“La guerra è un mostro vorace, mai sazio. La tentazione di moltiplicare i conflitti è sullo sfondo dell’avventura bellicista intrapresa da Mosca”. In questa frase, contenuta nell’ impegnativo e solenne discorso tenuto dal presidente Mattarella all ’ Assemblea parlamentare del  Consiglio d’ Europa il 27 aprile scorso, in riferimento alla guerra di Ucraina, devo, pur  rispettosamente , precisare che c’è una parola, una parola sola, che a mio parere, dovrebbe essere modificata.

E’ una parola sola, però una parola essenziale.  La guerra che si combatte in Ucraina non è un mostro vorace , è qualcosa di peggiore e di diverso.  E’  un idolo sanguinario, che noi, esseri umani, abbiamo innalzato, quasi senza accorgercene, e che  oggi cerchiamo di placare mettendo in conto illimitati sacrifici umani.

La aggressione armata della federazione russa all’ Ucraina è certamente “mostruosa”, cioè, se possibile, ancor più disumana di tante altre guerre, come gli orrori mostrati  dai media dimostrano. Ma la guerra tra aggressori e aggrediti non è essa un “mostro”, cioè una entità aliena, estranea, piombata all’improvviso nella vita pacifica dei popoli europei.  E’ invece qualcosa che sembra essere accettata come estremo e unico rimedio allo stravolgimento di un ordine internazionale, in cui le controversie paiono ormai irrisolvibili per via di dialogo. Certo da un lato c’è una autocrazia/dittatura, dall’altra una democrazia, con pregi e difetti. Un conflitto inevitabile, allora? Non proprio, dato che totalitarismo comunista e democrazie hanno convissuto pacificamente, o comunque senza conflitti disastrosi e incontrollabili, in Europa, dal 1945  fino al crollo del comunismo. Oggi questa  convivenza est-ovest pare invece divenuta impossibile. La pace sembra richiedere la debellatio dell’altra parte. Cosa è successo?

La guerra ha ora la sua rivincita, dopo i decenni di “pace europea”? I pochissimi personaggi che si muovono per la pace, a partire da Papa Francesco, sembrano figure sempre più irrilevanti e “fuori dal tempo”.  Pare incredibile, ma ci troviamo addirittura di fronte ad una sorta di “idolatria della guerra” che si è  infiltrata nelle diverse culture politiche, di destra, centro e sinistra. Forse anche nelle culture di chi si oppone alla guerra in nome di un pacifismo disarmato e pessimista, che si limita talvolta a sventolare sempre più stancamente le sue bandiere arcobaleno. Oltre ovviamente ad essersi infiltrata nelle culture di altri,  per cui la soluzione è quella di ristabilire un equilibrio militare tra aree in conflitto e la via per arrivarci sembra essere quella di rafforzare rapidamente la potenza militare dell’aggredito per far fronte al conflitto che sembra non poter essere bloccato per “via diplomatica”.

La guerra un tempo non era poi lo strumento in sé valido e sufficiente  comunque a ristabilire un ordine delle cose. Dopo le grandi guerre i protagonisti, vincitori e vinti, si sedevano a Congresso per ricostruire un ordine giusto e funzionante. Questa volta invece la guerra pare essa stessa una sorta di unica ratio impiegabile per restaurare l’ordine. Una visione che è condivisa sia dall’aggressore sia dall’aggredito, ciascuno convinto di “vincere”. Non  c’è alternativa ( pacifica) alla guerra.

Abbiamo costruito davvero una “idolatria” della guerra. L’idolo da intendersi come qualcosa di esterno alle nostre capacità, una persona, un’idea, un principio, ai quali sacrifichiamo tutte le nostre energie psichiche e spirituali, entro una  dimensione che non conosce alcuna gratuità.  E’ vero, le società umane da sempre hanno costruito e venerato idoli, hanno prodotto culture idolatriche. Lo testimoniano anche le solenni espressioni ammonitrici contenute in una delle “Dieci Parole” del Monte Sinai: “Non ti farai alcun idolo né immagine  di quanto è lassù nel cielo,  né di quanto è quaggiù sulla terra, né  di ciò  che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro…( Esodo 20, 3-5).

