Con il ritorno del tema della gestione e delle nomine Rai sotto il ferreo controllo dei partiti, si è rianimato il dibattito sul nostro Ente radiotelevisivo cui è affidato il compito di garantire il cosiddetto Servizio pubblico. Ovviamente, tra un’occupazione e un altra, dipendente dalla maggioranza governativa, non si parla della sostanza del problema, ma si resta sul terreno delle opposte recriminazioni. Può allora essere opportuno tornare a quanto pubblicammo in materia, a firma di Giancarlo Infante, poco dopo la nascita di Politica Insieme  con la proposta di affidare l’azienda all’azionariato popolare per una possibile e reale consegna agli italiani di uno dei loro patrimoni più importanti, e da cui dipende anche il funzionamento del sistema democratico in una democrazia moderna.

La Rai come la Bbc? Perché non pensare all’azionariato popolare per tenerne lontana la politica?

“ No, non è la Bbc. Questa è la Rai, la Rai tivi”. Erano i gloriosi tempi di Alto gradimento, di Arbore e Boncompagni. Immediatamente precedenti la vera, prima grande riforma dell’azienda cui è sempre stato affidato il servizio pubblico radio televisivo.

Luigi Di Maio ha fatto ritornare in mente quel ritornello di successo menzionando la Rai tra i 10 punti ritenuti risolutivi per la crisi di governo.

C’è da considerare subito che, da quando i 5 Stelle sono saliti al Governo, è stata messa la sordina alla loro idea primigenia di venderla. Cosa che costituirebbe l’errore più grande da fare se si finisse per smantellare anche quel poco di non privatizzato, che nell’italiano parlato nelle case vuol dire “ venduto agli amici”, rimasto del patrimonio dello Stato, e quindi di tutti noi.

Purtroppo la Rai non è stata mai, meno che mai oggi, paragonabile alla Bbc.

Eppure, ci sono state delle stagioni nel corso delle quali, quella che è sempre stata sbrigativamente chiamata l’emittente pubblica, ha svolto una funzione propulsiva per la crescita informativa e culturale del Paese e ha, persino, assicurato il pluralismo politico nell’informazione.

Si tratta della prima fase. Quella della nascita, e di alcuni anni dopo, per cui molto si deve a Ettore Bernabei. Egli riuscì a conciliare l’ortodossia politica del tempo, soprattutto di stampo fanfaniano, con la necessità di allargare gli orizzonti degli operatori interni e degli spettatori. Al di là delle critiche interessate delle opposizioni, che comunque non disdegnarono mai le assunzioni in Rai di loro adepti, pure in posizioni importanti, l’azienda radio televisiva contribuì a quella “ riunificazione” del Paese necessaria alla fase di sviluppo degli anni ’60 e ’70.

Non si trattò solo della famosa trasmissione “ Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi, pensata per gli spettatori analfabeti. Sempre più, si cominciò a raccontare il mondo e, sia pure inizialmente attraverso le sole Tribune politiche, a dare voce a tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Il piccolo schermo divenne così importante da svuotare i cinema e ridurre fortemente la vendita dei quotidiani.

Grandi giornalisti, non certamente democristiani, si videro affidare trasmissioni importanti. Tra tutti spiccano i nomi di Enzo Biagi e di Indro Montanelli. Anche le redazioni dei telegiornali non erano più solamente fatte da gente che venisse dalla sola Dc o dai partiti di governo. Lo dimostra il fatto che quando nel 1975 venne varata la riforma con la creazione del Tg1 e del Tg2, a quest’ultimo, più di orientamento social comunista, non fu difficile riempire la propria redazione e porsi in condizione di poter competete  con il primo.

Così si avviò una seconda  fase nuova. Quella in cui la televisione svolse una crescente funzione nel campo della comunicazione e dell’intrattenimento. Iniziò anche a prendere corpo la dimensione produttiva della Rai, con trasmissioni di successo  e realizzazioni di opere cinematografiche importanti.

Si parlava di “ lottizzazione”. Era vero. Visto, però, che si puntava a mandare i migliori tra i propri, si verificava in ogni caso la qualità del prodotto ( piccolo particolare: le trasmissioni prima di andare in onda passavano attraverso una serie di prove e, così, a differenza di quanto accade oggi, non si rischiavano flop clamorosi o di chiudere i programmi dopo la prima messa in onda), le redazioni erano vive e vivaci, i direttori , perché tenevano al loro buon nome, non erano dei semplici “signorsì”. Non a caso, non mancarono mai tensioni tra il Tg1 e i vertici di governo e della Dc, così come non fu sempre facile la vita per il Tg2 con i partiti della sinistra.

