Nel momento in cui sembra infine possibile – nel settantacinquesimo anniversario del referendum istituzionale da cui nacque l’Italia contemporanea – celebrare in un clima di relativo ottimismo la nostra Festa nazionale, non si può non tirare un prudente sospiro di sollievo. Soprattutto da parte di chi, fondandosi sul metodo e su dati scientifici, ha osato andare controcorrente, e si è sempre opposto all’irresponsabile demagogia aperturistica dei molti ciarlatani che in questi mesi hanno aggiunto le loro sgradevoli facce al tragico spettacolo degli oltre centocinquantamila morti, cui è stato spesso impossibile concedere persino una cerimonia funebre.
Certo! Il problema del Covid-19 non è risolto. Anzi, in un mondo ormai senza frontiere, ma sempre più caratterizzato tanto da drammatiche disparità economiche e civili, quanto da scarsa solidarietà tra i popoli, l’ultima parola sulla sconfitta della pandemia in Italia non è ancora detta. Men che mai in presenza di un entusiasmo vacanziero, e di un evidente sforzo per favorire la ripresa del turismo internazionale, che rischia talora di assomigliare troppo da vicino ai comportamenti che hanno provocato la tragedia del Mottarone.
In tutti questi anni, il Presidente della Repubblica ha sempre mantenuto un profilo estremamente riservato e rispettoso – forse anche eccessivamente rispettoso – della diversità dei ruoli spettanti alle altre autorità dello Stato. Ma, in definitiva, è stato grazie ad un suo gesto di rivolta se, negli ultimi mesi, si è forse visto il buon senso e la competenza vincere sull’ignoranza arrogante, che troppi ormai si erano abituati a considerare “una forza”.
Perché è stato questo il risultato – o meglio, il primo dei risultati – della scelta personale, e del vero e proprio scatto d’autorità di cui Mattarella si è addossato, pochi mesi, fa tutta la responsabilità: la scelta di chiamare Mario Draghi alla posizione di Capo del governo, imponendolo alle fameliche fazioni, e forse a Draghi stesso. E basta volgere lo sguardo al recente passato per trarre la conclusione che egli ha voluto così porre termine ad una stagione che viene da lontano, da quando una neonominata ministra poteva dire di portare a governo il contributo della propria incompetenza, o si affidava a tal Mogherini l’unica nostra posizione di rilevanza in Europa. E che si è passati ad una fase nuova, in cui la serietà dovrebbe aver la meglio sull’approssimazione.
E’ chiaro tuttavia che l’emergenza iniziata con le elezioni del 4 Marzo 2018 non è finita, perché nelle allarmanti condizioni create da quel voto c’è ancora da eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. E il calendario sembra imporre che ciò andrà fatto portandosi ancora sulle spalle il fardello degli ultimi tre anni: una fase della storia del nostro povero Paese di cui basta ricordare gli inizi per avere un’idea di quanto sarebbe importante – e difficile – ribaltare la scoraggiante situazione parlamentare allora posta in essere.
La tentazione del colpo di Stato
“Quella di ieri è stata la notte più buia della democrazia italiana”, aveva detto – senza reticenze o infingimenti – Luigi Di Maio, il cosiddetto Capo politico del Movimento 5 Stelle, il 28 Maggio 2018, appena quattro giorni prima della settantaduesima ricorrenza del referendum istituzionale dell’Italia repubblicana.
Era un’opinione che qualsiasi Italiano informato e responsabile, così come qualunque osservatore straniero appena competente, non poteva che condividere; e condividerla con tanta più rabbia e furore in quanto il principale, se non l’unico, responsabile della drammatica crisi che la Repubblica aveva vissuto l’ultima domenica di maggio 2018 non era altri che lo stesso Di Maio. Un Di Maio fuori di sé per il fallimento del M5S nel tentativo di imporre uno dei suoi come ministro dell’Economia nel governo di coalizione con la Lega che stava per vedere la luce. E ancor più fuori di sé per il timore che la propria fulminea carriera politica lo riportasse altrettanto rapidamente a quel nulla che era sempre stata la sua vita.
La rabbia del giovane si concentrò allora soprattutto sul Presidente della Repubblica, a causa dello sdegnoso rifiuto da questi opposto ad apporre la propria firma in calce al decreto di nomina a Ministro dell’Economia di un economista di secondo piano, Paolo Savona, da poco trasformatosi in estremista ed antieuropeo, precedentemente noto soprattutto per le lunghe ore che – si diceva – trascorresse nella sala d’attesa dell’ufficio di Guido Carli. Tanto più che il rifiuto aveva portato alle dimissioni del Presidente del Consiglio in pectore, Giuseppe Conte e reso per un momento probabile l’ipotesi di un “governo del Presidente”, il cui compito sarebbe stato quello di organizzare un nuovo turno di elezioni politiche in una data estremamente anticipata, il 29 luglio dello stesso anno.
