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L’avventura messicana di Napoleone IIIL’impresa messicana dell’imperatore Napoleone III giunse al suo apice nel 1862, anno nel quale il presidente Lincoln era più che mai impegnato a salvaguardare l’Unione dagli Stati Confederati del Sud.

Il generale Miguel Miramon aspirava a governare il Messico. Appoggiato dalla Chiesa e dalla casta dei proprietari terrieri, egli contrasse in Europa dei prestiti a tassi esorbitanti. Naufragato il suo intento, gli successe Benito Juarez che decise di non restituire questi prestiti. Mentre gli Stati Uniti erano impantanati nella loro Guerra Civile, Inghilterra, Francia e Spagna, che come abbiamo visto non avevano mai preso sul serio la dottrina Monroe, inviarono nel 1861 un corpo di spedizione a Veracruz.

Gli inglesi volevano recuperare i soldi prestati, gli spagnoli avevano in mente di instaurare una nuova monarchia in Messico e l’imperatore Napoleone III tramava per realizzare un progetto di crearvi un Impero e mettervi alla testa l’arciduca austriaco Massimiliano d’Asburgo. Inghilterra e Spagna ritirarono presto i loro contingenti, mentre Napoleone III col suo esercito proseguì nell’avventura. Nel 1861 il liberale Benito Juarez fu eletto presidente e si oppose all’impresa francese. Massimiliano venne nominato imperatore nel 1864, trovandosi in mezzo alla rivalità tra i due.

Evitando toni provocatori, il Segretario di Stato William Henry Seward espresse a più riprese la contrarietà del suo governo al progetto imperiale di Parigi. Evitò tuttavia di intraprendere qualsiasi azione: non si poteva infatti combattere più di una guerra alla volta, meglio quindi agire con moderazione.

Alla Casa Bianca vi era poi il timore che Napoleone III avrebbe potuto unirsi ai Confederati. Quel che non si sapeva era che lo stesso imperatore seguiva una logica non dissimile: si guardava bene dall’avvicinarsi al governo del Sud per paura che Washington potesse agire in modo da mettere a repentaglio i suoi progetti di un impero messicano.

Il 9 Aprile del 1865 ad Appomatox il generale Lee si arrese a Grant sancendo di fatto la vittoria dell’Unione e mettendo fine al conflitto civile tra gli Stati del Nord e quelli del Sud. Con la guerra finalmente alle spalle, Seward cambiò tono e pretese l’immediato ritiro della Francia dal Messico. Per mostrare che stava facendo sul serio, inviò in Texas il generale Sheridan alla testa di qualcosa come 50 mila veterani bene addestrati alla guerra ed abituati al combattimento.

L’imperatore francese recepì il messaggio e si accorse che le sue ambizioni messicane non fossero più convenienti. Di conseguenza, nel 1867 ordinò il ritiro del suo corpo di spedizione dal Messico lasciando Massimiliano privo di appoggio militare. Franò così per sempre il suo sogno di un impero messicano. Passato poco tempo, Benito Juarez sconfisse l’arciduca austriaco e lo fece fucilare.

Nella sua corrispondenza con Napoleone III Seward aveva sempre evitato di menzionare il termine “dottrina di Monroe”, che sapeva essergli intollerabile. Ad onor del vero va detto che a persuadere Napoleone ad abbandonare il suo sogno messicano non furono tanto le pressioni americane, quanto una serie di eventi che si stavano sviluppando in Europa.

A condurlo al disastro sarebbe stato un errore di valutazione in politica estera. Il 1866, anno successivo alla resa degli Stati Confederati, fu per lui un anno negativo. Era persuaso che a seguito del conflitto austro-prussiano sarebbe presto diventato l’uomo forte d’Europa, solo che puntò sulla parte sbagliata: nel giro di sei settimane le truppe di Vienna furono schiacciate da quelle prussiane.

