Si può essere ottimisti nel bel pieno di una pandemia così terribile di cui a malapena si intravede l’uscita dal tunnel? Ottimisti non significa essere spensierati. Essere ottimisti significa guardare al domani con speranza pur essendo pienamente coscienti della gravità della situazione presente. Essere spensierati è vivere alla “carpe diem”: succeda quel che succeda, alla fine non me la prendo né per un verso né per l’altro. E proprio perché il domani non mi interessa, intanto mi godo quel che posso godermi del presente.

Francamente mi sento ottimista, nonostante quello che ci sta attorno “o forse proprio per questo” come direbbe Giorgio Gaber.

Nel tardo pomeriggio di venerdì, come faccio quasi quotidianamente, al termine del mio lavoro di cronista, mi sono collegato al sito di Politicainsieme.com per leggere qualche articolo. L’attenzione è stata subito focalizzata sull’editoriale di Stefano Zamagni: “Le quattro lezioni della crisi Convid-19”. Per una sorprendete quanto piacevole coincidenza, avevo appena finito di scrivere un articolo dedicato a tre giovani. Si tratta di Alessia, Claudio e Giovanni impegnati nel servizio civile, quello che Zamagni con bella espressione chiama “l’esercito del bene comune”. Questi tre giovani hanno iniziato il servizio in un’associazione di assistenza della rete Anpas qualche mese fa. Quando è scoppiata la pandemia è stato detto loro che erano liberi di interrompere il servizio, sarebbero stati retribuiti come previsto anche per il resto del percorso non fatto, quindi potevano tranquillamente tornare a casa, nelle proprie famiglie. Al sicuro. Invece no: hanno deciso di restare sul campo, in trincea, a prestare servizio pur sapendo dei pericoli che corrono, perché il Covid-19 sta dimostrando ogni giorno che non scherza: la lista dei decessi comprende anche medici e personale sanitario mentre svolgono la loro attività. Questi tre ragazzi sono a conoscenza di tutto ciò, ma sono stati fermi nella loro decisione: “Restiamo”. Hanno scelto liberamente e spontaneamente. Potevano tornare a casa: neppure la retribuzione avrebbero perso. Così la loro scelta diventa doppiamente nobile ed esemplare: da un lato perché sono pronti a mettere a rischio la propria salute per prestare servizio agli altri, dall’altro perché hanno dimostrato che è una scelta etica non influenzata dai soldi. Lo fanno perché sentono di svolgere una missione. Sono sicuro che tanti altri giovani (e non solo) si stanno comportando alla stessa maniera. Purtroppo, le luci mediatiche sui giovani quasi sempre si accendono per fatti di cronaca nera, per evidenziare narcisismo o eventi futili. Ma si tratta di piccolissime frange anche se spesso trasmettono un’idea generalizzante.

Questi tre giovani sono il simbolo di quel terzo settore di cui ha bisogno il Paese per rialzarsi: non un sistema in contrapposizione allo Stato e neppure in competizione. Ma di supporto, per creare sinergie, per favorire il coinvolgimento di risorse ed energie che sono il vero valore aggiunto del Paese. Non solo nelle emergenze, ma nella quotidianità. L’Italia in qualche modo si riprenderà al termine dell’emergenza sanitaria, ma sarà vera rinascita se verrà finalmente riconosciuta piena “cittadinanza” al terzo settore. Pertanto non resta che augurarsi che venga accolto l’appello di Zamagni: “Occorre intervenire, sin da ora – ha scritto nell’articolo di venerdì ( CLICCA QUI )- senza aspettare la fine della pandemia (prevista per l’inizio dell’autunno), affinché il governo dia vita ad un gruppo di lavoro formato da persone competenti, libere da ogni legame di partito e di affari, con forte motivazione intrinseca, al quale chiedere di elaborare, in un lasso di tempo di non più di tre mesi, un piano di rinascita nazionale”.

Gaber cantava che “non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” e così non riusciva ad avere un’idea chiara “di questa nostra Patria che non so che cosa sia”. L’esercito del bene comune è un bel esempio di Patria. L’Italia può essere ottimista: può ben sperare perché ha la sua “bella gioventù”.

Luigi Ingegneri

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