Si stava lentamente spegnendo la ex-ILVA, la grande acciaieria di Taranto, già la più rilevante in Europa e di importanza strategica per il sistema industriale italiano.

Mancavano pochi giorni alla scadenza del contratto di affitto finalizzato alla vendita con il gigante Arcelor-Mittal, vale a dire il più grande gruppo siderurgico al mondo dopo i cinesi, che vantava una clausola di uscita. E’ infatti intervenuto lo Stato ponendo fine un’altra volta a una privatizzazione tanto declamata negli anni novanta.

La vicenda è nota: il Tesoro, attraverso la società Invitalia, entra nel capitale della new-co di Arcelor-Mittal con una quota del cinquanta per cento che salirà al sessanta nel 2022. Il piano industriale, a quanto ha riportato la stampa, è ambizioso: tornare a produrre otto milioni di tonnellate di acciaio contro poco più dei tre milioni attuali e mantenere i livelli occupazionali di circa diecimila addetti pur ricorrendo per almeno due anni alla cassa integrazione. Sin qui i fatti più recenti.

Anche la storia della ex-ILVA è ben nota, da quando lo Stato volle insediare la grande acciaieria, che allora si chiamava Italsider, in un contesto urbano non protetto. E’ seguita la privatizzazione con l’intervento del gruppo Riva che pare non avesse completato i progetti di tutela ambientale e quindi l’intervento del magistrato penale per la gravità del mancato rispetto di alcune tutele. Solo sotto il mantello della legge fallimentare (Amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi) il complesso è stato ceduto, con particolari clausole intermedie, al colosso Arcelor-Mittal all’esito di una gara ad evidenza pubblica. Da allora, dopo le concrete iniziative del ministro Carlo Calenda, la ex-ILVA è stata oggetto di polemiche: dalla salvaguardia penale per i nuovi amministratori prima concessa e poi tolta, alle richieste delle autorità locali, alle pretese di qualche esponente di governo di chiudere l’acciaieria e insediare un grande parco giochi (!). Il fiore all’occhiello della industria pesante italiana stava quindi appassendo.

Ora dovremmo essere un’altra volta al rilancio con l’intervento dello Stato anche se si profilano nuove incognite. La prima riguarda i tempi di effettiva ripresa delle produzioni. L’ormai famoso “altoforno 5” è spento da anni e si progetta la conversione in forno elettrico tutto da progettare, ordinare, costruire, collaudare e quindi fare entrare in esercizio allo scopo di impiegare meno minerale di ferro e meno addetti. Intanto la produzione è limitata al cosiddetto “ciclo secondario” ma l’impresa non potrà rinunciare al ritorno del “ciclo primario” che impiega quattromila dipendenti sui diecimila in forza. E questo ritorno è essenziale per un Paese come il nostro, che è tra i primi al mondo nell’industria meccanica. I tempi quindi non saranno  brevi e l’ambizione di  tornare agli otto milioni di tonnellate di acciaio prodotto in un grande complesso a ciclo integrale è già ridimensionata in partenza.

La seconda incognita riguarda la presenza di Arcelor-Mittal nella nuova Ilva che per ora è paritetica, ma che fra due anni sarà di minoranza.  Non si può ignorare infatti che un partner, protagonista assoluto sul mercato mondiale, resterà pur sempre un concorrente disponendo  in Europa  del grande insediamento di Fosse sur Mer presso Marsiglia, di Aviles in Spagna e di altri centri di produzione. Decidere le strategie, la gamma di prodotti, la catena delle forniture, i prezzi, per non parlare del portafoglio clienti con un concorrente nel consiglio di amministrazione non sarà facile. Tanto più che una volta minoritaria la partecipazione di Arcelor-Mittal sarà deconsolidata nel bilancio della capogruppo.

Altra incognita resterà la tutela ambientale, problema permanente da affrontare in continuità sia per rispettare la legge che per uscire dalle diatribe con le autorità e le comunità locali. Molto è già stato fatto ma la completa messa in sicurezza del complesso industriale richiede ancora tempo e investimenti. Non è vero che la produzione di acciaio è incompatibile con il rispetto dell’ambiente. Per avere un esempio basterebbe andare a Linz, in Austria, dove il complesso produttivo di Voestalpine produce acciai speciali “puliti” invece che carbone, dopo una riconversione lunga e difficile che ha dato alla fine risultati eccellenti.

In ogni caso un’altra stagione della grande acciaieria è già cominciata.  Nessuna impresa industriale è esente da incognite ma nel caso di Taranto questa volta si dovrebbe fare sul serio. Anche se, come diceva Bertrand Russell “converrà pur sempre mettere un punto interrogativo a ciò che si ritiene per scontato”.

Guido Puccio

About Author