Il risultato di questa inaspettata sconfitta rendeva palese che la Prussia di Bismarck stava emergendo come nuova grande potenza in Europa. L’imperatore francese, di conseguenza, venne subito preso di mira riguardo l’avventura messicana: i suoi avversari lo rimproveravano di aver sprecato fondi, sacrificato uomini ed indebolito l’esercito per ambizioni lontane piuttosto che concentrarsi su ciò che stava avvenendo alla soglia di casa. Napoleone capì che era tempo di lasciarsi alle spalle quei sogni imperiali, riportare i soldati a casa e prepararsi a fronteggiare la minaccia prussiana, che per Parigi poteva diventare un serio pericolo.

Questi dunque i veri motivi dell’abbandono del Messico e non, come credevano gli americani, le prese di posizione del loro governo che si rifacevano alla dottrina Monroe. Lo stesso vale per il ritiro degli Spagnoli dalla Repubblica Dominicana nel 1865: ad esserne la causa, non tanto le pressioni di Washington ed i velati richiami alla dottrina Monroe, quanto piuttosto le attività di guerriglia e la febbre gialla.

Agli occhi di tutti negli Stati Uniti questi due episodi non furono solo un grande successo diplomatico per Seward, ma contribuirono a fare della dottrina Monroe un pilastro della politica estera americana, accettato da chiunque, indipendentemente dal colore politico. La d minuscola si trasformò di conseguenza in maiuscola: d’ora in poi si sarebbe parlato della “Dottrina Monroe”.

A trasformarla in vero e proprio dogma furono dunque una serie di avvenimenti che si verificarono nel corso della Guerra Civile. Di questi il più importante fu il tentativo napoleonico di creare un impero fantoccio in Messico, diretto da un arciduca austriaco ma tenuto in piedi unicamente dalla potenza militare francese.

Il caso della nave Trent e delle Laird RamsVerso la fine del 1861 la nave da guerra San Jacinto della marina Unionista fermò in alto mare il vapore postale Trent. Al suo interno vennero trovati due diplomatici confederati diretti a Londra. Furono immediatamente catturati e rinchiusi in una prigione del Nord.

Al Trent venne concesso di proseguire la sua navigazione e appena giunto in Inghilterra scoppiò quella che fu la crisi più grave tra Londra e Washington. Il premier inglese Palmerston non era certo tipo da tollerare simili sgarbi. Era però già vecchio e prossimo alla fine della sua carriera. Erigendosi a difensore degli eterni diritti del suo Paese sul mare, egli decise di dare un’ultima zampata per restituire prestigio alla sua persona iniziando ad aizzare l’opinione pubblica.

In America, al contrario, il capitano Wilkes che comandava il San Jacinto fu subito trasformato in eroe nazionale, tanto che nell’autunno del 1861 gli umori del Nord non erano particolarmente bendisposti: gli eserciti dell’Unione stavano passando infatti da un rovescio all’altro e la cattura dei due emissari, anche se disarmati, appariva come una vittoria. Le circostanze non consentivano che venissero lasciati in mano a Palmerston e alla marina britannica.

Londra avanzò immediatamente la richiesta formale di rilascio degli emissari e pretese delle scuse dall’amministrazione Lincoln: se entro sette giorni non vi fosse stata risposta, le direttive erano di chiudere la sede della missione diplomatica di Sua Maestà a Washington. Fu il principe Alberto ad intervenire di persona per smorzare il tono della nota. Lo stesso Lord Russell, segretario agli Esteri, consigliò la calma. Palmerston, che era comunque riuscito a fare un gran baccano e mostrare la bandiera, non si oppose.

Neppure a Washington si voleva cedere: Seward esclamò che prima di rinunciare agli emissari confederati “avrebbe appiccato fuoco al mondo”. Lo stesso Lincoln era deciso a tener duro perché ai suoi occhi l’equipaggio americano non aveva fatto nulla di sbagliato. Entrambi si resero però conto che di fronte al diritto internazionale non avevano argomentazioni. Il presidente, rivolgendosi al suo Segretario di Stato, gli disse che non era il caso di combattere “più di una guerra alla volta”.

