Da tempo uno dei problemi fondamentali della magistratura è la sua politicizzazione. Fatto che collide con  il secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, il quale dispone che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti  al giudice  terzo e imparziale.

L’attività politica è dotata di  caratteri che fanno necessariamente, di chi milita in un partito, una persona di parte, dato che è tenuto a seguire una linea politica, che lo porta al confronto e spessissimo allo scontro con chi milita in formazioni diverse. Pertanto, chi fa politica è tutt’altro che terzo ed imparziale. Per essere imparziale, il giudice che ovviamente ha i suoi convincimenti politici, deve tenerseli per se, senza manifestarli apertamente, e sforzarsi nonostante tutto di porsi super partes ed anche di apparire super partes senza determinare in chi viene giudicato il sospetto ed il timore di essere giudicato da un giudice condizionato dalla sua ideologia politica. I politici devono fare i politici e provvedere a risolvere i problemi della collettività, i giudici devono provvedere a risolvere controversie e ad irrogare sanzioni. Pertanto tra le attività degli uni e degli altri non devono esservi interferenze né collateralismi.

Vediamo quali sono le situazioni che sono incompatibili con la terzietà ed imparzialità del giudice e come porvi rimedio.

Spessissimo si verifica che giudici partecipino a competizioni politiche. E’ vero che lo articolo 49 della Costituzione dispone che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. L’articolo 51 della Costituzione dispone che tutti i cittadini dell’uno o dello altro sesso possono accedere alle cariche elettive, ma a mio sommesso avviso tali disposizioni collidono e trovano un limite  nell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo, che garantisce a tutti i cittadini il diritto inviolabile  di essere giudicati da un giudice terzo ed imparziale. Tale norma è stata ricalcata addirittura sull’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, sul diritto ad un processo equo. L’articolo 6 in parola dispone al primo comma che ogni persona ha diritto ad una equa pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.

Si verifica anche che giudici eletti come candidati di un partito a una carica politica od amministrativa, alla fine del mandato o di più mandati, rientrino in magistratura. Ovviamente, vi rientrano etichettati e ricchi di tante vicinanze e conoscenze in quel partito politico. Come si può pensare che questo giudice sia indipendente e non condizionato nel momento in cui si trovi di fronte a processi che riguardano soggetti legati ad altre concorrenti formazioni politiche? Come si può pensare che tale  giudice, interessato da vecchi compagni di partito,  sia capace di dare una interpretazione obbiettiva e non viziata dalla sua appartenenza politica, quando si trovi ad interpretare una normativa che abbia una particolare rilevanza sul piano sociale e politico ( vedi ad esempio la materia del lavoro)?

Il rimedio pertanto consiste nello stabilire che chi partecipa a competizioni politiche, cessato il mandato, non possa più rientrare in magistratura. E ciò deve valere per ogni giudice sia ordinario, sia amministrativo, sia contabile. Tanto più che l’articolo 98 della Costituzione, terzo comma, dispone che si possono con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici, tra gli altri, per i magistrati.

Altra situazione incompatibile con l’indipendenza e l’imparzialità del giudice consiste nel distacco di giudici ( vale per tutte le categorie di giudici) presso i gabinetti dei ministeri od uffici legislativi, od altri uffici che nulla hanno a che fare con l’esercizio della attività giurisdizionale. Questi giudici diventano poi vulnerabili a richieste di chi ha conferito loro quello incarico ( ovviamente retribuito), così divenendo sensibili a condizionamenti esterni.

Ma la politicizzazione della magistratura trova una importantissima fonte all’interno della stessa magistratura, nell’Associazione nazionale magistrati. Sono i leaders delle varie correnti all’interno dell’ Associazione nazionale magistrati che decidono chi deve andare a ricoprire uffici direttivi, trasmettendo l’esito dei loro accordi ai membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura. Questi leaders sono i più politicizzati e quelli che determinano il collegamento tra politica e magistratura.

