Solo un anno fa, l’America sembrava perdere colpi ed essere in ritirata su vari fronti: Trump voleva mettere da parte la NATO; Biden aveva abbandonato l’Afghanistan quasi fuggendo; nel Medio Oriente prevaleva il disimpegno. In Europa, ci si chiedeva se non fosse opportuno cercare percorsi autonomi almeno in alcuni settori; Macron esortava a prendere le distanze dalla politica americana riguardo alla Russia, al Vicino Oriente e all’Africa; perfino Mattarella e Von der Layen ritenevano che fosse venuto il momento di dare alla UE una dimensione politica e una autonoma capacità di difesa all’altezza delle sue potenzialità.
Oggi, quel tempo pare lontano anni luce. L’America ha ripreso saldamente nella proprie mani il controllo degli eventi internazionali riproponendosi come l’indiscusso Numero Uno.
Gli osservatori si erano sbagliati? Non tutti, perché Dario Fabbri non aveva condiviso tale rappresentazione del declino statunitense, facendo presente che gli apparati securitari (quelli che negli USA contano) erano determinati ad intervenire con decisione là dove il primato poteva essere messo in pericolo, stante la forza militare del Paese (con il 40% della spesa militare mondiale, il 70% insieme agli gli alleati).
Con la guerra in Ucraina, il quadro internazionale è profondamente cambiato. La NATO si apre (Turchia permettendo) alla Svezia e alla Finlandia; si è dissolta la prospettiva di una UE dotata di una dimensione politica e di una autonoma capacità di difesa che ne riflettessero le potenzialità; sono stati rotti i forti legami economici tra la Germania e la Russia, mettendo Berlino in gravi difficoltà economiche essendo costretta ad acquisire il gas ad alti costi su altri mercati; si sta ridimensionando quel patto franco-tedesco detestato dagli americani; e soprattutto la Russia, isolata ed indebolita, corre il rischio di crollare militarmente, o comunque di uscire dalla guerra ridimensionata come potenza.
Si tratta di un grande successo conseguito da Washington, non certo raggiunto per caso, né solo frutto di un passo falso di Putin (l’attacco all’Ucraina del febbraio 2022). È ingenuo crederlo, avendo l’America, in tale modo, raggiunto un obiettivo da tempo perseguito dai vertici del Paese, puntando proprio sull’Ucraina come varco per colpire la Russia (il vecchio, ma sempre attuale progetto di Brzezinski) e nel contempo ridefinire gli equilibri in Europa.
La guerra in Ucraina è infatti un episodio del permanente confronto fra Stati Uniti e Russia, solo momentaneamente abbandonato da Washington ad inizio degli anni Novanta (con Bush padre presidente). Un confronto ben presto ripreso, sotto la presidenza di Clinton, con una Russia governata da un Eltsin non certo ostile nei confronti dell’Occidente, ma comunque ritenuta una competitrice sul terreno geopolitico.
Seguono, in misura crescente, passi in tale direzione: il continuo spostarsi ad est della frontiera della NATO; il posizionamento in Polonia del sistema di missili antimissili (per le guerre stellari) col pretesto di difendere l’Europa dai missili nord coreani ed iraniani; le “rivoluzioni colorate” (in realtà colpi di Stato organizzati da una opposizione violenta, largamente sostenuta e foraggiata dai servizi occidentali) contro governi eletti regolarmente (come attestato dall’OSCE), prima in Georgia, e poi in Ucraina (di qui viene l’occupazione da parte di Mosca della Crimea per evitare di essere estromessa dal mar Nero); il sostegno a Kiev negli otto anni di interventi militari nei territori russofoni dell’Ucraina per soffocarne la richiesta di autonomia; ultimamente il rifiuto di Washington di negoziare una rinnovata architettura di sicurezza, come richiesto da Mosca, un rifiuto giunto dopo l’accantonamento degli accordi di Minsk e l’incoraggiamento ai propositi di Zelensky di riprendersi la Crimea.
Tale pressione occidentale si è così portata ad un livello ritenuto insostenibile da Mosca, spingendo il Cremlino ad un passo oggettivamente poco meditato perché le “guerre preventive” (se non è Israele ad intraprenderle) mettono sempre e giustamente chi le avvia dalla parte del torto presso l’opinione pubblica internazionale.
Quali potranno essere gli sviluppi di questa situazione? Ha ragione Giuseppe Davicino (vedi Multipolarismo, il nome della pace nel XXI secolo) quando afferma che le decisioni su fino a che punto si spingerà lo scontro con la Russia, o sul momento del cessate il fuoco, non appartengono allo Stato italiano (né ad altro Stato europeo) bensì a quei poteri che detengono la sovranità in Occidente (o per meglio dire, agli Stati Uniti).
Allo stato attuale delle cose, non è chiaro che cosa vogliano fare coloro che stanno al vertice della grande potenza nordatlantica. C’è chi intende spingere il conflitto fino al collasso ed alla disgregazione della Federazione russa per dedicarsi successivamente al confronto con la Cina. Altri, paghi del risultato già raggiunto di aver eretto una invalicabile barriera tra Europa e Russia spezzandone ogni legame economico, sono disposti ad una tregua temendo le imprevedibili conseguenza del disfacimento dello storico nemico. Infine (ma credo si tratti di una minoranza, al momento estranea ai centri del potere) qualcuno è disposto a fare i conti con l’ipotesi di un mondo multipolare valutandone i pro e i contro. In quest’ultima prospettiva, si è aperta la discussione sul friend-shoring, ovvero la creazione di una mini-globalizzazione riservata agli “amici” (come scrive Federico Rampini), ovvero ai Paesi che condividono i valori degli Stati Uniti. È un’ipotesi a sostegno della quale prevalgono le considerazioni di ordine economico sulle esigenze di ordine geopolitico, quando storicamente sono sempre queste ultime ad essere vincenti.