La faccenda finì col chiudersi con una lunga e contorta lettera di Seward che terminava avvisando Londra che i due emissari prelevati dal Trent sarebbero stati liberati con gioia, purché fossero gli Inglesi a venirseli a prendere. Nessuno puntava ad un intervento militare, Palmerston si calmò e Washington si fece più prudente. I toni cambiarono e lo stesso presidente Lincoln si rese conto che non era né interesse suo, né della sua amministrazione aprire controversie e cercare di marcare punti con Londra, mentre sul campo i Confederati continuavano a vincere.

Un altro episodio navale che avvelenò i rapporti tra inglesi e americani fu quello delle due corazzate note come Laird Rams. Si trattava di due navi da guerra di quasi 80 metri di lunghezza che erano state ordinate dai Confederati nel 1863 ai cantieri Laird di Birkenhead a Liverpool. L’Unione accusò l’Inghilterra di violare la neutralità ed il presidente Lincoln minacciò di inviare una squadra navale per affondarle.

Per andare avanti col progetto ed evitare un’eventuale confisca delle navi, intorno alle quali già gravitavano spie ed agenti del Nord per accertarsi della loro reale destinazione, il Segretario della Marina Confederata suggerì l’idea di venderle ai Francesi che avrebbero condotto l’operazione in nome del Pascià dell’Egitto. Alla fine, dopo una nutrita corrispondenza tra l’ambasciatore americano Adams ed il Segretario agli Esteri inglese Russell, l’ambasciatore rispose con una durissima lettera in data 5 Settembre 1863.

Ne seguì una disputa nella quale Russell accusò Adams di scarse capacità diplomatiche e di non rendersi conto della complessità della situazione. L’altro ribatté che gli Inglesi consideravano i loro obblighi internazionali privi di valore e che la neutralità britannica risultava essere “poco più di un’ombra”. Dopo successive controversie la faccenda si risolse con l’acquisto delle due navi da parte di Londra per la propria marina. Furono pagate 220 mila sterline, evitando così il rischio di una guerra e battezzate con i nomi di HMS Scorpion e HMS Wivern.

Come vedremo più avanti, non dissimile fu il caso della nave Alabama, che i Confederati impiegarono nel tentativo di infrangere il blocco imposto dal Nord. Catturò e affondo un totale di 65 navi in operazioni corsare.

Riepilogo degli indirizzi politici e dell’andamento della guerra:  Come è vero anche oggi, vi è una stretta correlazione tra lo svolgersi degli eventi sul campo e le scelte diplomatiche. Quando il generale confederato Robert Lee decise di condurre le sue truppe nel Nord, lo fece nella speranza che una sua vittoria avrebbe persuaso la Gran Bretagna a riconoscere diplomaticamente gli Stati Confederati.

Verso la fine dell’estate del 1862 il governo inglese meditò a lungo sull’opportunità di intervenire. La scarsità di cotone iniziava a farsi sentire, la disoccupazione aumentava e Napoleone III insisteva per una mediazione da svolgere con Londra che ponesse fine alla guerra, al blocco navale e riconoscesse l’indipendenza degli Stati del Sud.

Fino a quel momento, l’incapacità degli eserciti dell’Unione di ottenere vittorie importanti diede agli Inglesi l’impressione di potersi offrire come mediatori per arbitrare la fine del conflitto. Al contrario di Gladstone, favorevole a appoggiare la causa del Sud, Lord Palmerston era dell’opinione che conveniva attendere l’esito di questa offensiva: se Lee avesse vinto, Washington si sarebbe aperta a questa mediazione e Londra si sarebbe fatta avanti con una proposta. Se al contrario avesse perso, all’Inghilterra conveniva tenersi in disparte: quando il premier inglese apprese dell’esito negativo dello scontro ad Antietam, affermò di non poter più sperare in una mediazione: i Confederati erano appena stati battuti e sarebbe stato meglio attendere ulteriori sviluppi.