Di fronte a questa ipotesi, Di Maio, che da tre mesi bruciava per l’impazienza di adergere alla carica di Capo del Governo, e che nello sforzo aveva già dato di se un’immagine negativa, era letteralmente uscito di senno. E si era unito a Georgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia, l’ultima reincarnazione degli ex fascisti, per chiedere l’incriminazione del Capo dello Stato, colpevole – a suo avviso – di nientemeno che alto tradimento e di attentato alla Costituzione. E aveva persino tentato di radunare una folla – con molto meno successo del solito, però – per scatenarsi contro la persona e il comportamento della più alta autorità della Repubblica.
Quel che è più grave, Di Maio organizzò, per il successivo 2 giugno, una manifestazione da tenersi a poche centinaia di metri dal luogo in cui ogni anno in questo giorno si svolge la parata militare ufficiale alla presenza delle massime autorità della Repubblica. Una vera e propria “contro-parata” apertamente volta a disturbare la cerimonia ufficiale e, come sarebbe stato probabilmente inevitabile, a provocare violenze. Di fatto si sarebbe finito per dare sostanza alle parole pronunciate poco prima dallo stesso di Di Maio – “adesso lo Stato siamo noi!” – e quindi proporre il Movimento Cinque Stelle come contro-Stato, in alternativa alla Repubblica e alle sue istituzioni.
Il suo presunto – e futuro – partner di governo, Matteo Salvini, non lo aveva però seguito in questa follia; ma il suo rifiuto non bastò ad impedire che l’appello di Di Maio trovasse eco nella minoranza dei Leghisti delle origini, quelli aderenti alla più antica Lega Nord per l’indipendenza della Padania, quelli che officiavano battesimi e altre ridicole cerimonie pagane del culto del Dio Po.
Infatti, se Di Maio non aveva esitato a buttarsi in un improbabile tentativo di abbattere la principale istituzione della Repubblica, mentre Salvini si era rifiutato di farlo, un deputato della Lega è apparso comunque online, per chiedere l’impeachment del Presidente, ottenendo 38.000 “likes”, alcuni dei quali accompagnati da insulti volgari e perfino minacce di morte per l’ospite del Quirinale.
Ancor più grave: alcuni sindaci – sempre della Lega – nel più scuro e profondo nord Italia, hanno agito come in una sorta di ammutinamento contro la Repubblica, arrivando a staccare i ritratti del Capo dello Stato dai muri dei loro uffici. Promotore di queste iniziative è stato un certo Paolo Grimoldi, sino al Febbraio 2021 Segretario “nazionale” della Lega Lombarda, deputato leghista sin dal 2006, e noto alle cronache per aver, nel 2010, chiesto l’intervento del Ministero dell’Istruzione per impedire la lettura del Diario di Anna Frank in una scuola elementare sita a circa dieci chilometri a nord di Milano.
Per una quarantina di ore, Di Maio è quindi riuscito, prima di fare l’ennesimo voltafaccia e rientrare nei ranghi, a fare abbastanza rumore perché, a Parigi, “Le Monde” potesse cogliere l’occasione per parlare di “caos costituzionale in Italia”. Ma non è rientrato del tutto, perché (tranne una battuta stupida quanto presuntuosa a L’aria che tira il 20 Aprile 2020) non ha mai ammesso di aver sbagliato, né ha affermato di aver cambiato idea, né si è scusato con il Capo dello Stato. Ha semplicemente spiegato il non aver più continuato nella sua campagna eversiva con il fatto che Salvini, da lui ironicamente definito “cuor di leone“, non gli aveva dato il suo appoggio per “arrivare al dunque“.
Un gesto di rivolta
Un importante intellettuale italiano, Massimo Cacciari, disse in quell’occasione e se egli fosse stato il Presidente della Repubblica avrebbe d’allora in poi rifiutato di stringere la mano al giovane ed intraprendente capo politico dell’M5S. E invece Mattarella, nel giuramento successivo alla formazione del primo governo Conte, spinto dal senso del proprio ruolo istituzionale – e probabilmente anche da una totale non-considerazione per il personaggio e per qualsiasi cosa uscisse dalla sua bocca – si sacrificò fino a stringerla, quella mano.
Un sacrificio che oggi, a tre anni di distanza da quella che effettivamente fu la notte più scura della Repubblica, aiuta vedere nella sua giusta luce il gesto rivolta del 2 febbraio 2021, quando per dare al Paese un governo nella pienezza delle proprie funzioni ed evitare che esso fosse travolto dalla pandemia, il Presidente Mattarella prese la personale iniziativa di chiamare a Palazzo Chigi un premier tecnico, capace di contendere il posto all’avventurismo e all’incompetenza trionfante. E di governare – com’è nella speranza di chi ha a cuore le sorti del proprio paese – con quel mix di cautela e di audacia decisionale che è tipico dei grandi banchieri.
Giuseppe Sacco