrire agli Americani non solo il porto di New Orleans, ma l’intera Louisiana. Monroe ed il rappresentante Robert Livingston si lanciarono sull’offerta e per circa 15 milioni di dollari conclusero l’affare: il 30 Aprile 1803 firmarono un trattato con la Francia grazie al quale gli Stati Uniti acquisirono oltre due milioni di chilometri quadrati di territorio, più che raddoppiando la loro estensione. Il Senato lo approvò a larga maggioranza e nel Dicembre dello stesso anno la Louisiana fu formalmente ceduta agli Stati Uniti.
Guerre Indiane, diritti di neutralità e la guerra del 1812
Nel 1803 erano anche riprese le ostilità tra Francia ed Inghilterra. Non potendo affrontarsi direttamente, queste due potenze cercarono altri modi per combattersi e decisero di nuocersi a vicenda riguardo gli scambi commerciali. Gli Stati Uniti, che si trovavano ad essere i principali trasportatori neutrali, finirono inevitabilmente col trovarsi coinvolti nella faccenda. Il presidente Jefferson era al suo secondo mandato e la questione della difesa dei diritti marittimi del suo paese lo preoccupava non poco.
Nel corso della loro rivalità, Francia ed Inghilterra non avevano rispettato i diritti di neutralità americani, tanto che dal 1803 al 1812 vennero sequestrati centinaia di mercantili. Nello stesso periodo vi furono numerosi episodi di arruolamento forzato da parte inglese che si conclusero con la cattura di alcune migliaia di marinai americani. Tutto ciò ferì l’orgoglio nazionale, fece infuriare Jefferson e colpì gravemente il traffico commerciale americano insieme ai suoi armatori, con il risultato che ne seguì una generalizzata depressione economica.
L’astio fu diretto in modo particolare contro gli Inglesi. Dopo alcuni tentativi diplomatici di scarso successo per porre rimedio alla situazione, nel Marzo del 1809 il Congresso votò il “Nonintercourse Act”, che però non era di facile applicazione. Nel Maggio dell’anno successivo venne adottato il “Macon’s Bill no.2”. Napoleone poco dopo revocò i suoi decreti nei confronti del commercio americano. Il neo eletto presidente Madison si affrettò a questo punto a ripristinare il “Nonintercourse Act” a danno degli inglesi.
Mentre erano in corso questi eventi, all’interno del Paese si susseguivano gli scontri con quelle tribù indiane che erano spesso in contatto con funzionari britannici.A seguito della firma del trattato di Greenville dell’Agosto 1795 gli Americani acquisirono la maggior parte di quei territori che più tardi sarebbero andati a formare lo Stato dell’Ohio. Dopo l’acquisizione della Louisiana gli Indiani del Nord Ovest, in seguito a minacce, episodi di corruzione e non pochi imbrogli, furono costretti a cedere migliaia di chilometri quadrati di territorio ad est del Mississippi. Alcuni anni dopo apparve sulla scena un grande capo indiano di nome Tecumseh. Questi era fermamente contrario ad ogni ulteriore perdita di territorio a vantaggio degli americani, così come era certo di poter fare affidamento sugli Inglesi.
Il governatore dell’Indiana William Henry Harrison riuscì a distruggere il quartier generale indiano nella battaglia di Tippecanoe del il 7 Novembre del 1811. Sul campo furono recuperati un certo numero di fucili di recente fabbricazione britannica. Di fronte a questa scoperta gli abitanti della frontiera si convinsero che sarebbero stati al sicuro solo dopo aver cacciato gli Inglesi dal Nord America. I coloni del Nord Ovest reclamarono quindi la conquista del Canada, mentre quelli della frontiera meridionale volevano impossessarsi della Florida a spese della Spagna. Tutti questi erano ferventi nazionalisti che, unendo i loro sforzi agli interessi degli armatori, gridavano di non potersi considerare figli di una nazione indipendente finché si fossero accettate passivamente interferenze nei loro commerci ed affari. Il loro capo era Henry Clay.
Salito alla presidenza della Camera dei Rappresentanti, insieme ad un gruppo di suoi amici sparsi nei vari comitati chiave, Clay decise di spingere gli Stati Uniti verso la guerra. Il presidente James Madison non era un guerrafondaio ma allo stesso tempo era scettico sulle possibilità di un mutamento della politica inglese. Per non vedersi escluso dalla nomina per le elezioni del 1812, egli inviò al Congresso una richiesta di guerra nella quale esponeva gli abusi commessi dagli Inglesi.
I motivi della guerra erano piuttosto chiari e questi alcuni stralci delle dichiarazioni di Madison al Congresso: “La condotta del governo di Sua Maestà presenta una serie di atti ostili agli Stati Uniti come nazione indipendente e neutrale….migliaia di cittadini americani sotto la tutela del diritto pubblico e della loro bandiera nazionale sono stati strappati al loro Paese…..Vascelli da guerra inglesi hanno preso l’abitudine di violare anche i diritti e la pace delle nostre coste”.
