Non c’è Moro, non c’è la DC, e neppure l’Italia di quegli anni terribili e dolenti nella prima parte del film con cui Marco Bellocchio interpreta il sacrificio del Presidente Moro.

Quanto sia stata brutta, cattiva, cinica e repellente la Democrazia Cristiana lo si coglie immediatamente, fin dalle prime immagini del film tramesso su Rai 1. Lo si evince dai volti lividi e tenebrosi, artefatti, contratti in una smorfia di paura, nello sguardo spento ed ottuso di Cossiga, Andreotti, Zaccagnini, terrorizzati ed impotenti di fronte alla sola ipotesi di un Moro liquefatto eppure tragicamente sopravvissuto. Ed anche – davanti a quella sorta di “politburo” di uomini grigi, vecchi e meschini, famelici ed irosi, affamati di potere – quel fraseggiare incerto di Aldo Moro, accompagnato da un gesticolare molle, inespressivo che non dice nulla del linguaggio ricco, coinvolgente, a tratti difficile da comprendere, mai involuto, in effetti straordinariamente duttile e, ad un tempo, forte, capace di gettare luce sugli eventi della politica e della vita, senza sacrificare, senza smarrire nulla della ricchezza della loro complessità.

L’ ossessione dei comunisti, la sudditanza agli americani, i sottosegretari, le correnti …non c’è più vita in un Paese plumbeo, abitato da uomini disperati e soli, sorvegliato da un malato che la vitiligo tormenta più di quanto non lo turbi la sua coscienza. C’ è uno squarcio della tenerezza umana di Moro, la vulnerabilità dei suoi affetti, ma poi tutto è assorbito in un’atmosfera onirica e buia, corrotta da un sentimento di rassegnazione fatale, in cui tutto sembra già scritto nel segno di una ineluttabile decadenza. Un mondo in cui non c’è’ nulla del vigore morale, mai esibito platealmente, ma pur sempre teso ed evidente nelle parole di Aldo Moro. Un passaggio politico, a suo modo straordinario, soffocato in un clima decadente, intristito in una dimensione gratuita di gretto potere.

Una lettura che non fa giustizia a nessuno. Al Presidente, anzitutto; al suo partito, alla storia.

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