Che le vicende degli ultimi giorni, dapprima col blocco delle vaccinazioni, poi con la riabilitazione di AstraZeneca, abbiano sollevato molti interrogativi su tutta la questione, è cosa che sarebbe difficile negare.  Così, al dolore che questa tragedia sta disseminando a piene mani, si sono aggiunti l’incertezza e il sospetto, proprio sulle conseguenze di quella che al momento – nell’indisciplina che sta accompagnando ogni misura restrittiva – appare l’unica via percorribile per combattere il morbo.

Proprio su queste pagine, per dare a questi interrogativi una prima risposta, è stato sottolineato come, tra i produttori attuali e possibili di un vaccino anti-Covid, si siano create le condizioni propizie ad una battaglia commerciale senza esclusione di colpi per un business supermiliardario; il che può essere considerato più o meno nell’ordine naturale delle cose.  Viviamo infatti in un sistema economico mondiale in cui senza falsi pudori vengono seguite regole di comportamento assai dure ed egoistiche; viviamo in un quadro etico-politico in cui il danaro conta chiaramente molto più della vita; e viviamo in un momento in cui il prezzo al quale quella preziosa e scarsa merce che è un vaccino può essere venduta è tanto più alto quanto più forte è il livello di panico.

Guerra per i vaccini?

Una diversa e più brutale lettura delle difficoltà che i mercati internazionali creano ad una ordinata gestione dei vaccini anti-Covid, che rimangono scarsi a livello mondiale, viene invece proposta dai cultori (spesso privi di ogni ruolo scientifico e di qualsiasi qualificazione accademica) della cosiddetta “geopolitica”, una ridicola pseudoscienza inventata nel periodo tardo-colonialista, culminata nella teoria nazista del Lebensraum, e riesumata dai Francesi all’indomani della morte del “socialismo realizzato”. Essa prospetta una sorta di guerra tecnologico-commerciale condotta dalle principali potenze mondiali, avvalendosi questa volta delle tecnologie biologiche anziché di quelle missilistiche ed atomiche. Un tentativo di strumentalizzazione a fini egemonici in cui si è particolarmente distinta l’estrema destra sponsorizzata dall’American Enterprise Institute.

Nessuno di questi autoproclamatisi “esperti” di questioni geo-strategiche sembra abbia avuto l’acume di notare la fondamentale differenza tra il cosiddetto “equilibrio del terrore” e le rivalità nel campo dei vaccini anti-pandemie. Nel primo caso si trattava di una situazione di “guerra non guerreggiata”, di una sorta di gara a chi aveva i nervi più saldi. Si trattava di una partita che usava – come deterrente all’aggressività di ciascuna delle due parti – la minaccia di un attacco nucleare e dell’enorme numero di vittime che sarebbero state provocate, con uno scambio di missili, qualora l’equilibrio fosse stato violato, (150 milioni di ipotetici morti in USA, contro 100 milioni nell’URSS). Al contrario, una guerra fredda combattuta negandosi reciprocamente i vaccini per anti-pandemie, è una guerra che provoca morti veri, e li provoca subito e continuativamente nel tempo, anche durante il periodo di equilibrio, e non solo una volta che questo fosse venuto meno per la pazzia di una delle due parti.

Si sarebbe cioè in presenza non di un sistema di deterrenza, ma di una permanente “guerra d’attrito”, di una guerra d’usura con vittorie e sconfitte quotidiane, da misurare col conteggio e il confronto delle perdite subite da ciascuno dei due avversari.

C’è poi da tenere in conto il fatto che le parti impegnate in una contesa del genere scoprirebbero rapidamente che è molto meno facile mettere in difficoltà l’avversario negandogli i mezzi per difendersi da un’epidemia sviluppatasi per caso, che non provocare un’epidemia con un virus sviluppato negli stessi laboratori in cui si fa la ricerca sui vaccini. La tentazione di approfittarne potrebbe essere troppo forte.