Il 18 Giugno 1812 il Congresso rispose con una dichiarazione di guerra che finì col rivelare una profonda frattura sia di carattere regionale che partitica nell’opinione pubblica americana. La maggioranza dei suoi componenti si era schierata con il presidente Madison a favore della guerra con l’Inghilterra. Si trattò di un voto di parte, in quanto molti dei Repubblicani si erano espressi a favore e ad opporsi invece tutti i deputati federalisti.
La speranza era quella di spingere la Corona inglese ad una risoluzione più favorevole di queste dispute marittime con inoltre la speranza di conquistare il Canada e spezzare la sua influenza in quelle parti del Paese dove si era alleata con le tribù indiane per infastidire i coloni americani e rendere loro più difficile l’espandersi sul continente.
Il paese era però impreparato alla guerra, le sue casse praticamente vuote e le Forze armate ridotte all’osso. Quello che agli americani sembrava a portata di mano era l’invasione del Canada, difeso al confine da non più di 4500 uomini e scarsamente abitato: contava non più di 500 mila abitanti e la sua lealtà all’Inghilterra era incerta. Due terzi della popolazione erano infatti di origine francese, un’altra parte composta da esuli della Rivoluzione Americana ed il resto da coloni inglesi. Impegnata a combattere Napoleone, l’Inghilterra non era in grado di inviare rinforzi.
Conclusa nel 1814 la guerra contro la Francia, Londra spedì 20 mila uomini di rinforzo in Canada e mise fine alle ambizioni americane. Anche sul mare gli Inglesi riuscirono ad avere la meglio e alla fine dell’estate un loro contingente era riuscito ad entrare a Washington e per rappresaglia a dar fuoco alla Casa Bianca, al Campidoglio e ad altri edifici pubblici.
Nella Nuova Inghilterra iniziarono a sorgere nel corso del conflitto dei fermenti secessionisti, tanto che nel Dicembre 1814 alcuni suoi delegati si riunirono ad Hartford per discutere una riforma del patto nazionale. Una volta giunti a Washington, i commissari inviati dalla Convenzione di Hartford erano convinti di poter dettare le loro condizioni ad un governo vicino a cadere quando improvvisamente giunse la notizia di una straordinaria vittoria a New Orleans e della firma di un trattato di pace. La guerra in Europa si era nel frattempo conclusa ed entrambe le parti decisero di porre termine ad un conflitto per loro inconcludente.
Impegnati a fondo nel combattere Napoleone, per gli Inglesi questa guerra fu cosa irritante ma di poca rilevanza. Lasciò invece negli Americani un senso di durevole ostilità verso Londra. Anche in questo caso gli Stati Uniti si erano mostrati non solo disposti, ma anche capaci di difendere i loro interessi contro quella che all’epoca era la maggiore potenza mondiale.
Questo episodio mise fine alla dipendenza della giovane nazione dalle vicende delle potenze europee. Sinora infatti non le era stato possibile evitare di farsi coinvolgere nei vari conflitti europei, tanto che le sue maggiori preoccupazioni erano state quelle della difesa e delle questioni internazionali. A partire dal 1815 ed in seguito al Congresso di Vienna l’Europa si trovò di fronte ad un lungo periodo di pace. Gli Stati Uniti riuscirono così a rifugiarsi in un isolamento diplomatico e a concentrarsi sulle loro faccende interne.
Come all’epoca della Guerra d’Indipendenza e del successivo periodo napoleonico, alla metà del XIX secolo gli Stati Uniti avevano un ruolo irrilevante negli affari del mondo. Lo svolgersi degli eventi non aveva fatto che riflettere il corso delle vicende europee dalle quali gli americani non potevano esimersi dal farne parte: l’Europa era al centro di tutto e le decisioni più importanti venivano prese soprattutto a Londra, Parigi, Vienna, Berlino e San Pietroburgo.
Ciò spiega perché gli Stati Uniti non emersero come potenza mondiale che alla fine della guerra con la Spagna, combattuta dall’Aprile al Dicembre del 1898.
Per essere considerata grande potenza una nazione ha inizialmente bisogno che da parte del governo e del popolo vi sia la volontà di influenzare gli eventi mondiali e non limitarsi al solo ruolo di osservatore marginale e passivo. E’ anche necessario che nel formulare la loro azione diplomatica le altre potenze prendano in considerazione gli indirizzi politici di questa nazione. Riguardo quest’ultimo aspetto, le potenze europee avevano raramente tenuto conto degli Stati Uniti almeno fino all’ultima decade del XIX secolo. Se lo avevano fatto, lo si doveva più alla crescita economica e politica che alla forza della loro diplomazia.
Per gran parte del secolo, la maggioranza degli americani era del tutto indifferente alle questioni di politica estera: a preoccuparli ed assorbire la loro attenzione erano i problemi interni. Di ciò che avveniva altrove a loro interessava poco, al punto che nutrivano sospetti nei confronti dei diplomatici e dei loro modi visti come ambigui ed ingannevoli. Avevano grande fiducia nell’autosufficienza della loro nazione e pensavano che potesse cavarsela nel mondo da sola.
