Il tema dell’immigrazione va affrontato razionalmente: ciò comporta la necessità di tenere conto, in primo luogo, dei dati quantitativi (numero di persone coinvolte, carico demografico e risorse dei territori di accoglienza, ecc.). È quanto fa Stephen Smith, in Fuga in Europa (Einaudi 2018), trattando il tema dell’emigrazione africana verso l’Europa, non solo sulla base dei dati numerici attuali, ma estendendo lo sguardo ai prossimi decenni.

Nel 2050, gli europei saranno 450 milioni e gli africani 2,5 miliardi. Smith evidenzia che i migranti provenienti dal continente nero sono, in massima parte già oggi e sempre più saranno domani, persone con un reddito superiore alla media dei propri compatrioti, e ci dice che sarà questa “borghesia” emergente ad essere protagonista del fenomeno migratorio nei prossimi anni. Smentisce quindi la vulgata diffusa sull’identità dei migranti che sarebbero persone poverissime, disperate o quasi alla fame. Conferma, pertanto, quanto già scritto in materia da Khaled Koser (Le migrazioni internazionali), da Paul Collier (Exodus) e da una recente ricerca realizzata da UNDP (United Nations Development Programme) per conto dell’ONU. Aggiunge che, nel 2050, questa borghesia (oggi di 150 milioni di persone) si quadruplicherà, e circa il 40% di essa intenderà emigrare. L’Europa, pertanto, deve prepararsi a ricevere un flusso di migranti senza precedenti, tale da incidere fortemente sulla sua identità. La difesa dell’identità del vecchio continente diventerà quindi sempre più il tema centrale sul quale si gioca il confronto fra l’Europa liberaldemocratica, aperta alla globalizzazione, e quella nazional-populista e identitaria.

Secondo Smith, l’identità non è un prodotto finale assemblato una volta per tutte, ma è sempre in divenire. Tuttavia, se il ritmo del cambiamento sarà tale da far sentire gli europei stranieri in casa propria, si imporrà un freno agli arrivi, e la frenata sarà tanto maggiore quanto più progressivamente diminuirà il bisogno di lavoratori immigrati per l’affermarsi di un’economia robotizzata. Smith aggiunge che comunque non bisogna accantonare la distinzione tra rifugiati e migranti economici a meno di voler abbandonare la nostra civiltà. Si ha la responsabilità di proteggere i rifugiati, ma il diritto di asilo non dovrebbe essere manomesso da migranti che nascondono la loro condizione. È comprensibile il desiderio di migrare, ma non è un diritto, mentre lo è quello degli europei di limitare gli arrivi, tanto più che non si aiuta l’Africa attirando i suoi abitanti più dinamici ed istruiti, mentre il denaro che i migranti rimandano a casa non basta per sviluppare la loro terra. L’Europa non deve blindare i suoi confini e nemmeno lasciarli aperti a chiunque, ma deve controllarli. L’incontro migratorio tra Europa e Africa (scrive Smith) può riuscire solo se non verrà vissuto come una fatalità di fronte alla quale non si può fare nulla. Affinché i migranti vengano accolti bene, chi li riceve deve aver potuto dire la sua sul loro arrivo.

A ben vedere una immigrazione controllata, aperta ai rifugiati e all’ingresso di manodopera, se necessaria al paese, è una posizione condivisa dalla più parte delle forze politiche. Fanno eccezione da un canto coloro che vogliono un mondo senza confini (molti esponenti cattolici, attivisti delle Ong, libertari, anarchici e circoli della finanza); dall’altro canto, per la totale chiusura, ci sono le destre estreme e una parte dei cosiddetti sovranisti (una parte perché anche fra questi ultimi, molti non rifiutano l’accoglienza dei veri profughi e gli ingressi di contingenti programmati di migranti economici). Pertanto, le differenze nell’ambito politico europeo, secondo Smith, si riscontrano principalmente su come realizzare il controllo, fra chi antepone i diritti all’efficacia dei mezzi e chi capovolge le priorità.

In ogni caso, un controllo finalizzato a regolare i flussi deve misurarsi con i numeri.

Se, come ci dice Smith, gli europei, nel 2050, saranno 450 milioni, e se l’arrivo di migranti (ancorché distribuito nel tempo) sarà dell’ordine di molte decine di milioni (al limite 240 milioni corrispondenti al 40% dei 600 milioni della futura nuova borghesia africana, in larga misura intenzionata a lasciare il proprio paese), la ricaduta avrà un impatto sul vecchio continente difficilmente sostenibile.