Le decisioni (del 20 gennaio) prese a Ramstein e le successive sull’invio dei carri armati tedeschi Leopard e dei corrispettivi americani Abrams inducono a pensare che l’opzione in corso sia quella di portare a fondo la guerra fino a piegare la Russia. Spingendosi fin dove? Respingere le sue forze militari fino ai confini dell’Ucraina precedenti al 2014 (come sicuramente auspica Zelensky, insieme a britannici, polacchi, baltici e scandinavi), oppure limitare l’obiettivo alla riconquista dei territori ucraini occupati dai russi dopo il febbraio 2022 (come sembrano pensare i francesi, i tedeschi e parte dei vertici americani)? Non è ancora chiaro, e forse lo stesso Biden al momento non ha ancora fatto una scelta.
La sola cosa certa è la pericolosa sottovalutazione dei possibili sviluppi della guerra con un confronto diretto tra NATO e Russia ed il ricorso alle armi nucleari. È irresponsabile dare per scontato che ciò non accada confidando sulla debolezza militare russa. Ma proprio per l’enorme divario con la NATO sul terreno degli armamenti convenzionali, una Russia portata allo stremo potrebbe ricorrere alle armi nucleari tattiche in cui mantiene ancora un qualche equilibrio con gli Stati Uniti. I successivi sviluppi sarebbero devastanti per tutti.
Bisogna uscire dall’ipocrisia. Dire che la pace si conseguirà solo con la vittoria ucraina non significa ricercare la pace. Questa può venire solo da un compromesso in cui tutte le parti facciano un passo indietro. Lo dice continuamente il Pontefice, ma nessuno lo ascolta.
La ricerca della pace è possibile solo se si riporta la questione alla realtà regionale, di certo complicata (per ragioni storiche, per la complessa composizione etnico-linguistica del territorio e per il vento nazionalista che soffia sull’intera Europa orientale e balcanica), ma non al punto di non poter essere razionalmente affrontata. A tal fine, occorre accantonare le logiche alla base del perenne confronto fra Stati Uniti e Russia.
Sarebbe poi il caso di mettere da parte la denuncia delle violazione russa del diritto internazionale, a cui si ricorre per giustificare il rifiuto di ogni compromesso, quando, dal secondo dopoguerra ad oggi, abbiamo assistito a molteplici analoghe violazioni attuate da Paesi occidentali o da loro amici senza che nessuno trovasse a ridire.
In questo scenario, è sconfortante vedere l’assenza di ogni iniziativa europea, o quanto meno di quegli Stati che pretendono di avere ancora un qualche status di potenza. Un fatto tanto più grave perché è proprio l’Europa l’obiettivo della guerra.
È poco credibile la diffusa rappresentazione di una Russia intenzionata a ricreare l’Unione Sovietica, o peggio, a invadere i paesi ex satelliti dell’URSS. Infatti, (come scrive Lucio Caracciolo), da anni è sulla difensiva. Per l’enorme divario di spesa militare con l’Occidente (1/12 di quella USA e 1/5 di quella del complesso dei Paesi europei della NATO), non è in grado di intraprendere e sostenere alcuna iniziativa militare di ampio raggio.
Invece, sono evidenti gli obiettivi di Washington: spingere sempre più a est la Russia indebolendone la già declinante potenza, e legare più strettamente i Paesi europei al proprio carro senza lasciare ad essi alcun margine di autonomia strategica (“mantenere l’Occidente unito”, recitano i media). È già in discussione il prossimo allargamento dei compiti della NATO: da strumento di difesa in ambito europeo a supporto della lotta che l’America conduce su scala planetaria per tenere in vita un mondo unipolare di cui continuare ad essere il Numero Uno.
È infatti sempre più manifesto che la prospettiva unitaria europea, già da tempo problematica, esca distrutta da questa guerra.
I paesi dell’Est imbevuti di un vetero-nazionalismo, con rinate ambizioni di potenza e desiderosi di rivalse, non trovano più freni in questi loro atteggiamenti in cui vengono strumentalmente incoraggiati anche da chi, in Occidente, ha sempre, a parole, condannato il nazionalismo. Sono Paesi che in questi anni hanno scelto la NATO, non certo l’Europa, e che ormai si possono considerare persi ai fini di ogni seria prospettiva unitaria (necessariamente fondata su una autonoma capacità di difesa, strumento indispensabile a sostegno di una dimensione politica europea).
Altri paesi, come il nostro, pur dichiarandosi continuamente europeisti, al momento, anche volendolo, non possono interferire con le decisioni americane in ogni ambito, Europa compresa. Oggi, tuttavia, il governo Meloni non sembra soffrirne, preferendo i buoni rapporti con Washington rispetto a quelli con le principali capitali europee.
Restano la Francia e la Germania, nazioni che per peso demografico, economico e politico, per storia e cultura, pur dovendosi oggi uniformare alle direttive di Washington, sembrano restie a ridursi a semplici componenti periferiche di un McMondo di impronta anglosassone.
Vale pertanto la pena di tentare di capire quali intenzioni abbiano questi due paesi, e in quali limiti possano muoversi, ma il tema richiede spazio e lo rimando ad altro articolo.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)