Da troppo tempo, da tre decenni o poco meno a questa parte, abbiamo sacrificato la rappresentanza alla governabilità. Si è via via imposta una cultura anti-parlamentare che vive la democrazia come un fastidio, tutt’al più un rito o un orpello, cui si concede, se mai, un ruolo meramente procedurale.
Ora raccogliamo i frutti di questa involuzione che ci ha regalato l’antipolitica e la demagogia populista, l’ umiliazione del Parlamento, ridotto nella sua composizione e troppo spesso soverchiato dall’ uso e dall’abuso della decretazione d’urgenza. In altri termini, l’ esecutivo ha assunto il vezzo di entrare a gamba tesa sulla caviglia del potere legislativo e non si perita di commettere fallo.
Il “presidenzialismo” rappresenta, in un certo senso, il punto d’approdo e l’acme di un tale processo. Ribadisce sì un assunto che rinvia al MSI, ma, altresì, attesta un modo di sentire la cui responsabilità – e non da oggi – ricade sull’intera coalizione di destra. Sulla Lega e su Forza Italia che, nell’inamidato ed insindacabile primato del fondatore, ha codificato la postura dell’ “uomo solo” al comando – profeta dallo sguardo supponente o addirittura sprezzante con cui, fin dalla “discesa in campo”, guardava alla politica – non a caso oggi del tutto sintonico, almeno in ordine ai temi di carattere istituzionale, alla destra di Meloni e La Russa.
Del resto, il ventaglio delle responsabilità è anche più ampio. Pochi – o meglio nessuno – da trent’anni, si è fatto carico di ricordare come la governabilità sia la funzione di una chiara, piena ed esplicita rappresentanza democratica e non piuttosto il contrario. Cosicché – a riprova del fatto che il bipolarismo coatto in cui ci siamo infilati, nulla ha a che vedere con l’ Italia, la sua storia e la sua cultura – abbiamo assistito ad un fenomeno di eterogenesi dei fini, tale per cui un sistema maggioritario, concepito in funzione di quell’ “alternanza” che avrebbe dovuto rappresentare il compimento di una democrazia finalmente matura, ha dato luogo, si potrebbe dire – e non è un gioco di parole – ad una sostanziale “consonanza”.
In altri termini, i due schieramenti, contrapposti su tutto, mai hanno – di fatto, concordemente – messo in discussione un impianto, che, paradossalmente, fa della loro “antiteticità” un fattore di garanzia e di reciproca tutela.
In un gioco binario, in cui uno vince e l’altro non perde, in attesa di scambiarsi eventualmente i ruoli, se mai succedesse, ma pur sempre giocando la partita dentro una rassicurante botte di ferro. Insomma, abbiamo azzoppato la democrazia e potrebbe essere troppo tardi per lamentarcene.
Quando certe derive giungono da lontano è più difficile risalire la china ed, anzi, si rischia di dover cedere al loro ineluttabile decorso. In questo senso, il vasto astensionismo rischia di essere un sintomo terminale della malattia in cui versa la democrazia.
Siamo stati “ diseducati” al valore della partecipazione al discorso pubblico ed alla responsabilità civile, a furia di constatarne la sostanziale inefficacia e perfino la stessa impossibilità a concorrervi, in un sistema anchilosato in cui ciascuna delle due parti vive non già di sé, della sua identità o del suo progetto, ma piuttosto della contrapposizione all’ avversario.
In un tale quadro, nel momento in cui si riapre, nel segno – che sia presidenzialismo o premierato – della centralizzazione personalizzata del potere, è importante, innanzitutto, ribadire e mantenere ferma la centralità del Parlamento, assumendola come il necessario baricentro dell’ordinamento istituzionale e democratico. Del resto, al di là di ogni apparenza, è appunto la condizione “liquida” e sgranata del nostro contesto sociale a segnalare – contrariamente a quanto comunemente si crede – l’opportunità che la democrazia rappresentativa e parlamentare sia difesa ad ogni costo.
Domenico Galbiati