Ci sono, tuttavia, quanti contestano lo scenario descritto da Smith, perché ritengono che lo sviluppo economico del continente nero potrà soddisfare, in qualche decennio, le necessità di una pur numerosa popolazione portandola a consumi analoghi ai nostri, e rimuovendo in tal modo le motivazioni che spingono a migrare. A costoro, voglio ricordare quanto recentemente scritto da Jared Diamond in Crisi: “Peccato che si tratti di una promessa impossibile, dato che facciamo fatica già noi adesso a mantenere uno stile di vita da Primo Mondo, pur riguardando un solo miliardo di persone in grado di permetterselo su una popolazione planetaria di sette miliardi e mezzo”.

Aggiungo che sono proprio quanti auspicano un mondo senza confini a dire che il continente nero, negli anni a venire, scoppierà demograficamente, mentre la popolazione europea si sta riducendo. È quindi logico e naturale, a loro dire, che numerosi africani si trasferiscano in Europa per ridurre la pressione demografica sulle risorse del continente nero e per compensare il deficit di popolazione che si verificherà da noi. In questa ottica, prospettano un’unione politica euro-africana.

Ma se l’emigrazione dovesse servire anche a tali fini, allora sarebbe il caso di prendere in considerazione la dimensione che dovrebbe avere il fenomeno migratorio per conseguire un risultato significativo, quanto meno per l’Africa.

In argomento, occorre fare una premessa. Non ci sarà nessuna possibilità di ridurre la pressione demografica sulle risorse del continente nero se, nella seconda metà del secolo, la sua popolazione continuerà, come oggi, a raddoppiare ogni 25-30 anni, una crescita insostenibile non solo per l’Africa, ma anche per il resto del mondo. La crescita demografica esplosiva è figlia della povertà, viene detto, ma ne è anche causa, probabilmente quella prevalente. Pertanto, è il classico cane che si morde la coda. Un anello, o un cerchio, che è indispensabile spezzare quanto prima.

Tuttavia, nell’ipotesi che, nella seconda metà del secolo in corso, tale crescita demografica possa significativamente diminuire, quanti africani dovrebbero lasciare il proprio continente per ridurre la pressione sulle risorse del territorio, visto che fra qualche decennio l’Africa avrà già 2,5 miliardi di abitanti?

Qui può essere utile fare riferimento all’emigrazione che ha in passato caratterizzato il nostro paese. Dall’unità d’Italia alla prima guerra mondiale, quasi 15 milioni di italiani (nel corso di due o tre generazioni) sono emigrati verso terre a bassissima densità demografica (svuotati a seguito del genocidio delle popolazioni indigene), richiamati dai governi di tali paesi. Tenuto conto che in detto periodo la popolazione italiana è passata da circa 24 milioni a circa 36 milioni, l’esodo è stato imponente avendo riguardato una consistente percentuale degli abitanti del paese, che in certe zone del sud ha raggiunto valori prossimi al 50%. E’ comprensibile che ciò abbia avuto profonde conseguenze sul paese riducendo, nel breve-medio periodo, una forte pressione interna, e tensioni derivanti dalla fame di terra delle popolazioni agricole e dal disagio dei tanti disoccupati a cui non si era in grado di dare lavoro.

Venendo all’Africa, se facciamo il confronto con la nostra storia, dovremmo dire che per ottenere una significativa diminuzione della pressione interna, i migranti africani verso l’Europa dovrebbero essere centinaia di milioni. Anche senza considerare l’immigrazione aggiuntiva proveniente (come accade oggi) dall’Asia e dall’America latina, la popolazione immigrata in Europa finirebbe per essere ben più numerosa di quella autoctona su un territorio già oggi densamente popolato con gli inevitabili conflitti che una tale convivenza comporterebbe. Nessuno può immaginare che possa sopravvivere la millenaria civiltà europea all’impatto di un tale evento. Pensare ad un’unione politica euro-africana con eguaglianza di diritti e di prestazioni sociali, come risultato di una indiscriminata apertura dei confini europei ed una rapida ed indolore integrazione dei nuovi arrivati, significa coltivare una illusione irrealistica e pericolosa.

