Nell’ambito del Festival del Giornalismo di Perugia, mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha partecipato il 19 aprile scorso al dibattito sul tema “L’ultimo viaggio (verso il fine vita)”. Di seguito il testo integrale dell’intervento di Mons. Vincenzo Paglia
Anzitutto vorrei precisare che la Chiesa cattolica non è che abbia un pacchetto di verità prêt-à-porter, preconfezionate, come se fosse un distributore di pillole di verità. Il pensiero teologico si evolve nella storia, in dialogo con il Magistero e con il vissuto del popolo di Dio (sensus fidei fidelium), in una dinamica di reciproco arricchimento. L’intervento e la testimonianza della Chiesa, in quanto anch’essa partecipa nel dibattito pubblico, intellettuale, politico e giuridico, si collocano sul piano della cultura e del dialogo tra le coscienze. Il contributo dei cristiani si dà all’interno delle differenti culture, né sopra – come se essi possedessero una verità data a priori – né sotto – come se i credenti fossero portatori di un’opinione rispettabile, ma svincolata dalla storia, «dogmatica» appunto, dunque inaccettabile –. Tra credenti e non credenti c’è una relazione di apprendimento reciproco.
Pensiamo ad esempio a quanto avvenuto per la questione della pena di morte: per il cambiamento delle condizioni culturali e sociali, per la maturazione della riflessione sui diritti, il Papa ha modificato il catechismo. Mentre prima non si escludeva che ci fossero delle circostanze per cui la si poteva legittimare, oggi non la consideriamo più ammissibile, in nessun caso.
In quanto credenti ci poniamo quindi le stesse domande che riguardano tutti, nella consapevolezza di trovarci in una società democratica pluralista. In questo caso, circa la fine della vita (terrena), ci troviamo come tutti davanti a una domanda comune: come è possibile raggiungere (insieme) il modo migliore di articolare il bene (piano etico) e il giusto (piano giuridico), per ciascuno e per la società?
Per rispondere a questa domanda un primo punto fondamentale è come intendiamo la libertà. La riflessione teologica ha maturato una concezione della persona che parte da un dato per tutti riconoscibile, cioè che noi siamo fin dall’inizio inseriti in un contesto di relazioni che ci rende solidali gli uni con gli altri. La nostra identità personale è strutturalmente relazionale. Ce ne siamo accorti con evidenza quasi brutale durante la pandemia: i comportamenti di ciascuno hanno (avuto) ricadute sugli altri. Siamo tutti interdipendenti, legati gli uni agli altri.
Anche la vita umana, che ognuno di noi (in quanto generato) riceve da altri, non è quindi riducibile solamente a oggetto di una decisione che si limita alla sfera privata e individuale: ne siamo responsabili verso altri, su cui le nostre scelte hanno un impatto (e viceversa). La libertà umana, per esercitarsi correttamente, deve tener conto delle condizioni che le hanno consentito di emergere e assumerle nel suo operare: in quanto preceduta da altri, è responsabile di fronte a loro. Questo è il motivo per cui l’autodeterminazione è fondamentale, ma allo stesso tempo non è assoluta, ma sempre relativa (agli altri).
Per quanto riguarda le decisioni sul morire, questo non significa ritornare al vecchio paternalismo medico, bensì sottolineare un’interpretazione dell’autonomia relazionale e responsabile. Accentuare astrattamente l’autodeterminazione porta a sottostimare la reciproca influenza che si realizza attraverso la cultura condivisa e le circostanze concrete: richieste apparentemente libere sono in realtà frutto di un’ingiunzione sociale [spesso sotto la spinta di convenienze economiche]. Come si vede dall’esperienza dei Paesi in cui è consentita la «morte (medicalmente) assistita» la platea delle persone ammesse tende a dilatarsi: ai pazienti adulti competenti si aggiungono pazienti in cui la capacità decisionale è compromessa, talvolta gravemente [pazienti psichiatrici, bambini, anziani con decadimenti cognitivi]. Sono così cresciuti i casi di eutanasia involontaria e di sedazione palliativa profonda senza consenso. Il risultato complessivo è che assistiamo a un esito contradditorio: in nome dell’autodeterminazione si arriva a comprimere l’esercizio effettivo della libertà, soprattutto per coloro che sono più vulnerabili; lo spazio dell’autonomia viene gradualmente eroso.
Nel tempo in cui la morte si avvicina ritengo che la risposta principale sia quella dell’accompagnamento. E il primo passo per accompagnare è ascoltare le domande, spesso molto scomode, che si presentano in questa fase delicatissima. Dobbiamo ammettere che non siamo preparati a morire [anzi forse potremmo dire che una certa superficialità nel modo di affrontare le fondamentali domande di senso dell’esistenza ci rende anche impreparati a vivere. Comunque il rimanere vicini (farsi prossimo) conduce a mettere in causa se stessi. Chi accompagna è investito dagli stessi interrogativi vissuti da chi è accompagnato: il senso della vita e della sofferenza, la dignità, la solitudine e la paura di essere abbandonato.
Certamente si tratta di alleviare il dolore e di promuovere la cultura della medicina palliativa, che rinuncia a guarire e continua a prendersi cura della persona malata, con tutte le sue esigenze, e della sua famiglia. Sappiamo che così in molti casi la domanda di eutanasia scompare; ma non sempre. Ed è una domanda con molte implicazioni, in cui giocano diversi fattori riguardanti la colpa, la vergogna, il dolore, il controllo, l’impotenza. Il gioco di proiezioni tra il malato e chi se ne prende cura è molto intricato: distinguere tra il «soffre troppo» e il «soffro troppo a vederlo così» non è per nulla facile, come del resto è molto esigente assumere seriamente la richiesta di una relazione che aiuti a vivere la radicale solitudine del morire.
L’accompagnamento in questo contesto richiede quindi un grande lavoro su di sé, non solo sul piano personale, ma anche su quello sociale e culturale, sul proprio essere solidali nel limite, nella separazione e nel passaggio della morte.
In questo contesto non è da escludersi che nella nostra società sia praticabile una mediazione giuridica che consenta l’assistenza al suicidio nelle condizioni precisate dalla Sentenza 242/2019 della Corte costituzionale: la persona deve essere «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati (ma non dal Senato) andava fondamentalmente in questa linea. Personalmente non praticherei l’assistenza al suicidio, ma comprendo che una mediazione giuridica possa costituire il maggior bene comune concretamente possibile nelle condizioni in cui ci troviamo».