In realtà, è piuttosto difficile spiegare la finalità di una così distorta e strumentale lettura dei seri problemi  emersi attorno alle forniture (vere o promesse, effettuate o tradite) dei vaccini ai paesi membri dell’UE. A meno di non vederli contro lo sfondo e come parte di un aperto tentativo di tornare a dar vita, comunque ed indipendentemente non solo dai vaccini ma dalla stessa pandemia, alla situazione che ha prevalso dal 1950 sino al crollo del Muro di Berlino, quella di una “guerra fredda” accompagnata, su teatri più o meno secondari. da guerre locali “calde”, con impegno diretto delle superpotenze, o per proxy.”,

Ancor più difficile è però accettare un tale disegno, tanto più che questa “nuova guerra fredda” è, paradossalmente, orientata contro gli stessi avversari di ieri, la Russia e la Cina, anche se questi sono stati entrambi sconfitti, o piegati sotto il profilo ideologico.  Senza quindi tener conto del fatto che la Russia non è, dal punto di vista militare, che una pallida parvenza di quella che fu l’Unione Sovietica, e soprattutto non è più portatrice di una ideologia, quella dell’abolizione della proprietà privata, che ne faceva un nemico naturale dell’Occidente, oggetto di un odio inestinguibile; la condannava ad una guerra di religione e ad essere distrutta fino alle fondamenta.  E, per quel che riguarda la Cina, senza tener conto delle occasioni e dei vantaggi offerti all’economia occidentale dal fatto che a partire dalla fine degli anni 70 ha consentito ai capitali US-based  di sfruttare a fondo la propria forza lavoro, mentre stava in ogni modo tentando di trasformare  se stessa sul modello degli Stati Uniti,  e di integrarsi del sistema internazionale americano-centrico.

Europa ambigua

Visto dall’Europa, che non può che essere allarmata e preoccupata, una nuova guerra fredda appare come una possibile rinuncia ai grandi benefici ottenuti con la sconfitta del comunismo, con l’implosione dell’Unione Sovietica, e con l’apertura della Cina al commercio internazionale e alla specializzazione produttiva, dopo un trentennio in cui essa si era chiusa al mondo intero ed aveva tragicamente cercato di camminare solo sulle proprie gambe. Oggi la principale potenza europea, la Germania, ha un forte interesse economico in Cina, e al tempo stesso un più modesto interesse securitario con gli Stati Uniti. Nel futuro prevedibile, così come accade oggi, nessun esercito minaccia infatti né la Germania né l’Europa, mentre gli interessi tedeschi in altre parti del mondo possono essere meglio protetti da forze armate nazionali. Ad esse infatti la Germania dedica gran parte di quelle risorse che negli scorsi anni ha negato, con grande rabbia di Trump, alla NATO.

Tutto ciò dovrebbe quindi spingere l’Europa ad agire di concerto nei confronti dell’alleato americano per aiutarlo ad evitare, dopo una presidenza dimostratasi incapace di gestire la stanchezza del paese per le guerre continue e senza fine, che la nuova presidenza si dimostri altrettanto maldestra nel tentativo di ritornare alle politiche del passato, e di seguire la linea dei falchi più scatenati. E invece proprio le molte vicende analoghe a quelle che negli ultimi giorni hanno turbato il mercato dei vaccini hanno ripetutamente dimostrato che alcuni dei paesi membri, e soprattutto quelli un po’ più uguali degli altri, la Francia e la Germania, continuano con i loro giochetti per acquisire maggior potere nel quadro comunitario.

Diventa legittimo, in questo quadro, chiedersi di quale utilità possa mai essere montare a Roma una fictio di inesistente unità di propositi e di azione con Berlino, al punto di imporre ad un organo tecnico, l’AIFA che dovrebbe essere completamente indipendente, la decisione governativa di sospendere l’uso del vaccino AstraZeneca, solo perché la stessa decisione era già stata presa la Germania. E presa autonomamente, come tutti sapevano, anche se Berlino non si era degnata di avvertire i cosiddetti partner.   Senza tener conto, soprattutto del fatto che in Italia la disponibilità di altri vaccini era ben diversa da quella confermata ancora quattro giorni fa nel sito bundesregierung.de, cioè il sito ufficiale del governo germanico. Questo mostrava infatti una panoramica dell’attuale stato degli approvvigionamenti tedeschi in vaccini anti-Covid che comprendevano in aggiunta a 64,1 milioni di dosi Biontech/Pfizer ottenute tramite la UE, un’opzione sicura per altri 30 milioni  “a livello nazionale”.

Berlino confermava cioè di avere la disponibilità di altri 30 milioni di dosi del vaccino Pfizer, ottenute sul mercato privato, e in rottura con quanto concordato a Bruxelles, da aggiungere alla quota già ottenuta tramite l’Unione europea. Dosi di cui, evidentemente, né l’Italia, né gli altri partner –  compresa la Francia, che crede di essere un partner “più uguale” degli altri – non avranno a loro disposizione per cercare di compensare il danno fatto sia in termini di tempo perduto, sia in termini di dubbi seminati tra popolazione riguardo ad una ipotetica pericolosità del vaccino AstraZeneca.