Un classe dirigente si connota soprattutto per la capacità di spingere il proprio sguardo lontano, a quel futuro in cui dovranno vivere i figli, i nipoti o i pronipoti, quindi ai prossimi 30-40 anni. Ciò vale in tutti gli ambiti: riguarda le modificazioni climatiche di origine antropica, l’esaurimento delle risorse, la demografia ed anche i grandi processi migratori.

Chi immagina che le migrazioni siano una fatalità si dispone ad una apertura incondizionata Ma se è ragionevole ritenere che ogni fenomeno vada in qualche misura governato, allora bisogna affrontare seriamente la questione dando, fin da oggi, delle risposte concrete al problema, predisponendo gli strumenti necessari senza aspettare che la situazione si aggravi.

Nel dibattito a livello nazionale, si è visto ben poco in materia. Ci sono i molti che indicano come principale soluzione la ripartizione fra i paesi europei di tutti quanti (sia profughi che migranti economici) raggiungono, per varie vie, il continente. Ma questa non è un’alternativa all’apertura incondizionata: semplicemente sposta il problema dai singoli paesi di primo ingresso all’intera Europa, un continente già sovrappopolato in rapporto alle sue risorse (vedi Territorio, risorse e carico demografico – Rinascita popolare 12/7/2018), che può essere in condizione di accogliere i richiedenti asilo, ma non i migranti economici. Altrettanto non è una alternativa, in assenza di un rigoroso ed efficace controllo delle frontiere, la definizione di percorsi regolari di ingresso, da concordare con i paesi di origine. Gli ingressi regolari sono necessariamente formulati in base alle esigenze del paese ospitante, tenuto conto della sua capacità di inserire gli immigrati (situazione economica, disponibilità di posti di lavoro, case, servizi sociali, ecc). Comportano pertanto criteri quantitativi (quote) e qualitativi (conoscenza della lingua, qualifiche o capacità professionali, età, ecc.), e riguardano quindi solo una ridotta e selezionata percentuale degli aspiranti all’ingresso. È evidente che in tal modo non si dissuadono i numerosissimi esclusi dal continuare a cercare di raggiungere la meta agognata con ogni mezzo, se non incontrano ostacoli.

Trovare una risposta giusta, efficace e praticabile non è alla portata dei singoli Stati europei, ma può esserlo per l’Unione Europea, che, con il patto sulle migrazioni e l’asilo ha già fatto un primo timido passo in tale direzione, certo insufficiente e non idoneo a raccogliere il consenso di tutti i suoi componenti. Come scrive Smith, una immigrazione controllata, aperta ai rifugiati e all’ingresso di manodopera, se necessaria al paese ospitante, è una posizione condivisa dalla più parte delle forze politiche, e può quindi essere accolta da tutti i paesi europei.

A tal fine, è necessario che l’UE apra un dialogo con i paesi africani per coinvolgerli in una razionale gestione del fenomeno migratorio. In primo luogo, l’Unione deve significativamente implementare i fondi per la cooperazione, per lo sviluppo e per aiuti vari al terzo mondo, orientandoli principalmente verso i paesi africani da cui parte o in cui transita la maggioranza dei clandestini. I paesi destinatari degli aiuti a loro volta devono impegnarsi a controllare le proprie frontiere, e a collaborare per i rimpatri e le riammissioni di quanti irregolarmente espatriano. Per agevolare il reinserimento di questi ultimi, l’Europa potrà fornire ulteriori finanziamenti.

Come evitare che gli “aiuti” finiscano nelle tasche delle corrotte classi di governo presenti in molti paesi africani? Realizzando programmi di investimenti concordati con i paesi in questione e finanziandoli sulla base dello stato di avanzamento, fornendo inoltre direttamente capitali a quanti in loco autonomamente attuano o propongono progetti validi.

Tuttavia, tutto ciò non basta se non si mette mano agli squilibrati rapporti economici fra Africa ed Europa che comportano, a svantaggio della prima, un prelievo di materie prime e di risorse varie non adeguatamente remunerato. Ma il necessario riequilibrio verrebbe a pesare negativamente sull’economia e sugli standard di vita dei cittadini europei, ed è forse è proprio questo aspetto a frenare ogni serio impegno dei governi europei in direzione del continente nero.

Se tuttavia detti governi non sapranno quanto prima farsi carico dei problemi africani ed affrontare la connessa questione migratoria, inevitabilmente il processo unitario europeo fallirà lasciando solo ogni paese a tentare di gestire i flussi con i mezzi di cui dispone, in pratica nel caos.

Giuseppe Ladetto

 

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )

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