Con riferimento al resto dell’Europa, la Guerra Civile americana era scoppiata in un momento nel quale il suo assetto era in rapido mutamento. Lord Palmerston poteva anche esaltarsi col problema della scarsità di cotone o con episodi tipo quello della nave Trent, ma la diplomazia inglese si trovava ad essere coinvolta in altri e ben più immediati problemi: il movimento per l’unificazione dell’Italia, che raggiunse il suo apice tra il 1859 e il 1861, senza menzionare poi i tentativi garibaldini di impossessarsi di Roma; il sollevamento in Polonia del 1863 e l’anno successivo la guerra tra Austria e Prussia.

Questi eventi non solo preoccupavano Londra, ma assorbivano anche l’attenzione delle grandi capitali europee. A farla breve, erano soprattutto le tensioni in Europa ad invitare alla prudenza e al non intervento nella Guerra Civile Americana. Dopo la sconfitta di Antietam del 1862 in tutta Europa la causa confederata stava perdendo terreno. A seguito di Gettysburg e di Vicksburg fu senza speranza.

A partire dal 1864 furono i sudisti stessi a rendersi conto che avevano perduto ogni possibilità di riconoscimento. La situazione era precipitata a tal punto che un agente confederato di nome Kenner fu inviato in missione a Londra e a Parigi con la proposta di rinunciare alla schiavitù in cambio di un riconoscimento diplomatico. Che questa sua missione fosse del tutto priva di speranza era lui stesso a saperlo.

In fin dei conti, anche se il timore di un intervento europeo non era mai stato così reale come supposto dai Nordisti nel 1861, né così imminente come lo si era creduto nel Sud, ciò di cui abbiamo scritto lasciò tra Stati Uniti ed Europa uno strascico di sfiducia che durò fino alla fine del secolo.

Malgrado non poche ambiguità, a dire il vero Londra non aveva fatto che seguire una politica di prudente neutralità con una preferenza nei confronti del Nord. Nel Sud si riteneva invece di essere stati traditi ed ingannati. A modo suo, ognuna delle parti in conflitto aveva qualcosa da recriminare e ciò si sarebbe riflesso soprattutto sulle possibilità di un’intesa sincera tra Stati Uniti ed Inghilterra.

Tragica conclusione della presidenza LincolnLa Guerra Civile si chiuse con la disfatta del Sud e la resa di Appomatox nella mattinata del 9 Aprile 1865. La settimana successiva, nella serata di Venerdì santo, il presidente Lincoln si era recato insieme alla famiglia nel teatro Ford di Washington ad assistere ad una rappresentazione della commedia musicale “Il nostro cugino Americano”. Appena seduto nel palco venne raggiunto alla testa da un colpo di pistola esploso dal simpatizzante sudista John Wilkes Booth. Era la sera del 14 Aprile.

Lincoln spirò il giorno dopo e fu sostituito dal suo vice Andrew Johnson. La stessa notte anche il Segretario di Stato Seward fu vittima del medesimo complotto. Subì un attentato in casa propria ma riuscì a cavarsela per miracolo.

Terminata l’avventura messicana di Napoleone III, la politica estera degli Stati Uniti entrò in una fase di letargo. A preoccupare gli americani erano adesso soprattutto le faccende interne: la ricostruzione, lo sviluppo industriale e la marcia verso l’Ovest.

Rimasero da risolvere alcuni problemi sorti dagli anni di Guerra Civile che possono riassumersi in un inasprimento dei rapporti con Londra dovuto alle decisioni politiche prese dagli inglesi nel periodo 1861-1865. Come vedremo tra poco, vi furono negli anni successivi tensioni con il Canada, la questione dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia nel 1867, una serie di progetti espansionistici nei Caraibi ed una rivoluzione esplosa a Cuba nel 1868 che rischiò di coinvolgere gli Stati Uniti.

La presidenza Grant e l’azione diplomatica di Hamilton Fish: Nel 1868 il generale Ulysses Grant, l’uomo che aveva condotto l’Unione alla vittoria nella Guerra Civile, fu eletto presidente. Mentre lui era persona di grande integrità, la sua amministrazione fu invece un caleidoscopio di scandali ed episodi di corruzione. Di politica estera Grant non aveva la minima nozione, in compenso aveva con sé come Segretario di Stato Hamilton Fish che, al contrario, era uomo di grandissima competenza.

