“Penso alle nuove linee guida ministeriali, che estendono la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico mediante la pillola Ru486 fino alla nona settimana di gravidanza e che costituiscono una duplice sconfitta: per la vita del concepito e per la stessa donna, lasciata ancor più a se stessa, visto che non ne viene mantenuto nemmeno il ricovero, necessario per garantire la sorveglianza sulla sua salute”: così aveva scritto nelle scorse settimane il presidente della Cei,il cardinale Gualtiero Bassetti.
Ad Assuntina Morresi, docente di Chimica Fisica presso la Facoltà di Scienze MM.FF.NN. dell’Università degli Studi di Perugia, dal 2006 nel Comitato Nazionale per la Bioetica, e dal 2012 nel Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze per la Vita, organo di consulenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, autrice, con Eugenia Roccella, di La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola abortiva Ru486, abbiamo chiesto di spiegarci quali situazioni aprono le nuove linee guida:
“Aprono ad un cambiamento radicale della 194, un cambiamento che si vuole indurre aggirando il parlamento. Lasciando da parte il giudizio nel merito della legge 194 e guardando alle intenzioni di chi l’ha voluta, ricordiamo che la legge 194 è basata sull’idea che l’aborto è un problema sociale, un fatto negativo che va evitato e che comunque le istituzioni vogliono tenere sotto controllo, consentendolo solo all’interno del Sistema Sanitario Nazionale e le strutture private sono ammesse solo se convenzionate: per questo viene regolamentato.
Con queste nuove indicazioni invece si negano le basi della 194 stessa: usando il metodo farmacologico per far uscire l’aborto dall’ospedale, l’aborto diventa un fatto privato della singola donna, che riguarda solo lei, un atto medico personale. Per quale motivo bisognerebbe eliminare le cause che spingono le donne a fare queste scelte, se sono esclusivamente personali e non ci riguardano?”
Perché l’aborto farmacologico è incerto?
“Perché dal momento in cui la donna assume la prima pillola – la vera e propria RU486 con cui l’embrione muore in pancia, mentre dopo due giorni si assume il secondo prodotto chimico, che induce le contrazioni espulsive – non può sapere se, quando e come abortirà, cioè non può sapere se, quando e come avverrà l’emorragia che segna l’avvenuta interruzione della gravidanza. Essendo un metodo farmacologico, le risposte delle donne dipendono dalle condizioni personali, e non sono prevedibili individualmente. Si potrebbe abortire da due ore dopo aver assunto la prima pillola, fino a 14 giorni dopo, o addirittura dover sottoporsi a un intervento chirurgico per aborto incompleto o non avvenuto. Mediamente il 60% delle donne abortisce 4-6 ore dopo aver assunto la seconda pillola”.
Come si ‘costruisce’ la natalità?
“Direi piuttosto come si sostiene la maternità. Innanzitutto riconoscendole valore sociale. Diventare madre oggi è visto come una scelta che riguarda solo la sfera degli affetti privati, e soprattutto è visto, presentato e spesso, purtroppo, vissuto, come una esperienza penalizzante dal punto di vista della realizzazione personale.Le donne sanno che per diventare madri debbono rinunciare a carriera ed autonomia, e che in caso di difficoltà, comprese quelle del rapporto con il proprio compagno, se la devono cavare da sole.Le donne poi trovano in se stesse delle risorse straordinarie, una volta diventate madri. Ma prima c’è la paura di diventarlo. Bisogna quindi agire su politiche che innanzitutto riconoscano che quando una donna diventa madre, è un bene per tutti”.
Quale bioetica per il terzo millennio?
“La bioetica ha avuto uno scossone da Covid-19, uno scossone potenzialmente salutare. E’ evidente il cambio delle priorità negli orientamenti culturali: adesso parlare di autodeterminazione è molto più difficile, perché con la pandemia abbiamo scoperto quanto le nostre vite siano connesse, e quanto i comportamenti di ciascuno possano determinare la vita altrui, anche di sconosciuti, dei quali comunque siamo responsabili. Siamo responsabili delle vite nostre e di quelle altrui, allo stesso modo. E per convivere con il virus dobbiamo tenere sempre presente questo fatto, anche perché siamo obbligati a cambiare i nostri comportamenti quotidiani. Credo possa essere una ottima occasione per ripensare tante questioni antropologiche che pensavamo consolidate”.
Simone Baroncia
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