Quel tipo di “ spartizione”, fino alla degenerazione cui siamo giunti, era fatta anche di competizione tra giornalisti e redazioni, di  ricerca del massimo ascolto tra un programma e un altro messi in onda dalle reti. “ Mamma Rai” era tale anche perché quasi tutti al proprio interno, dal Direttore generale all’ultimo dei dipendenti, si sentivano parte di un progetto più importante. A maggior ragione dopo l’irruzione sulla scena delle televisioni commerciali di Silvio Berlusconi.

Inizialmente, la lotta con quello che poi diventerà addirittura “ deus ex machina” anche in Rai, semmai rafforzò l’impegno e il comune sentire nel rispondere ad una concorrenza spregiudicata e in grado di contare su quegli appoggi politici che, letteralmente, voltarono le spalle all’azienda del servizio pubblico,  al tempo stesso intervenendo pesantemente su telegiornali e palinsesti e sull’affidamento delle grandi commesse miliardarie delle reti Rai.

Questo è un punto sempre sottovalutato. Molte delle polemiche sulla gestione dei telegiornali, in realtà, servivano a coprire i giochi degli appalti. Miliardari, appunto.

Comunque, piano piano la Rai è finita davvero ad essere “ spoglia” da spartire senza alcun rispetto del passato e degli spettatori. Evidente è la mancanza di considerazione di questi ultimi, esemplarmente dimostrata dalla qualità dei telegiornali e dei palinsesti, afflitti da continue repliche e “ teche teche”.

Vi sono, è vero, delle eccezioni. Come quelle di Rai Storia, le cui trasmissioni, forse, potrebbero ricevere un rilievo e un sostegno maggiore. Ma una rondine non fa primavera.

Andiamo, dunque, al sodo. I partiti e quasi tutti i governi succedutisi negli ultimi decenni hanno distrutto la Rai. Tutte le riforme fatte dopo quella del ’75 non hanno risolto questo punto cruciale: il rapporto con le forze politiche.

Far diventare la Rai la Bbc, come promette Di Maio, che anche recentemente ha partecipato alla spartizione a Via Mazzini con la Lega, e sorvoliamo su taluni aspetti di tale spartizione, può essere progetto credibile se si determinano i meccanismi secondo i quali l’azienda radio televisiva possa divenire davvero, e finalmente, un patrimonio di tutti gli italiani.

C’è da chiedersi se lo strumento migliore non sia quello di partire dalla sua struttura di Società per azioni.

L’idea dell’azionariato popolare potrebbe costituire la via giusta. Una soluzione conservatrice sul modello della signora Thathcher che, invece, può funzionare con una forte valenza sociale e di rispetto dei diritti fondamentali. Tra essi  c’è quello di una informazione indipendente e completa, assieme a quello di potersi vedere un po’ di televisione fatta bene e convincente.

Questo azionariato popolare potrebbe coinvolgere le famiglie, e diventare quindi anche un investimento. Un’azienda televisiva come la Rai, come tante altre nel mondo, se gestita bene, se innovata, se capace di inserirsi davvero nelle nuove dinamiche dei servizi digitali, può fare profitti anche ingenti.

Con le famiglie, che potrebbero cedere eventualmente le loro azioni solo dopo un lungo periodo e solo ad altri soggetti titolati, l’azionariato della Rai potrebbe essere ulteriormente distribuito tra le università, le fondazioni, le amministrazioni locali, le forze sociali e le organizzazioni di rappresentanza economica e sociale.

E’ chiaro che, come in tutte le società per azioni, si dovrebbe seguire la logica del voto da parte degli azionisti e la scelta dei vertici, e dei dipendenti, finirà per essere fatta solamente in relazioni alle capacità, alla competenza, al progetto editoriale e ai risultati prefissi e raggiunti. In ogni caso, sulla base di decisioni che non possono più rimanere solo nelle disponibilità ed interessi dei partiti politici.

Ovviamente, questa proposta riceverà parecchie critiche, ma forse mai come quelle che sta ricevendo adesso la Rai dei nostri giorni.

Se, invece, esperti di diritto societario, gli addetti al settore e al mercato radio televisivo volessero spendere competenze adeguate per una valida e ben costruita proposta di legge, si potrebbe immaginare finalmente una Rai in mano alla società civile.

Chissà che l’idea dell’azionariato popolare non possa essere approfondita e valutata anche in relazione a molti altri punti presenti tra i 10 indicati da Di Maio, a partire da quello relativo ai “ beni comuni” per i quali, in ogni caso, può soccorrere l’economia civile.

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