“Vaccine diplomacy”

La mancanza di una esplicita opposizione europea al tentativo di coinvolgere una risorsa rara e preziosa quale sono i vaccini nel vortice di una assurda “nuova guerra fredda” fa si che non venga sufficientemente in luce quella che è una patente assurdità. Dato che lo sviluppo e la produzione dei vaccini è molto meno costosa che non quella di un armamentario missilistico e nucleare, in una gara per il potere mondiale fondato sui vaccini non ci sarebbero solo due parti in gioco, come nel caso dell’equilibrio nucleare, o della corsa allo spazio, ma una pluralità di soggetti dotati dei mezzi per partecipare alla partita.

Il confronto non può dunque avere carattere bipolare, e quindi rigido e quasi immobile come una sfida a “braccio di ferro”, ma deve inevitabilmente vedere la partecipazione di molti più paesi, e prendere in considerazione una molteplicità di vaccini, ed avere carattere molto più dinamico e collaborativo. Non si può, in altri termini, consentire che la questione dei vaccini possa, a livello mondiale, diventare vittima di chi vuole a tutti i costi risuscitare un clima di guerra che appartiene ad un passato ormai fortunatamente travolto dagli eventi. La questione dei vaccini, anche se si vuol pessimisticamente dare per scontato che le rivalità sono inevitabili, va comunque vista come una partita molto più complessa della semplice contrapposizione frontale di due potenze. Va vista come una partita di “vaccine diplomacy”.

Non si tratterebbe di inventare nulla di nuovo, ma di stare in un solco già tracciato. Perché la “Diplomazia dei Vaccini” esiste, ed ha conosciuto molti importanti successi sin dal 1801. Fu allora infatti che il grande scienziato inglese Edward Jenner, che nel 1798 aveva inventato il primo vaccino della storia, quello contro il vaiolo, fu investito di un ruolo diplomatico internazionale; ruolo che egli svolse all’insegna del motto “le scienze non vanno mai in guerra”. Nonostante la ostilità britannica a Napoleone, ottenne grandi riconoscimenti in Francia, e lo stesso Napoleone disse che “Jenner è un uomo cui non si può rifiutare nulla”.

Per di più, nei settantacinque anni successivi alla Seconda guerra mondiale la diplomazia della scienza e dei vaccini ha avuto larghi e interessanti sviluppi, soprattutto – a maggior scorno dei geopolitici improvvisati e dell’ultra-destra che vede tutto in termini di guerra e solo di guerra – li ha avuti soprattutto in funzione anti-guerra fredda. Perché, come ha ricordato ancora di recente il Professor Peter J. Hotez, un’autorità mondiale nel campo della pediatria a della immunologia, la “vaccine diplomacy” ha conosciuto la sua “età dell’oro” proprio negli anni in cui la tensione tra gli Stati Uniti e l’URSS e la crisi di Cuba rischiarono di portare il mondo all’olocausto nucleare.

Fu infatti proprio tra il 1956 e il 1959, che il celebre dottor Albert Sabin partì dagli Stati Uniti per recarsi in URSS e collaborò con le sue controparti virologiche sovietiche, incluso il meno celebre ma altrettanto importante dottor Mikhail Chumakov, per sviluppare un prototipo di vaccino orale contro la poliomielite, di cui beneficiarono in una prima fase 10 milioni di bambini sovietici e, infine, 100 milioni di persone di età inferiore ai 20 anni.

Analogamente, ricorda sempre Hotez, tra il 1962 ed il 1966, l’USSR mise a punto una nuova tecnica di conservazione del vaccino contro il vaiolo, e fornì 450 milioni di dosi a un programma finanziato soprattutto dagli Stati Uniti, per lo sradicamento di questo male atavico nelle compagne del Terzo Mondo. Più che una nuova occasione di tensione militare, la diplomazia della scienza e dei vaccini si presta dunque ad essere uno strumento di distensione internazionale. E forse, anche l’Italia, potrebbe – ora che viene presa in considerazione l’ipotesi Sputnik – contribuire nel suo piccolo a dare un piccolo segnale positivo in questa buia fase del XXI° secolo.

Giuseppe Sacco

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