Noi però abbiamo da tempo ignorato questa “Parola”. Un tempo l’  idolo era il potere incontrollabile e divinizzato della natura, oggi l’idolo è il potere irresistibile della tecnologia.  Ed è dalla tecnologia, dal mondo degli “ordigni” che forse è nata in epoca moderna, la guerra intesa come  “igiene del mondo”, cioè la guerra che diviene un idolo, che assume un valore assoluto, perde ogni limitazione, morale o giuridica.

Non sempre, neppure nel nostro Tecnoevo,  la guerra è stata però un idolo. La guerra giusta combattuta dagli uomini della Resistenza italiana o europea, non è mai stata considerata un idolo. Lo testimoniano ampiamente le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea ed italiana : il nemico che i Resistenti combattono sta nel nazionalismo e nella logica di potenza ( quella che produce la guerra) e il fine che orienta l’azione non è la distruzione del nemico, ma la costruzione di una società che difenda i valori della persona ed assicuri la pace con la giustizia.  Non può esser perciò legittima, per l’aggredito, alcuna “vittoria finale” di tipo militare se compromette il raggiungimento di questi obiettivi. La vittoria militare, di per sé, non  coincide automaticamente con l’affermazione del bene. Di qui l’autolimitazione della guerra anche da parte di chi si difende.

Oggi però nella guerra di Ucraina, la guerra diviene proprio un idolo per entrambe le parti: “la violenza è elevata a giudice supremo dei conflitti tra gli Stati” ( Domenico Gallo, 25 aprile- La Resistenza insegna la lotta per la pace), dandosi per scontato che vinca l’aggredito ( come, non è chiaro perché, ma dovrà succedere) non che vinca l’aggressore ( come, non è chiaro perché, ma non  succederà). Si rompe il principio di proporzionalità e ci si illude che il ricorso assoluto alla violenza  “giusta” contro il nemico aggressore possa imporre le ragioni della giustizia.

Si finisce così per accettare un sacrificio che non ha più alcun collegamento con l’obiettivo perseguito.  E’ la “folle idolatria” di cui parla Shakespeare in “Troilo e Cressida”, laddove si affronta il tema della proporzionalità della guerra giusta rispetto all’obiettivo.

E’ “folle idolatria” ( “mad idolatry”) celebrare un culto sproporzionato al dio cui viene offerto” ( Troilo e Cressida, II, 2) dice Ettore rivolto a Troilo, dopo aver messo in dubbio che valga la pena continuare a combattere contro i Greci solo per salvare Elena, dopo sette anni ormai da quando Troia combatte. E’ il punto di vista di chi si propone di umanizzare la guerra e di fermarla. Esattamente l’opposto di quello che si delinea nel campo dei Greci in cui la Forza è riconosciuta come unico ( e devastante) elemento ordinatore della società, a partire da un contesto ( il campo dei Greci devastato dalla rottura delle gerarchie, dall’individualismo, dal disordine e dall’epidemia) in cui il ruolo della politica e la saggezza dei capi sono travolti entro un totale  disfacimento sociale.

Per i Greci assedianti la Forza, riconosciuta come unico elemento ordinatore, prende così il posto del diritto;  e la giustizia perde ogni senso. Violenza e forza distruttrice prendono il  posto di dialogo e forza generatrice, nel cupo quadro denunciato da Ulisse: “La Forza diverrà diritto, o meglio, il diritto e anche il torto, e in mezzo alla loro contesa senza fine, siederà la Giu­stizia, e non si saprà più chi è l’uno e chi è l’altro, e la Giustizia perderà il suo nome. Poi ogni cosa si risolverà in potere, il potere in volontà, la volontà in desiderio, e il desi­derio, lupo universale, spalleggiato doppia­mente da volontà e potere, fatalmente farà dell’universo la sua preda, fino a divorare sé stesso”.  W. Shakespeare, Troilo e Cressida, atto I, scena 3

E’ quanto succede ogni volta che ci si innamora della guerra e si leva alto l’osceno grido del “Got mit uns!” Dio è con noi! Quando tutto è relativo ed inconsistente o tutto è “liquido” intorno a noi , il nostro ego è solo, impaurito e senza alcuna  guida,  l’unica  meta fondamentale che ci guida, l’unico principio assoluto che ci orienta, l’unico “dio” cui ci affidiamo finisce per essere la forza che nei conflitti più radicali ( quelli tra le nazioni) assume il volto ( non sempre il nome) della  guerra.