Conservatore d’animo, era portato a risolvere con la massima calma e nel modo più equilibrato possibile i problemi che doveva affrontare. Contrariamente al suo predecessore Seward, non era particolarmente affascinato dall’idea del “Destino Manifesto”. Di fronte a sé aveva però un ostacolo di non poco conto: quello del Congresso, del Senato in particolare: le due Camere erano controllate dai Repubblicani radicali e soprattutto da Charles Sumner, capo del comitato Affari Esteri e come tale non privo di potere ed influenza.

Quest’ultimo era ossessionato dalla convinzione che nel corso della Guerra Civile Londra si fosse schierata dalla parte degli Stati Confederati, consentendo in questo modo il prolungamento del conflitto. Ne seguiva per lui che gli Inglesi avrebbero dovuto rifondere tutte le spese sostenute dall’Unione nel corso della guerra, a partire dalla battaglia di Gettysburg. Quello che però evitava di dire è che pensava di impossessarsi dei territori del Canada.

Secondo lui gli Inglesi avrebbero dovuto cedere agli Stati Uniti quel paese confinante per saldare i conti di guerra con Washington. L’acquisto da parte di Seward  dell’Alaska, comperata dalla Russia nel 1867 per due centesimi l’acro, fu uno dei suoi rarissimi progetti ad essere approvato dal Senato e questo per via delle pressioni di Sumner, che ne voleva fare uso per sottrarre il Canada agli Inglesi.

Non meno spinoso per Fish fu il problema rappresentato dallo stesso presidente Grant. Quest’ultimo era di animo espansionista, anche lui interessato a mettere le mani sul Canada. Tra i suoi progetti vi era pure quello di prendersi l’isola di Santo Domingo.

Appena Hamilton Fish assunse la carica di Segretario di Stato, sotto lo sguardo vigile di Sumner il Senato aveva appena respinto una convenzione con l’Inghilterra elaborata in precedenza dal presidente Johnson e da Seward. Si trattava della cosiddetta Convenzione Johnson-Clarendon: il Senato, per partito preso, era sempre stato contrario a qualsiasi proposta proveniente dalla presidenza Johnson.

Questa particolare Convenzione aveva a che fare con le rivendicazioni sul caso della nave da guerra Alabama. Gli Inglesi avevano accettato che questo vascello fosse costruito in Inghilterra, consentendogli poi di unirsi alla flotta confederata ed essere poi causa dell’affondamento di molte navi dell’Unione. Anche in questo caso, Londra avrebbe dovuto dare delle compensazioni economiche e soddisfare le richieste riguardanti tutte le cosiddette rivendicazioni indirette.

Per via del clima a Washington, Fish poteva solo sperare di convincere Londra che il respingimento di questa convenzione non avrebbe significato la chiusura ad ogni possibile trattativa futura. Queste difficoltà nel giungere ad un accordo finale erano anche inasprite da questioni riguardanti gli Stati Uniti ed il Canada, in quanto molti americani, soprattutto membri del Congresso, pensavano che il Canada fosse “un frutto maturo” pronto a cadere nelle loro mani.

Era opinione comune che il Canada fosse favorevole all’annessione e a far nascere questi propositi espansionisti contribuì senza volerlo anche l’Inghilterra: non pochi dei suoi politici, il più celebre dei quali Gladstone, erano dell’opinione che non fosse conveniente possedere delle colonie: queste infatti, appena cresciute e maturate, avrebbero inevitabilmente seguito la via delle colonie americane nel 1776.

Il progetto dell’ala radicale dei Repubblicani era impedire la chiusura della questione dell’Alabama, sottolineare l’importanza finanziaria delle compensazioni da ricevere per risolvere il contenzioso delle rivendicazioni indirette ed esercitare di conseguenza una tale pressione sugli inglesi da convincerli a cedere il Canada come accordo conclusivo.

A Fish questo disegno non era gradito: voleva raggiungere con gli inglesi un accordo amichevole e soprattutto tenere separata la questione del Canada da quella dei risarcimenti di guerra chiesti a Londra. Per il Segretario di Stato che i Canadesi entrassero a far parte dell’Unione andava bene, ma doveva trattarsi di una scelta libera e spontanea, non come conseguenza di pressioni o forzature su Londra.

