Pubblichiamo l’intervento di apertura di Mons. Vincenzo Paglia per la 28esima Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita

Care amiche e cari amici, permettetemi di chiamarvi con questo appellativo dal sapore anche evangelico. Ci ritroviamo assieme in presenza in maniera consistente e siamo molto lieti. E mi fa piacere il contatto con i numerosi ospiti collegati con noi on line.

Il tema che affrontiamo in questa nostra Assemblea Generale fa parte di un insieme di questioni di cui si sente parlare in modo sempre più diffuso sia negli ambienti accademici che negli organi di stampa che raggiungono la sfera pubblica. Si tratta peraltro di questioni che per la loro novità, ampiezza e portata non si lasciano risolvere con risposte schematiche, ingenuamente semplicistiche, che ricorrono a categorie di pensiero prefabbricate. Le rapide trasformazioni che stiamo vivendo, richiedono da parte nostra anzitutto un ascolto attento e disponibile di questi fenomeni. Gli interrogativi che emergono da queste incalzanti novità, e le drammatiche contraddizioni che vi sono implicate, chiedono di essere messi a fuoco con molta cura. Di qui la decisione – condivisa all’interno del nuovo Consiglio Direttivo – di affrontare il tema delle tecnologie emergenti e convergenti, che del resto papa Francesco cita esplicitamente nella Lettera Humana communitas, che ci ha scritto per il 25° anniversario dell’Accademia.

Non è mio compito in apertura dei lavori proporre delle risposte alle questioni che affronteremo. Ma credo utile indicare alcune coordinate sulle quali si collocano diversi degli interrogativi principali che ci troviamo di fronte.

Conoscenza e responsabilità

Il primo asse di discernimento riguarda l’atteggiamento conoscitivo necessario per affrontare in modo più adeguato le questioni relative ai nostri temi. Già negli anni scorsi abbiamo cercato di lavorare in questa direzione, parlando di bioetica globale, di macchine automatiche (robot), di algoritmi (AI) e di salute pubblica nel tempo della pandemia. Lo stesso papa Francesco più volte ha sottolineato la necessità di adottare un orizzonte ampio e flessibile di interfacciamento dei nuovi fenomeni. L’effetto congiunto della loro interazione, infatti, è superiore alle parti: l’interconnessione chiede un approccio alla complessità poliedrica dell’insieme, che impone un deciso avanzamento verso un approccio conoscitivo transdisciplinare. Il dialogo tra le discipline, infatti, è necessario, ma anche insufficiente: perché ci sono aspetti che possono essere inquadrati, già solo fenomenologicamente, con uno sguardo in cui gli strumenti disciplinari concorrono e si integrano nella descrizione stessa dei fenomeni che devono essere identificati.

Questa attenzione alle modalità con cui apprendiamo e conosciamo la realtà, per altro, non è un discorso solo teorico, metodologico o epistemologico, ma ha una profonda rilevanza etica. Tanto maggiore quanto più i processi della conoscenza scientifica e gli sviluppi dell’evoluzione tecnica riguardano direttamente le stesse facoltà umane di conoscere e di apprendere, di sentire e di volere, di valutare e di decidere. Dal modo in cui conosciamo dipende anche l’identificazione dei luoghi della nostra responsabilità, che continuano a dilatarsi grazie a tecnologie sempre più potenti. Nello studiare e nel conoscere i fenomeni della natura e della società non va perciò trascurata la riflessione critica sulle categorie di pensiero con cui diamo loro forma. È oggi quanto mai necessaria una «comunicazione tra le discipline» (Fratelli tutti, 204) per scongiurare «il rischio che un progresso scientifico venga considerato l’unico approccio possibile per comprendere un aspetto della vita, della società e del mondo. Invece, un ricercatore che avanza fruttuosamente nella sua analisi ed è anche disposto a riconoscere altre dimensioni della realtà che indaga, grazie al lavoro di altre scienze e altri saperi si apre a conoscere la realtà in maniera più integra e piena» (ibidem). Per fare un esempio che riguarda i temi di cui ci occupiamo, pensiamo ai diversi modi di comprendere la malattia e la salute. Essi dipendono dal tipo di scienze di cui ci serviamo: se trascuriamo l’ambiente, la società, l’economia e la cultura, saremo spinti a dare risposte solo mediche o biologiche. Ma la pandemia ci ha insegnato quanto tale prospettiva sia insufficiente. Per questo si è parlato anche di «sindemia»: per indicare la molteplicità di dimensioni – non solo fisiche – che hanno interagito nella diffusione del contagio. I determinanti della salute (e della malattia) richiedono un approccio ben più articolato per essere efficacemente compresi e responsabilmente gestiti.

