E’ stato Federico Chabod ad affermare che la fondazione del Partito popolare ad opera di Luigi Sturzo il 18 gennaio del 1919 «costituisce l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo». E, da parte sua, Giovanni Spadolini ha colto nella aconfessionalità e nella laicità del progetto politico di Sturzo «un’autentica rivoluzione»: «il taglio netto fra clericalismo e cattolicesimo sociale, la rivendicazione persino orgogliosa dell’autonomia dei cattolici nelle sfere della vita civile».

Questo il progetto di Sturzo: dare vita ad un partito con un respiro nazionale, fortemente europeista, di ispirazione cristiana, ma simultaneamente aconfessionale, laico ed autonomo dalle gerarchie. Dunque: non un partito cattolico né il partito dei cattolici, ma un partito di cattolici, i quali in tal modo – sono parole di Sturzo – «rientravano in blocco nella vita nazionale, dopo un mezzo secolo di astensione in obbedienza al non expedit del papa».

Ebbene, nel suo recente, ottimamente informato e istruttivo libro, Flavio Felice ( 1 ) fa presente che «l’eredità teorica dell’azione politica sturziana è tutta racchiusa nel termine popolarismo che si oppone al populismo in forza di una nozione di popolo articolata, dunque plurale, e differenziata al suo interno, tutt’altro che omogenea e compatta, refrattaria tanto al paternalismo quanto al leaderismo carismatico che identificano nel capo il buon pastore al quale affidare il destino del gregge». Contro lo Stato accentratore, quella di Sturzo è stata una strenua e lucida difesa della libertà «declinata nel campo dell’insegnamento, dell’amministrazione locale, della rappresentanza politica e sindacale e della diffusione della proprietà e della piccola e media impresa».

Il popolo di Sturzo esprime «una forza di controllo, in quanto esercita la funzione di limite mediante organismi procedurali istituzionali». Sturzo – precisa Flavio Felice – è personalista, e per il personalista Sturzo solo la persona pensa, agisce, soffre e sceglie, «è solo la coscienza individuale, cioè l’uomo razionale, colui che effettivamente risolve in sé ogni forma sociale, e che nella sua autonomia unifica tutti i vari elementi della socialità umana. Egli gerarchizza i fini delle varie forme sociali, nelle quali esplica le sue attività, essendo metafisicamente il termine e il fine della società».

Gaetano Salvemini, esule a Londra, si incontra con un altro “fuoriuscito”: don Sturzo. Nel suo ricordo Salvemini vede Sturzo come «un’Imalaia di certezza e volontà», considera l’amicizia con lui come «uno dei più begli acquisti» della sua vita, e aggiunge: «Don Sturzo è un liberale. Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale. Don Sturzo non è clericale. Ha fede nel metodo della libertà per tutti e sempre. È convinto che, attraverso il metodo della libertà, la sua fede prevarrà sull’errore delle altre opinioni per forza propria, senza imposizioni più o meno oblique. E questo – conclude Salvemini – era quel terreno comune di rispetto alle libertà di tutti e sempre, che rese possibile la nostra amicizia al di sopra di ogni dissenso ideologico».

Se ora accanto al giudizio che Salvemini offre di Sturzo, poniamo le dichiarazioni di stima e di ammirazione nei confronti di Sturzo da parte di figure come Pareto, Adenauer, De Gasperi, Röpke e Einaudi, diventa problematico comprendere, come negli anni del dopoguerra e della ricostruzione dell’Italia, il fondamentale contributo di Sturzo alla teoria politica sia rimasto sostanzialmente in ombra. Le ragioni di simile damnatio memoriae Flavio Felice le vede: nella estraneità della gran parte del mondo accademico alle idee di fondo dell’ideale liberale anglo-americano difeso da Sturzo; nell’ostilità ecclesiale – prima politica e poi di impostazione filosofica, pagando Sturzo, come sostenuto da D’Addio, la sua sintonia con l’insegnamento della filosofia rosminiana; nella diffidenza di certo mondo laico e azionista e nel più netto rifiuto della sinistra comunista. E c’è di più, perché l’ostilità nei confronti di Sturzo dilagò, tra gli anni ’50 fino alla fine dei suoi giorni, in mille rivoli a motivo della sua lotto contro le tre “male-bestie” dello “statalismo”, della “partitocrazia” e dello “sperpero del denaro pubblico”.

A cento anni dall’appello A tutti gli uomini liberi e forti e a sessanta dalla sua morte, Sturzo è stato commemorato, in vari aspetti del suo pensiero e delle sue attività, in non pochi anche interessanti convegni. Solo che l’immagine di Sturzo che, sostanzialmente – a parte rarissimi casi – è venuta fuori da questi incontri, è quella di un grande combattente che però ha perso la “sua” battaglia – una battaglia che, in condizioni storiche diverse, non potrebbe più essere la battaglia dei cattolici. Ma così, tuttavia, non pare proprio pensarla Flavio Felice, il quale al termine del suo approfondito scavo, sia nell’itinerario speculativo sia nella “vita activa” di Sturzo, scrive che: «l’auspicio è che il centenario della fondazione del Partito popolare e il ricordo dei sessant’anni della scomparsa di Sturzo possano rappresentare la spinta decisiva perché quel progetto, aggiornato alle sfide dei tempi e contaminato dalle riflessioni e dalle analisi dei maggiori interpreti contemporanei delle scienze sociali, possa tornare ad essere una speranza per chi non ha mai smesso di credere nella libertà e nella responsabilità di ciascuno come motori del processo democratico».

Ebbene, dopo l’implosione, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, della Democrazia cristiana e la diaspora di singole personalità e di sparuti gruppetti di cattolici sotto le tende delle più svariate formazioni, è davvero un inesorabile destino dei cattolici italiani quello di essere presenti ovunque e inefficaci dappertutto – non più che insignificanti truppe di complemento mercenarie?

Dario Antiseri

( 1 ) Flavio Felice, I limiti del popolo. Democrazia e autorità politica nel pensiero di Luigi Sturzo, Rubbettino, 2020, pp. 1-409.

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