Il problema dei Fratelli FenianiUn’altra delle spine nel fianco che riguardavano i rapporti con il Canada erano le azioni dei cosiddetti Feniani, un’organizzazione di irlandesi fondata a New York intorno alla metà del secolo. Molti di questi erano emigrati negli Stati Uniti a seguito della terribile carestia che aveva investito l’Irlanda nel corso degli anni ‘40. Inutile dire come tutti loro odiassero gli Inglesi.

Vero scopo di questa fratellanza era l’indipendenza dell’Irlanda. Tra di loro era però diverso il modo di giungervi: c’era chi era favorevole a fomentare rivolte in Irlanda e chi, invece, a organizzare azioni di guerriglia contro il Canada partendo dal territorio americano nella speranza di avvelenare i rapporti tra Stati Uniti, Canada ed Inghilterra. La loro prima operazione oltre frontiera avvenne nel 1866. Ne seguirono altre, ognuna delle quali si risolse in un fiasco.

Queste ragazzate non intimorivano certo i Canadesi, ma dover intervenire ogni volta che qualche irlandese attraversava la frontiera costava sempre qualcosa. Di conseguenza iniziarono a protestare per la mancanza di reazioni da parte americana. L’atteggiamento ostile verso la Gran Bretagna era tale che molti negli Stati Uniti ritenevano che tutto sommato Inglesi e Canadesi ben si meritavano queste spedizioni.

In un quotidiano di Buffalo si poteva leggere “Non auguriamo nessun danno ai Canadesi, ma un po’ di sano spavento non farà certo loro del male”. Per ovvie ragioni politiche, i due più importanti giornali di New York si erano schierati a favore delle sortite dei Feniani: come accade ancora oggi nella politica americana, ogni partito cercava il voto degli irlandesi. E’ anche accaduto che quando alcuni di questi Feniani a seguito di un incursione fallita si trovarono dispersi nei pressi della frontiera, l’apparato politico di New York pagò loro il biglietto ferroviario di ritorno.

Tutto ciò aveva aspetti quasi folcloristici ma andava ad aggiungersi ad altre dispute con il Canada, come quella sulla linea di confine tra Vancouver e lo Stato di Washington, meglio nota come disputa sulle isole San Juan, e quella dei diritti di pesca nelle acque canadesi.

Una rivolta cubana e controversie sull’annessione di Santo Domingo: A complicare ulteriormente le cose ad Hamilton Fish, una rivolta scoppiata a Cuba nel 1868 contro la Corona spagnola. Considerata come “la zuccheriera del mondo”, l’isola di Cuba aveva già attirato le mire degli Stati Uniti tanto che nel 1854 era stata segretamente offerta una sostanziosa somma alla Spagna per il suo acquisto. La proposta venne ritirata quando la notizia divenne di dominio pubblico.

Numerosi giornali ed esponenti politici americani cercarono subito di sfruttare la rivolta. L’iniziativa più importante vide la luce nel Congresso: si voleva presentare una risoluzione che concedesse ai ribelli cubani lo status di belligeranti come primo passo verso il riconoscimento della loro indipendenza.

Al presidente Grant l’idea piaceva, a Fish per nulla: secondo lui non era il caso che gli Stati Uniti si accollassero i problemi di Cuba e della Spagna quando già stavano affrontando tutte le difficoltà inerenti al periodo della Ricostruzione. Vi era inoltre un altro problema: mancava qualsiasi base giuridica di diritto internazionale per appoggiare i ribelli. Questo riconoscimento, se concesso, avrebbe compromesso i negoziati in corso con Londra già di per se piuttosto difficili. Se gli Inglesi erano stati accusati di aver concesso lo status di belligeranti ai ribelli del Sud, e pertanto di non essersi comportati correttamente, come potevano gli Stati Uniti giustificare le loro critiche agli Inglesi se poi a loro volta facevano lo stesso con i Cubani?