Le “tecnologie emergenti e convergenti” sfidano i nostri atteggiamenti mentali e il modo con cui il nostro sapere è organizzato. Esse portano anzitutto allo scoperto il collegamento tra saperi e tra diversi tipi di tecnologie. Ma, a un livello più fondamentale, mettono in luce con particolare forza la reciproca interazione tra l’essere umano e l’ambiente: ogni cambiamento dell’uno retroagisce sull’altro, per cui evolvono sempre insieme. Trasformare l’ambiente nelle sue molteplici dimensioni naturali, culturali, tecnologiche, significa sempre anche trasformare noi stessi. Dobbiamo considerare più attentamente questi aspetti per tenere meglio conto della complessità dei fenomeni ed evitare classificazioni astratte tra personale e artificiale, tra umano e tecnologico, tra diverse forme viventi della biosfera. Solo in questo modo potremo impostare una riflessione che ci permetta di comprendere e sviluppare un rapporto con le macchine che non segua, magari surrettiziamente, la logica della sostituzione dell’uomo da parte della macchina, ma piuttosto quella di un’effettiva cooperazione che mette capo all’umano.

Persona e comunità

Un simile rapporto di mutua implicazione vale anche per l’interrogativo che orienta la riflessione di questi giorni, richiamato nel titolo del nostro Workshop dal riferimento al “bene comune”. Cioè il rapporto tra individuo e comunità. Anche qui si tratta di superare ogni impostazione dualistica: occorre evitare una prospettiva che contrappone interesse generale e diritti individuali, come se la promozione dell’uno andasse a scapito degli altri. La via è piuttosto quella di pensarli e promuoverli insieme, nella consapevolezza che si sostengono reciprocamente. Questo vale non solo in termini di qualità delle cure ed efficacia dei sistemi sanitari, ma anche nella pratica stessa del consenso informato, che non può essere considerato solo come espressione della libertà del singolo, ma anche del legame sociale. Questo nesso indissociabile, implica l’attenta valutazione delle condizioni pratiche di carattere intersoggettivo, che definiscono, da un lato, il mondo effettivo – e affettivo – del singolo individuo; e dall’altro chiamano in causa la responsabilità etica e di sostegno della comunità civile.

Del resto, la salute stessa si manifesta sempre più come uno dei beni comuni fondamentali che nessuno può salvaguardare da solo. Richiede infatti un impegno condiviso per essere promossa e tutelata. Si tratta dunque di elaborare una nozione di bene comune che non si limiti a considerarlo come somma degli interessi individuali (in senso utilitarista), ma come condizione in cui in tutti, nessuno escluso, possono realizzare sé stessi. Cioè una comprensione che si basa sulla reciprocità nei rapporti non solo interpersonali, ma anche di ciascuno nei confronti dalla società, come luogo di una convivenza solidale. Senza questo riferimento costitutivo al bene comune verrà eroso quel patrimonio di fiducia che sta alla base di ogni convivenza umana e di ogni forma di «amicizia sociale», di cui ci parla l’enciclica Fratelli tutti (cf FT, n. 168) e a cui anche il mondo scientifico è chiamato a contribuire.