Questo sentimento, meglio noto con il termine di isolazionismo, si fondava sulla convinzione che quella americana era una società autosufficiente e che doveva anche tenersi alla larga da quelli che allora erano noti come “coinvolgimenti esterni”.
Il sentimento isolazionista e le sue origini: Per meglio capire questo modo di vedere le cose sarebbe il caso di chiedersi come l’isolazionismo abbia assunto una posizione dominante nella politica estera americana del XIX secolo, perché gli Stati Uniti non abbiano giocato un vero e proprio ruolo negli affari mondiali e quali furono le conseguenze e le implicazioni di questo isolazionismo.
A spiegarlo, quattro i motivi principali:
1) Geograficamente distanti dall’Europa, nel corso del secolo gli Stati Uniti avevano potuto beneficiare di un forte senso di sicurezza. Il livello di tecnologia navale e militare dell’epoca era tale da far si che l’Atlantico formasse una vera e propria barriera, tanto che gli americani ritenessero garantita la loro sicurezza nazionale. Di ciò era convinto anche il presidente Lincoln: era sua opinione che gli Stati Uniti fossero al sicuro al di là delle loro barriere oceaniche indipendentemente da quel che avrebbero fatto le altre nazioni e che sarebbe potuto accadere altrove nel mondo.
2) Gli Stati Uniti avevano di fronte un vasto territorio inesplorato da colonizzare e sviluppare. Per anni infatti il movimento verso Occidente aveva non solo assorbito gran parte dell’attenzione e delle energie nazionali, ma aveva anche concentrato verso l’interno l’interesse degli americani. Questo ideale della frontiera aveva contribuito a creare una tradizione continentale che avrebbe più tardi avuto una risonanza sull’evoluzione dei loro rapporti internazionali. Si trattava di una situazione diversa da quella esistente nel XVIII secolo: l’America consisteva allora unicamente di 13 colonie affacciate sulla costa atlantica e quindi volte in direzione dell’Europa. L’espansione verso Ovest avrebbe coinvolto gli Stati Uniti in dispute e contrasti col vicino Messico, con la Spagna e soprattutto con l’Inghilterra.
3) Nel corso del XIX secolo gli Stati Uniti crebbero e si forgiarono come nazione. In quegli anni infatti gli americani svilupparono quelle che possono definirsi delle posizioni politiche di carattere nazionale. Si trattò di un periodo particolare perché ad eccezione degli anni tra il 1850 ed il 1870 non vi furono in Europa conflitti di rilievo, ma solo guerre brevi e decisive che non coinvolsero direttamente le grandi potenze e non superarono i confini del continente. Preceduti da un periodo di forti tensioni, gli anni tra il 1861 ed il 1865 videro invece gli stessi Stati Uniti coinvolti in un conflitto civile sanguinosissimo che rischiò di minarne l’esistenza.
L’Europa della Restaurazione si caratterizzò per il raggiungimento di un’efficace equilibrio di potere che impedì a qualsiasi nazione di turbarlo poiché sarebbe stata subito fermata dai rivali. Qualche tensione sorse dai moti rivoluzionari del 1848 ed in seguito dalla rapida ascesa della Prussia. Dopo il 1871 il cancelliere prussiano Bismarck, che nel frattempo aveva sconfitto la Francia di Napoleone III e messo fine al suo impero, si adoperò per ristabilire e poi mantenere un nuovo equilibrio di potere in Europa.
Questa situazione favorì gli Stati Uniti consentendo loro di svilupparsi come meglio volevano senza doversi preoccupare di eventuali interferenze esterne: dietro la stabilità di questi anni gli americani furono liberi di espandersi verso Occidente e concentrarsi sulle loro questioni interne.
4) In questo furono essenziali il ruolo dell’Inghilterra e della sua marina militare. La flotta inglese serviva infatti a conservare gli equilibri in Europa e allo stesso tempo proteggere gli Stati Uniti da eventuali intrusioni. Londra era al massimo della sua influenza e con la sua potente flotta era la sola nazione europea in grado di minacciare gli Stati Uniti: a ricordarcelo la guerra del 1812 e l’incendio di Washington.
Dopo la caduta di Napoleone, l’Inghilterra poteva dirsi nazione amica degli Stati Uniti o alla peggio neutrale nei loro confronti: era da tempo giunta alla conclusione che un’America indipendente e libera avrebbe meglio servito i suoi interessi economici e commerciali. Si trattava infatti di un mercato nel quale investire e vendere i prodotti delle sue manifatture.
Questi punti appena menzionati sono basilari per comprendere l’evoluzione della politica estera degli Stati Uniti e del loro cosiddetto isolazionismo. Consentirono loro di farsi un’idea del mondo in un periodo nel quale si sentirono liberi da pressioni o manovre provenienti dall’altro lato dell’Atlantico. Ciò fece sì che potessero credere nella pace e nel progresso, convincersi che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi e che questo sarebbe stato l’ordine permanente delle cose.
Quel che gli americani avevano però dimenticato era di essersi sempre trovati coinvolti in tutte le turbolenze e le guerre che avevano caratterizzato il XVII e XVIII secolo. (Segue)
Edoardo Almagià