Questa argomentazione ebbe effetto su Sumner, il quale non desiderava intralci nel suo contenzioso con l’Inghilterra. Più difficile fu persuadere il presidente Grant che aveva preparato per il Congresso un messaggio a favore del riconoscimento dei ribelli cubani. Poco dopo anche lui si convinse delle buone ragioni di Fish e gli fu grato per avergli risparmiato un grave errore.

In soccorso a Fish giunse inaspettatamente la notizia che il presidente si era fatto coinvolgere in un curioso progetto di acquisto dell’isola di Santo Domingo. Il caso si trasformò presto in quello che sarebbe diventato l’episodio chiave della politica estera americana di quel periodo. Tanto per cambiare, il governo di Santo Domingo era sull’orlo della bancarotta: i notabili dell’isola decisero che per loro l’unica via d’uscita possibile per restare al potere era vendere l’isola agli Stati Uniti e, dopo l’annessione, intascare qualche lauta somma con l’alienazione di terreni pubblici.

Per portare a termine il progetto, i politici locali organizzarono a Washington una vera e propria opera di persuasione entrando in rapporti con Orville Babcock, segretario personale del presidente Grant. Tramite lui convinsero il presidente ad inviarlo a Santo Domingo per meglio accertarsi della faccenda. Babcock, al quale poco interessavano le questioni di protocollo, si ripresentò a Washington con in tasca un trattato di annessione negoziato da lui stesso: l’acquisto dell’intera isola per la somma di un milione e mezzo di dollari. Il punto dolente era che nessuno si era preso la briga di avvisare Hamilton Fish, il quale si infuriò a tal punto da minacciare le dimissioni.

La faccenda si concluse con la revisione dell’intera procedura da parte dei due governi e la conclusione di un trattato pienamente legale tramite i canali ufficiali, non con un semplice accordo col segretario particolare del Presidente. In questo modo Hamilton Fish mostrò la sua lealtà verso il presidente, anche se poi si celava dietro un altro motivo: se il presidente Grant avesse continuato ad occuparsi del trattato, avrebbe lasciato cadere la faccenda di Cuba rendendosi conto che non aveva senso irritare Madrid quando era ancora in corso l’annessione di Santo Domingo. E così avvenne.

La strana faccenda di Santo Domingo ebbe delle conseguenze non trascurabili sul futuro della carriera del Segretario di Stato. Questa infatti portò ad un insanabile frattura tra il presidente Grant ed il senatore Charles Sumner.

Grant intendeva infatti far passare al Senato il trattato con Santo Domingo, tanto che fece uso di tutta la sua influenza per convincere i più importanti membri di quell’assemblea. Tra questi il più influente era Sumner che di fronte al testo, in un intervento non privo di livore, disse che si sarebbe concluso in un “ballo di sangue”. Per via del suo passato abolizionista egli non voleva aggiungere all’Unione una repubblica di neri: il trattato di annessione non ottenne i 2/3 dei voti necessari e naufragò il 30 Giugno 1870.

Il presidente Grant si seccò moltissimo e finì col gettare tutto il discredito su Sumner che non lo perdonò mai, al punto di descriverlo come “uomo di colossale ignoranza”. In risposta Grant decise di sbarazzarsi di Motley, il ministro che Sumner aveva personalmente inviato alla Corte di San Giacomo ed escludere quest’ultimo dal Comitato Affari Esteri del Senato. Questa frattura fornì ad Hamilton Fish l’occasione che da tempo cercava: poter riprendere il dialogo con Londra senza timore delle reazioni del Senato. Come vedremo più avanti, tra il 1870-1871 a suo favore arrivò al potere in Inghilterra un nuovo esecutivo pronto a risolvere il contenzioso delle richieste di indennizzo da parte americana.

A Washington si era capito che in questi anni l’idea del Destino Manifesto non aveva più lo stesso richiamo. Sia il mondo degli affari che la comunità intellettuale si erano opposti all’annessione dell’isola di Santo Domingo e questo stesso clima lo avevano fiutato anche quei senatori favorevoli al trattato. (segue)

Edoardo Almagià

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