Questa situazione è emersa in maniera eclatante con i casi Ferri e Palamara, due dei leaders di correnti della ANM. Ferri risulta eletto nelle liste del PD,  attualmente fa parte della nuova formazione politica di Renzi, per cui può considerarsi la longa manus di Renzi all’interno della magistratura. L’Associazione nazionale magistrati poi stabilisce anche quali sono i membri togati che debbono essere eletti al Consiglio Superiore della Magistratura. Per evitare questa commistione si potrebbe pensare ad eleggere i magistrati che debbono far parte del CSM per sorteggio. In tal modo si potrebbe garantire la autonomia della magistratura dal potere politico, dando vigore al primo comma dello art. 104 della Costituzione il quale dispone che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. La soluzione del sorteggio però viene a collidere con la disposizione dello art. 104 là ove prevede che i componenti togati  debbano essere “eletti” da tutti i  magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie. Restano altre due soluzioni: l’abolizione della Associazione nazionale magistrati, non compatibile con l’essere la magistratura un potere, oppure la separazione delle carriere tra giudici e appartenenti alla categoria dei pubblici ministeri. Questa ultima soluzione indebolirebbe non poco la forza della ANM, atteso che i pubblici ministeri dovrebbero essere esclusi dal farne parte. Il nodo dell’ Associazione nazionale magistrati è un nodo che dev’essere sciolto se si vuole bonificare la magistratura da influenze ed interferenze esterne, aiutando così i giudici ad essere effettivamente autonomi e indipendenti, senza preoccupazioni di militanza nella ANM per garantire la loro carriera.

Inoltre, proprio per garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sarebbe opportuno stabilire che le controversie dei magistrati relative alla loro carriera non siano devolute ai TAR, ma siano decise all’interno della stessa magistratura. I provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati  del CSM sono impugnabili dinanzi alle sezioni unite della Corte di Cassazione; tale soluzione potrebbe essere adottata per i provvedimenti attinenti la carriera dei giudici. Impugnazione non dinanzi al giudice amministrativo, ma impugnazione dinanzi alle sezioni unite della Corte di Cassazione.

Questi i suggerimenti per garantire la autonomia, la indipendenza e la terzietà dei giudici. Suggerimenti per accelerare la rapidità delle decisioni. Bisogna abbandonare la filosofia  che ha dominato sin’ora nella organizzazione della magistratura.

L’articolo 384 c.p.c. dispone al secondo comma che la Corte di Cassazione, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto. Se la Corte può anche decidere nel merito che senso ha di mantenere due gradi di giudizio nel merito? Dato che tale assetto non è costituzionalizzato, sarebbe opportuno abolire le corti d’appello ed  utilizzare tutti i magistrati dello appello per rinforzare gli organici dei tribunali.

Al fine di ridurre i ricorsi per Cassazione  l’avvocato dovrà essere sottoposto ad una consistente sanzione pecuniaria  ( cinquemila euro ) se nel corso di un anno dei  ricorsi da lui proposti quattro vengono dichiarati inammissibili o rigettati per manifesta infondatezza. Infine, il giudice dovrà rispondere direttamente per l’indennità dovuta dallo Stato alle parti di un processo, in base alla relativa legge ( se non vado errato legge Pinto), per la sua eccessiva durata e per il ritardo a lui addebitabile, a meno che il giudice possa addurre a sua giustificazione un caso di forza maggiore.

Un discorso a parte merita la Sezione tributaria della Cassazione. Per la tutela in materia tributaria restano in vigore i due gradi di merito rappresentati dalle commissioni tributarie provinciali e regionali. Data questa maggiore possibilità di tutela nel merito, dev’essere previsto, come contropartita per proporre ricorso per Cassazione un limite di valore ( es. tremila euro). Ciò perché con l’abolizione della Commissione tributaria centrale sono piovuti in Cassazione una valanga di ricorsi anche per somme modeste, facendo lievitare i ricorsi per Cassazione da 1.500, 2.000 l’anno a decine di migliaia, per cui sembra che la attuale pendenza si aggiri intorno ai trentamila ricorsi, aumentando così  a dismisura i tempi di decisione della Corte, con ripetuta violazione delle norme sulla durata ragionevole del processo.