In questo quadro si pone anche il tema della sicurezza degli artefatti prodotti dalle nuove tecnologie. Quanto già detto sulla complessità delle loro interazioni e l’impossibilità di prevedere e controllare in modo adeguato gli effetti, soprattutto a lungo termine, introducono un’incertezza che richiede particolare prudenza. Sappiamo che questi dispositivi entrano spesso in circolazione nella vita ordinaria senza un’adeguata valutazione, come invece avviene per i farmaci o le apparecchiature mediche, che sono sottoposti a un controllo stringente prima di essere approvati.

Contributo esperienza religiosa e riflessione teologica

Il terzo filone di interrogativi indaga sul contributo che come credenti possiamo fornire al dibattito su questi argomenti. L’esperienza religiosa in ambito cristiano ci offre un orizzonte di significato che coniuga la trascendenza dell’umano (ossia, il creato) e l’immanenza del divino (l’incarnazione): la prima (il creato) ci ricorda che la nostra origine ci precede e la nostra destinazione va oltre il confine del tempo; la seconda (l’incarnazione) ci rivela che il Signore Gesù assume e redime il tutto della condizione umana. In questo quadro siamo chiamati a contribuire con mediazioni concettuali che non temano di avvalersi delle risorse dei saperi contemporanei, inclusa la filosofia, sia per approfondire la comprensione delle esperienze fondamentali che sono comuni a tutti gli esseri umani, sia per rendere comunicabili e argomentabili le risorse di significato che la rivelazione e la tradizione ci offrono.

Si tratta di abitare la tensione insuperabile che si instaura tra diverse polarità: da una parte, la logica scientifico tecnologica che intende il mondo come riserva di materiali disponibili, dall’altra, il desiderio di riconoscerlo nel suo darsi spontaneo come portatore di vita e di senso. Una tensione che si manifesta in tutti i percorsi e le fasi in cui la vita si svolge, dalla nascita alla morte.

L’apertura della coscienza religiosa alla trascendenza potrà essere sviluppata come uno stimolo che alimenta la fiducia nell’atto creatore di Dio a favore della sua creazione. La legittima esigenza di sperimentare nuove possibilità non giustifica in nessun modo tecniche dannose per la dignità dell’essere umano oppure orientate a sviluppare il progetto delirante del suo totale controllo. Trovare le vie per proteggere la prima e arginare il secondo è il compito di una ricerca umana degna di questo nome, portata avanti con rigore e onestà intellettuale.

Come credenti siamo anche chiamati a una vigilanza del tutto speciale sul dramma dell’uso delle nuove tecnologie poste al servizio di operazioni distruttive sempre più ampie e sofisticate. Quanto sta avvenendo su numerosi fronti di guerra ce lo ripete con sempre maggior forza. Anche approssimandoci alla triste ricorrenza del primo anniversario della guerra in Ucraina, non possiamo accontentarci di denunciare gli orrori di questi conflitti; siamo chiamati a fare tutto quanto è in nostro potere per fermare la loro continuazione e per scongiurarne le premesse. Non voglio qui entrare nelle distinzioni tra difesa legittima e guerra (illecita perché sempre ingiusta). Desidero solo sottolineare come la disponibilità di armamenti sempre più sofisticati esponga alla tentazione – paradossale – di affrontare i conflitti potenziandone la violenza: una via che al primo sguardo sembra talora più facile della ricerca di soluzioni alternative. Ma come ci ha detto papa Francesco: “Usare le armi per risolvere i conflitti è segno di debolezza e di fragilità. Negoziare, procedere nella mediazione e avviare la conciliazione richiede coraggio” (Udienza con i membri della Ong “Leader pour la Paix”, 2.12.2022). Dobbiamo superare quella sorta di pigrizia mentale che ostacola la ricerca di modalità alternative di legittima difesa e di risoluzione dei conflitti, che cerchino di parlare alla coscienza del nemico e non di abbatterlo con la violenza che lo costringe solo dall’esterno. Questo atteggiamento richiede una lunga preparazione, e – anche in questo caso – l’adozione di un approccio intelligente e multifocale alla complessità: capace di individuare la debolezza delle semplificazioni pulsionali e in grado di far evolvere la percezione dei loro vicoli ciechi. Un sapere veramente creativo non va investito soltanto nell’upgrade dei telefonini.

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