In campo scientifico, quando ci si imbatte in dati sperimentali che la teoria al momento più accreditata non sa spiegare, si passa al un altro paradigma che li sappia ricollocare in una nuova sintesi, più astratta e più inclusiva, tanto da assumere la teoria precedente come caso particolare del nuovo modello esplicativo.
Forse si può osare un’analogia con i modelli di sviluppo socio-economico. Il nostro – ispirato all’idea di progresso, costante, progressivo ed illimitato ed al criterio di benessere come disponibilità crescente e mai sazia di beni di consumo – non è in grado di dar conto e, soprattutto, di ovviare alle gravissime diseguaglianze cui ha dato origine e che tuttora alimenta. Anche per i sistemi socio-economici c’è una sorta di “fatica” non dissimile da quella del metallo che, oltre una determinata soglia di sollecitazione estrema, cede di schianto.
Gli enormi divari che registriamo all’interno di singoli Paesi e soprattutto a livello internazionale, fin quando potranno persistere, senza provocare reazioni e fratture ingovernabili? Thomas Kuhn – teorico delle rivoluzioni scientifiche, intese appunto come paradigmi subentranti – ricorre alla metafora degli occhiali: adottando lenti più potenti si rilevano oggetti e relazioni che prima non si scorgevano o apparivano sfuocati ed indecifrabili. Se inforcassimo gli occhiali della pandemia potremmo avere una cognizione più puntuale del quadro in cui siamo immersi?
In fondo quest’ultima è stata ed, anzi, è tuttora, una sorta di meditazione collettiva in ordine al sottile, inafferrabile confine che separa la vita dalla morte. Come tale, dovrebbe indurci ad affrontare domande radicali e tra queste l’ineludibile quesito circa il criterio ultimo, il valore essenziale, non riducibile ad altro che dovrebbe innervare la costruzione di una convivenza civile profondamente rinnovata.
Cominciando da noi, potremmo chiederci: per quanto ci riguarda, come forza di ispirazione cristiana, questa pietra angolare destinata a reggere l’intero edificio quale può essere? Se immaginassimo di spremere il nostro programma, sottoponendolo ad un percorso progressivo di sintesi talmente estrema da poterne cogliere la sostanza in una sola parola, dove approderemmo se non a “libertà’”? Insomma, ancora e sempre “libertas”, purché non in termini banali, scontati o ripetitivi, bensì andando a fondo dell’intensità e dello spessore, proprio del nostro tempo, che il concetto di “libertà” immediatamente evoca, al di là del semplice riferimento alle libertà civili. Del resto, la libertà che cos’è se non il tratto distintivo che, più di ogni altro, dà conto del nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio?
In effetti, come ha affermato Papa Francesco, “il rischio della libertà è il grande dono di di Dio”. Francesco ribadisce: “lo spirito di Dio e’ libertà”. La libertà che ci è donata e di cui siamo, dunque, originariamente capaci, è pur sempre un traguardo da conquistare. E questo è vero sul piano individuale, ma pure a livello collettivo. Ogni epoca storica deve guadagnare e riguadagnare da capo la sua misura di libertà. Il che significa camminare su un crinale sempre difficile, consapevoli delle insidie e dei tarli che la minacciano o ne limitano la piena espressione.
Fortunatamente non temiamo che le nostre libertà civili possano oggi essere compromesse da regimi autoritari. Ma, nel tempo complesso che viviamo, tanto basta per essere certi di poter davvero esercitare a pieno la nostra libertà?  La nostra capacità critica, la nostra autonomia di giudizio, la nostra responsabilità. Perché, ad esempio, pur al di fuori del fanatismo ideologico che ha sorretto i regimi criminali del cosiddetto “secolo breve”, siamo ancora alla ricerca del capo carismatico di turno? Perché le stesse forze politiche sono tutte o quasi, potentati personali di questo o quel presunto leader? Non c’è forse una complicità implicita di tanti, troppi cittadini che avvertono la fatica morale, psicologica e cognitiva di un pensiero critico ed autonomo che, oggi più di ieri, costa la fatica di portare a sintesi una pluralità enorme di versanti, cosicché è più comodo e rassicurante marciare, allineati e coperti, al seguito del cosiddetto “uomo forte”?
Al di là di molte apparenze di segno contrario, non vi sono ambienti non marginali che sembrano “stanchi” di essere liberi e consegnati a sé stessi, appesantiti da una responsabilità difficile che è più agevole delegare? Non è più prudente schivare il “rischio della libertà” come lo chiama Papa Francesco ed adagiarsi nella bambagia di un conformismo accettabile? Del resto, nelle società ad alto sviluppo, se osserviamo attentamente, agiscono potenti fattori di omologazione , funzionali ad “oliare” un certo tipo di sviluppo. Le mode e la pubblicità, la rincorsa agli “status symbol”, mille sollecitazioni oltre la soglia di fisiologica sopportazione, messaggi subliminali e suggestioni, abiti mentali “pret a porter”, giudizi prefabbricati ad arte: la facoltà di giudicare in proprio è messa a dura prova.
E’ più comodo intrupparsi nel gregge che non camminare da soli, magari controvento.
Del resto, sotto il ribollire effervescente che osserviamo in superficie, quel concerto di poteri che tendono a stabilizzare il “sistema” a dispetto delle profonde fatture che lo attraversano, distilla quel pensiero unico che pialla e leviga quanto più possibile le opinioni dissonanti, le avvolge e le rende uniformi, omogenee e compatibili.
Siamo davvero – e fino a che punto – liberi? In effetti, noi pensiamo alla libertà come “diritto”. Non è forse giunto il momento di concepirla e coltivarla come “dovere”? Cioè come spazio interiore da costruire, nutrire, coltivare giorno per giorno, preservare ed in cui ospitare l’ autonomia critica e la responsabilità diretta, personale di ciascuno. Non è forse, anzitutto, qui la radice ed il motore della “trasformazione” di cui parla il nostro Manifesto ( CLICCA QUI ) e la stessa condizione “sine qua non” perché sia governabile una società.
Domenico Galbiati
Immagine utilizzata: Pixabay

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