Ma come è rinata in Europa questa modernissima idolatria della guerra  nel XXI secolo, nel secolo della globalizzazione? Le prospettive della globalizzazione sembravano rosee: cosa poteva esserci di più pacifico di una società globale retta dalla “mano invisibile” del mercato che assicurava un accettabile equilibrio tra domanda e offerta ed offriva a tutto il mondo i mezzi per far prosperare pace e ricchezza? Certo l’economia finanziaria non era l’economia capitalistica del vecchio secolo. Il profitto non si realizza più nella produzione di valore , ma piuttosto nella estrazione di valore,  cioè nella appropriazione, estrazione e prelievo di ricchezza già esistente, e persino degli elementi naturali, dell’acqua, dell’aria dell’ambiente, del corpo umano. La ricchezza monetaria si accresceva, unico problema crescevano i rischi in maniera esponenziale. L’economia finanziaria era spesso una scommessa. Si entrava nella “società del rischio”. Una nuova “normalità”, quella del “rischio”, necessaria però se si  voleva  il “progresso”.

Ma la “società del rischio” non può concedersi il “lusso” del tempo. Ha bisogno in permanenza di poteri emergenziali, poteri che modificano regimi politici ed anche rapporti internazionali. Il primo effetto di questi poteri, evidente da anni, è stato quello di  indebolire e alterare la democrazia, incidendo pesantemente su divisione dei poteri e su ruolo del Parlamento, facendo prevalere i criteri “tecnici” su quelli politici nei processi decisionali. Il deliberare non serve più, basta il decidere, meglio se con parametri non discutibili ( quelli elaborati da scienziati o da tecnici), quando il “tempo” non consente più la ponderazione. L’unico tempo che conta è il presente!  Il secondo effetto, divenuto evidente poco alla volta, è stato l’alterazione del sistema delle relazioni  internazionali. Se l’accordo ragionevole delle volontà degli Stati- la politica non può più progettare a lungo termine-  non è possibile e quindi nessun “concerto” degli stati può riuscire ad imporre regole che consentono di conciliare interessi e risolvere conflitti,  resta spazio soltanto per un soggetto esterno agli Stati che abbia la forza per  imporre decisioni sovrane superiore a regole e leggi ordinarie.

Ovviamente il potere emergenziale non significa guerra, ma ci ha preparato a ricorrere alla  guerra. All’inizio quel potere pareva necessario per combattere un imprevedibile nemico esterno, il terrorismo cosiddetto islamico, fonte di tutti i pericoli possibili dopo lo shock delle “Torri Gemelle”. Ma poi esso diveniva necessario anche per affrontare il disastro ( imprevedibile anche quello?) della finanza mondiale deregolata che scommetteva sui subprime e sul futuro. Come noto allora l’ UE ha provveduto a modificare e derogare dal diritto euro-unitario, mettendo da parte un Trattato ancor fresco di firma, per introdurre misure draconiane di “risanamento” che operavano con un diritto parallelo emergenziale collegato con le scelte dei più forti governi europei. Poi abbiamo avuto gli altri “imprevisti” epocali, la pandemia e, infine,  la guerra, ritornata nel cuore d’ Europa.

La guerra- intesa come condizione di fatto, come condizione di conflitto e diffidenza reciproca-  sta mettendo all’ordine del giorno, per un periodo indeterminato, l’esigenza di un nuovo potere, un potere “deterrente”, capace di dominare il dis-ordine delle relazioni internazionali , un potere meno responsabile, meno trasparente,  ma impersonale, assoluto, efficace e “naturale” come la mano invisibile del mercato, o come la mano- visibile e sanguinaria-  della guerra.

Se la guerra può assumere un ruolo, latu senso, ordinatore, che senso ha allora  “ripudiarla come fa l’art. 11 della nostra Costituzione?  Si può ripudiare l’ossigeno solo perché esso consente di produrre il fuoco ? Del resto paura e diffidenza, oltre che competizione dominano la società in cui gli uomini sono più vicini ma non sono più fratelli, rimangono socialmente e culturalmente “distanziati”, anche senza Covid 19.  In un mondo di individui impauriti da tutto, in cui la legge della paura è subentrata a quella della fiducia, la guerra pare l’unico mezzo per risolvere le grandi controversie. E il potere di deterrenza militare, un nuovo equilibrio del terrore, sembra l’unico che possa portare gli Stati dittatoriali o autocratici alla ragione.