Passando ad esaminare se attualmente è giustificato il mantenimento della separazione dai giudici ordinari dei giudici amministrativi e contabili si osserva. L’art.  102, primo comma, della Costituzione dispone che la funzione giurisdizionale sia esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sullo ordinamento giudiziario. L’articolo 104 primo comma della Costituzione stabilisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Organo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della  magistratura è il Consiglio superiore della magistratura (art. 104, comma secondo e seguenti) al quale spettano, secondo le norme dello ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.

Le garanzie previste per i magistrati ordinari non sono previste per il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa aventi giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi ( art. 103 cost.). Né tali garanzie sono previste per la Corte dei Conti che ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge ( art. 103 cost.).

L’articolo 100 della Costituzione, dopo avere stabilito che il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico amministrativa e di  tutela della giustizia amministrativa, e dopo aver specificato che la Corte dei conti è  organo di controllo, indicandone il modo e l’oggetto, dispone all’ultimo comma che la legge assicuri l’indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al Governo. Da queste disposizione si vede chiaramente che, mentre l’autonomia e l’indipendenza della magistratura ordinaria sono garantite da un istituto, il Consiglio Superiore della Magistratura, i giudici del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti non godono di una garanzia altrettanto forte. Inoltre, questi ultimi si trovano all’interno di organi che, data la funzione consultiva e di controllo, sono contigui al Governo e questa contiguità costituisce un rischio per l’autonomia e l’indipendenza dei giudici.

Pertanto, il sistema giudiziario delineato dalla Costituzione appare alquanto disarmonico e incoerente e non si vede la ragione per cui le controversie tra il cittadino e la pubblica amministrazione debbano essere attribuite ad un giudice diverso da quello ordinario. Tanto più che il cittadino non può ritenersi un suddito, mentre lo Stato deve ritenersi funzionalmente al servizio del cittadino.

Da quando la Costituzione è entrata in vigore tanta acqua è passata sotto i ponti, la considerazione dei rapporti tra Stato e cittadini si è evoluta. Dal tempo in cui fu istituita la Quarta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato per la tutela degli interessi legittimi, è notevolmente cambiata la considerazione di questi, tanto più che con la sentenza n. 500 del 1999 della Corte di Cassazione, resa a sezioni unite, si è estesa la tutela risarcitoria anche agli interessi legittimi, mettendo in luce che devesi avere riguardo al bene della vita con il quale l’interesse legittimo può essere correlato.

Questa evoluzione rende sempre più anacronistico mantenere in vita giudici diversi per questioni che possono ben essere ricondotte alla giurisdizione del giudice ordinario. Pertanto, la Costituzione dev’essere  modificata conservando al Consiglio di Stato la Consulenza giuridico-amministrativa e alla Corte dei Conti l’attività di controllo. A quest’ultima però va conservata, mantenendone la Procura, l’iniziativa di promuovere dinanzi al giudice ordinario le azioni prima riservate ai giudici della Corte stessa.

Un’ultima considerazione. La figura dell’interesse legittimo è stata elaborata in un epoca in cui  vigeva una concezione  piramidale della struttura dello Stato. Con l’avvento della Costituzione, che si fonda sul rispetto dell’integrità e sulla promozione della dignità della persona umana, alla concezione piramidale dello Stato si è sostituita una concezione funzionale: lo Stato è al servizio della comunità e del cittadino. Questa nuova concezione non lascia spazio a figure quale l’interesse legittimo, che appare sempre più come una sovrapposizione al diritto soggettivo. Quando la pubblica  amministrazione nel provvedere incorre in un eccesso di potere, non viola un interesse legittimo, ma il diritto del cittadino al buon andamento ed all’imparzialità della amministrazione (articolo 97 della Costituzione).

Francesco Maria Fioretti

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