Dopo mesi di relativa calma, riprende corpo la questione dell’immigrazione. Gli sbarchi sono a un livello notevolmente più contenuto, ma è evidente che, a seguito della crisi del Coronavirus, basta un niente per rilanciare grida d’allarme e di preoccupazioni.
Se la guerra in Libia fa diminuire la partenza di barconi dalle coste tripoline, ci pensano quelle organizzate in Tunisia a riproporre l’esistenza di un fenomeno spesso definito epocale, dall’ampiezza di cui noi cogliamo solo la cima dell’iceberg, mentre un qualcosa di molto più ampio, in grado d’interessare il mondo intero, continua a covare sotto la cenere, nonostante la pandemia.
Le emigrazioni sono un aspetto costante all’interno del cammino umano. Accentuato da quando la globalizzazione ha facilitato lo scambio delle informazioni e i trasporti, ma anche fatto divenire ancora più stridente per le disuguaglianze esistenti tra le diverse parti del mondo. A maggior ragione dove, come accaduto nelle aree meno sviluppate del globo, sono stati indicati altri modelli di vita possibile, trasferite produzioni, ampliato il livello di educazione e conoscenza, trasformati, talvolta stravolti, gli equilibri tribali e familiari.
A tutto ciò devono essere aggiunte le situazioni di quei paesi dove guerre e conflitti armati di vario genere, mancanza di democrazia ed altro che offende la dignità umana determinano imponenti spostamenti di grandi masse che, in realtà, si aggiungono ad un continuo processo di emigrazione. Si tratta molto spesso di fenomeni che affondano in tempi lontani e che costituiscono, pure, una delle conseguenze della lunga politica coloniale condotta dai paesi del mondo occidentale negli altri continenti.
Così, spesso, molti dei movimenti in atto sono dovuti a vicende che richiamano il controllo di giacimenti di materie prime o d’importanti rotte commerciali e finiscono per avere una motivazione geopolitica ed economica.
Diventa allora difficile, anche se a noi pare facile farlo, distinguere tra i cosiddetti “migranti economici”, cioè quelli che vengono da noi perché sanno che, in qualche modo, potrebbero assicurarsi entrate superiori al dollaro o ai due dollari che nei loro paesi segna la linea della povertà, e i rifugiati per motivi politici o di guerra.
Quanto poi la politica e l’economia rientrino, in ogni caso, tra le cause che alimentano le migrazioni è confermato da quel che accade lungo le interminabili coste del Mediterraneo. In particolare, per ciò che riguarda la Turchia che, adesso, è presente anche il Libia. Quella Libia che finora ha costituito il principale punto di partenza del gran parte dei disperati che attraversano il Mare Nostrum per raggiungere le coste italiane e, dopo l’arrivo in Italia, per provare a spargersi in Europa.
Recep Erdogan è impegnato in un duro scontro con il resto del mondo arabo sunnita. In particolare, con l’Egitto. Con questo paese si fronteggia nel deserto libico, al fine di contrastare le mire egemoniche del generale Haftar ( CLICCA QUI ) intenzionato a prendersi tutta la Libia, grazie ai suoi alleati dell’Arabia Saudita, degli Emirati arabi, del Cairo e della Russia. Anche sulle acque del Mediterraneo la contrapposizione si rinnova. Soprattutto a seguito dell’alleanza nata tra Egitto e Grecia, altro rivale multi secolare dei turchi, attorno alla cosiddetta intesa sulle frontiere marittime tra i due paesi. L’accordo, contrastato in sede internazionale da Ankara perché, a suo dire, si tratterebbe di un’area “riconosciuta anche dall’Onu come piattaforma continentale turca”, tira in ballo la produzione del petrolio. Il contenzioso, infatti, è esploso da quando sono stati scoperti importanti giacimenti nel tratto di mare antistante Egitto, Cipro, Israele e Grecia. Sono recenti le polemiche dei turchi contro Cipro dirette a impedire che il governo di Nicosia conceda i diritti di esplorazioni a compagnie petrolifere internazionali. Ankara ha poi deciso di sospendere le proprie trivellazioni nel mare cipriota accogliendo la richiesta dell’Unione europea e degli Stati Uniti.
In questo contesto tanto surriscaldato, nasce il timore che il governo turco possa utilizzare il fenomeno migratorio lungo la rotta balcanica e riaprire le frontiere con la Grecia, come minacciato recentemente, a una buona parte dei quattro milioni di rifugiati accolti entro i propri confini. Provengono soprattutto dalla Siria e non vedono l’ora di dirigersi verso l’Europa, così come accadde in maniera impressionante solo cinque estati fa quando circa un milione di persone ( 850 mila attraverso la Grecia ) si riversarono verso il centro e il nord del Vecchio continente.
La Turchia potrebbe decidere di giocare una carta simile anche in considerazione della grave crisi economica che la sta travolgendo. La propria Lira è, infatti, precipitata per diversi motivi, tra i quali spicca la grave conseguenza che ha avuto sull’industria turistica del paese il Coronavirus.
Secondo molti analisti internazionali, l’economia della Turchia è in procinto di collassare completamente e questo servirebbe a spiegare sia tanti passi “propagandistici” compiuti da Erdogan nel recentissimo passato, tra i quali spicca la riconversione in moschea di Santa Sofia, sia il gesto di buona volontà fatto nelle acque di Cipro.
La Turchia, però, non costituisce l’unico elemento di preoccupazione sul versante delle migrazioni. Anche la situazione del Libano, dove si trovano oltre un milione di profughi, dev’essere seguita con attenzione. La terribile esplosione di Beirut potrebbe avere conseguenze su un equilibrio istituzionale, politico ed etnico rimasto fragile per decenni tra le tante diverse popolazioni che abitano il Paese dei cedri. Già si parla di decine di migliaia di persone rimaste senza casa nella capitale. Il timore più grosso è quello, allora, che il disastro avvenuto nell’area portuale di Beirut finisca per rendere più instabile un’intera regione in cui confliggono da decenni, direttamente, gli interessi della Siria e d’Israele e, indirettamente, quelli dell’Arabia Saudita e dell’Iran.
Dobbiamo, così, constatare ancora una volta che il tema immigrazione è questione molto più ampia rispetto a ciò che riguarda un solo paese. Non può più essere intesa neppure come un qualcosa d’inerente solamente i paesi del Mediterraneo come Grecia, Italia, Malta e Spagna impegnati su una vera e propria prima linea rovente.
L’Europa, del resto, è sicuramente più in grado e più nelle condizioni di agire su quegli aspetti che richiamano la necessità, ad esempio, di giungere ad accordi da concretizzare con i paesi di provenienza o di passaggio dei flussi migratori e gli interventi economici e di finanziamento cui pensare per realizzare quel famoso “aiutiamoli a casa loro” che tanto stride con l’abbandono della politica della cooperazione sviluppata a partire dagli anni ’80 anche sul piano multilaterale.
E’ evidente che, con quella del disarmo e del governo della finanza mondiale, anche l’immigrazione rientra nell’ambito di ciò che richiederebbe forme nuove di “governo” internazionale delle questioni che stanno condizionando la nostra epoca.
L’Italia da sola, è un dato da accettare con molto realismo, più di tanto non può fare.
Giancarlo Infante