Alla metà degli anni ‘60 – credo fosse una canzone approdata a Sanremo, con intonazioni di impegno sociale, secondo lo spirito del momento – risuonava l’invito a mettere dei fiori nei cannoni. In nome di un pacifismo forse un po’ retorico, si direbbe più estetico che non pensato e sostanziale, ma, per quanto ingenuo, anche sincero e comunque espressivo di un sentimento nuovo.

Quegli anni erano ben più vicini alla fine della guerra di quanto non siano, oggi, lontani dai nostri. A vent’ anni non ce ne accorgevamo, eppure soltanto allora stavamo uscendo da una stagione su cui la memoria del conflitto che aveva lacerato l’Europa gettava ancora un pesante cono d’ombra. Una stagione di grande sviluppo e, ad un tempo, di grandi tensioni sul piano internazionale. Erano gli anni in cui convivevano, quasi si nutrissero a vicenda, rischi e speranze; di poco successivi a quelli della crisi dei missili a Cuba e dei “due Giovanni”: Giovanni XXIII e John F. Kennedy.

Nascevano spontanei i primi strappi, i primi conati diretti ad uscire dall’ ingessatura della “guerra fredda”, come se avessimo dovuto rimettere in movimento il mondo. Del resto, la Chiesa, con il Concilio, lo stava facendo per la sua parte. Ed, in effetti, il ‘68, così attentamente osservato da Aldo Moro, ha davvero, pur con le mille parzialità e le contraddizioni che inevitabilmente lo hanno accompagnato, risvegliato una nuova coscienza. Eppure i cannoni non hanno mai cessato di sputare fiamme, a dispetto dei fiori che avrebbero dovuto ingentilirne la bocca di fuoco.

Prima e dopo il fatidico crinale dell’ ‘89. Il tramonto di un impero sovietico talmente consunto da morire rassegnato ed impotente, quasi senza lamento, fatto salvo qualche rantolo, come se fosse consapevole che quella grigia agonia fosse, da tempo, nei presupposti del suo destino. E, sull’altro versante, un’alba che, immaginata radiosa, non ha mantenuto le promesse che sembrava portare in grembo.

La storia non è affatto finita ed oggi abbiamo l’impressione che, al contrario, si ritorca contro sé stessa. Come se non osasse affrontare l’incognita di una stagione davvero nuova e preferisse ritrarsi ed indugiare in quelle zone d’ombra del passato che abbiamo lasciato sopravvivere. Ancora una logica, pur rivisitata, ma ancora sostanzialmente “imperialista”, ad Occidente e ad Oriente, le “sfere di influenza”, la rincorsa alle fonti energetiche, la competizione esasperata nel campo delle tecnologie più sofisticate, la ricerca spasmodica di un prestigio, di un primato, di una ragione per prevalere sul “nemico”, la ricomparsa dei “nazionalismi”, una spaventosa condizione di disparità sociale che opprime vastissime aree di sottosviluppo.

Nelle pieghe di un mondo che ha subito la “globalizzazione” senza governarla, ne ha sofferto le criticità senza metterne a frutto le potenzialità, arroccato sugli spalti di una sfida d’altri tempi, è cresciuto quel terrorismo “fondamentalista” che ci aspetta al varco della trasformazioni che dobbiamo necessariamente affrontare. Dopo la pandemia, anzi ancora dentro questo asfissiante tunnel, la guerra.

E’ difficile sottrarsi all’ impressione che l’umanità si stia avvicinando ad un valico della sua storia, come se, forse mai quanto ora, il suo destino fosse rimesso nelle sue mani. Le democrazie e le autocrazie, l’Occidente e l’Oriente che, anziché riconoscersi reciprocamente e fecondarsi l’un l’altro, secondo l’invito di Papa Francesco, rischiano di avviarsi ad uno scontro fatale.

Chi è in grado di farsi carico di quella “architettura” della pace di cui parla la “Fratelli tutti” ed anche le pagine di “Politica Insieme” ci hanno ricordato ieri (CLICCA QUI)?

A qualcuno potrebbe sembrare, soprattutto di questi tempi, addirittura irritante o irridente e repulsivo, il fatto di ricordare che spetta, anzitutto, ad una politica che sappia riscattare l’orgoglio della sua funzione e sappia, oltre ogni apparenza, continuare a credere in sé stessa. Le più nobili aspirazioni alla pace rischiano, per quanto siano illuminanti, di ristagnare e poi via via scivolare nell’utopia, se non concepiamo la pace come progetto politico ardito, coraggioso, complesso, a suo modo sempre incompiuto, ma costantemente da comporre, come uno sterminato puzzle, pezzo su pezzo, secondo un disegno ideale che resista alla tentazione della sfiducia.

Sono le carenze, l’inettitudine della politica, gli spazi che il suo ritrarsi regala ad altri ordini di potere che hanno sfilato i fiori dai cannoni per rimetterci proiettili e granate.

Domenico Galbiati

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