Questa è la cultura che impedisce di cercare la pace.  Non possiamo cercare la pace finché l’idolo ci domina, finché non è ridotto in pezzi, finché esso non crolla sui suoi piedi di argilla. Fuor di metafora, finché non ne smascheriamo l’ intima contraddittorietà.  L’idolatria  della guerra fa strame di tutti i principi di razionalizzazione della guerra prodotti dalla esperienza storica. Ma fa strame anche del buon senso dell’uomo comune.

Nel caso della aggressione perpetrata contro uno Stato è la cecità culturale collettiva che consolida questa idolatria attraverso il meccanismo della escalation competitiva. Che significa: più guerra per combattere la guerra!  Questa cecità si fonda sull’alterazione del principio di proporzionalità, che serve a fissare limiti alla durata delle guerre e a dare forma agli accordi. La proporzionalità è infatti un modo di adeguare  i mezzi ai fini. Ma se io faccio l’opposto, adeguo cioè i fini ai mezzi, ridefinendo successivamente gli obiettivi, inizialmente ristretti, per adattarvi poi le tecnologie militari a mia disposizione, chiudo la strada a trattative possibili e prolungo la guerra in modo indefinito ( mesi, o anni, per l’ Ucraina,  secondo quanto si aspettano nei sondaggi del maggio 2022  i cittadini italiani).

Se l’obiettivo-fine di salvaguardare la libertà e la sicurezza dell’ Ucraina entro le sue frontiere  divenisse l’ obiettivo-mezzo per  indebolire il potere autocratico putiniano o addirittura per avere un mutamento di regime nella federazione russa, ecco che da un lato allontanerei lo stop alle armi e dall’altro metterei a rischio ogni principio di giustizia dei futuri accordi, perché non terrei in alcun conto della necessità di salvaguardare i diritti del popolo aggressore ( forse per chi è digiuno di storia di relazioni internazionali una eresia), oltre, probabilmente, anche a  quelli del popolo aggredito.  Un problema classico che si pose già a metà del XX secolo in piena guerra fredda quando l ‘ “azione di polizia” americana ( la guerra contro l’aggressione nord-coreana fu così denominata) per difendere la Corea del Sud dall’aggressione della Corea del Nord dovette scegliere se “punire l’aggressore” spostando il confine oltre il 38° parallelo, oppure ripristinare lo status quo ante bellum . E si scelse allora per la soluzione più ”moderata” da parte dei vincitori americani. Ed eravamo solo agli inizi della guerra fredda.

Di fronte a questa situazione le responsabilità dell’ UE sono enormi. Può l’UE limitarsi a confezionare pacchetti di sanzioni uno dietro l’altro senza perseguire strategie che non puntino solo sulla forza ( sia pure non militare)?  Non sarebbe suo compito muoversi nell’arena internazionale, come forza coesa e compatta, per coinvolgere più soggetti possibile nella prospettiva di una conferenza per la progettazione di un sistema di sicurezza e di cooperazione collettivo europeo, che ristabilisca a medio termine la fiducia reciproca tra i popoli e punti sulla garanzia dei diritti umani che sono sempre stati la base della pace tra i popoli, come dimostrò l’ Atto di Helsinki 1975? Compito dei cittadini comuni, del mondo della cultura , della politica, del pensiero è quello di smascherare questa rinata idolatria, di fare a pezzi l’idolatria della Guerra.

Compito dei dirigenti politici dovrebbe esser quello di ritornare all’Europa,  a quella progettata e solo in parte realizzata da Robert Schumann con la Dichiarazione del 9 maggio 1950 e da Aldo Moro con l’ Atto finale di  Helsinki nel 1975. I loro progetti miravano rispettivamente ad organizzare l’economia per costruire la pace e a garantire i diritti umani per limitare l’arbitrio degli Stati sovrani. Solo recuperando il pensiero ed il coraggio di Schumann e di Moro si può sperare di fermare la deriva attuale.

Umberto Baldocchi

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