Molto si è scritto ed osservato in merito alle modifiche del codice penale protese a giustificare l’introduzione di nuove ipotesi criminose a “tutela”, così si dice, dell’identità di genere.

Qui non si intende discutere sull’an, cioé sul fare o il non fare, benché si condividono infatti le obiezioni che da più parti sono state mosse alla proposta Zan, poiché interessa comprendere, sul piano squisitamente giuridico, le criticità di tale proposta e come prospettare emendamenti che possano in qualche modo rendere “accettabile” l’intervento di cui si tratta.

I punti più equivoci della proposta Zan sono connessi al concetto di “discriminazione” ed a quello di “omofobia”, “identità di genere” ecc. Conviene considerarli progressivamente.

  • Sul concetto di “discriminazione”

“Discriminare” significa applicare una decisione che si fonda o è motivata sopra una differenza, non necessariamente ritenuta negativa.

Di per sé la discriminazione può attenere a sfere giuridiche, morali, personali o puramente discrezionali.

Poiché si è in ambito penale, non ogni discriminazione può essere sanzionata ed inoltre, per evitare astrattezze che si traducono in arbitrarietà applicativa, è indispensabile ancorare il concetto in questione a elementi facilmente verificabili, evitando nello stesso tempo di utilizzare il concetto di discriminazione in senso “dinamico”, cioè come strumento per modificare – nel silenzio della legge – il diritto oggettivo ed i diritti soggettivi esistenti per scopi “repressivi” o comunque impropri.

Tale ultimo aspetto è fondamentale in ottica penale, poiché il reato deve punire fatti “che si verificano prima dell’entrata in vigore della legge penale” (art. 25 cost.) e non può essere ammesso che la legge penale sia utilizzata per sanzionare a posteriori condotte non punibili quando poste in essere.

Ciò detto e venendo all’attuale formulazione, la proposta di modifica dell’ordinamento vigente – letta nella sua interezza – prevedrebbe ex art. 604bis lett. a) c.p. la punibilità di “chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi … fondati sull’omofobia … ecc.”. Quando si avrebbe “discriminazione”?

Innanzi tutto, la discriminazione dovrebbe essere rivolta a “soggetti in carne ed ossa” e, quindi, ricadere – nei suoi effetti – direttamente sulla vita di questa o quella persona. Se così non fosse, si avrebbe chiaramente un reato di mera opinione o di stile di vita, poiché qualunque affermazione o comportamento di preferenza – anche soggettiva – fondata sulla differenza sessuale, sulle scelte sessuali, su qualunque identità di genere o similia sarebbe assurdamente punibile.

Infatti, si potrebbe (nella formulazione della disposizione così come proposta) “discriminare”, nel senso “minimo” di non gradire o comunque non condividere pienamente, chiunque critichi (o contrasti) sul piano del pensiero o del comportamento personale o familiare associazioni, movimenti o linee di pensiero collegate all’ideologia gender.

A tal fine non sarebbe utile specificare, come pure si sta facendo, che rimane “libera” l’espressione del pensiero, poiché sul piano pratico il pensiero si traduce quasi sempre in comportamenti corrispondenti al pensiero stesso.

Inoltre, è innegabile che il concetto di “discriminazione” essendo estremamente ampio e flessibile, è tale che “nel dubbio” possa sempre prevalere l’opinione repressiva, fermo restando che è difficilissimo nel caso pratico “dimostrare” che la discriminazione contestata sia rimasta nell’ambito della sfera della libertà di pensiero.

Ecco che allora è necessario specificare che gli effetti della condotta devono ricadere – anche in punto di dolo – sopra soggetti particolari.

In altri termini, la vittima del reato deve essere identificata o identificabile e non può essere considerata genericamente come una “classe” o una “categoria” di persone né può costituirsi come “bene protetto” un’ideologia attinente la sfera della sessualità e della persona – quale quella del gender – tutt’altro che definita.

Nello stesso modo, la discriminazione deve essere definita nel suo contenuto.

Il termine in questione (discriminare) ha una valenza negativa ed in genere si applica, in ambito giuridico, quando si nega ad una persona o a più persone l’esercizio di diritti solo perché aventi una caratteristica particolare.

Si crede che l’oggetto della discriminazione debba rimanere fortemente ancorato alla sfera del diritto positivo.

Non è, del resto, accettabile che si puniscano con sanzione penale comportamenti rilevanti solo sul piano morale o sociale.

Né avrebbe senso domandarsi – anche solo in astratto – se sia punibile chi neghi il saluto o non frequenti locali o non legga libri perché le sue scelte sono contrarie all’ideologia LGBT.

Poiché il caso della violenza è contemplato dalla lett. b) dell’art. 604 bis c.p., la discriminazione può evidentemente essere rivolta certamente a impedire (in tutto o in parte) l’accesso ad un diritto riconosciuto oppure all’esercizio di un interesse legittimo.

In altri termini, si discrimina non quando si applicano differenze, che la legge riconosce, ma quando – in assenza di distinzione legale – si impedisce di fatto l’applicazione della legge in ragione di criteri non legalmente contemplati.

Per contro, la discriminazione “legittima” (cioè la distinzione operata per legge o secondo quanto prescritto dalla legge), che altro non è che l’applicazione del criterio eguaglianza sostanziale e di ragionevolezza, non può essere censurata in ragione del divieto di cui si tratta.

Per questo motivo, per esempio, non vi può essere discriminazione quando la scelta del comportamento attuato si fonda sopra un diritto dell’agente riconosciuto dall’ordinamento giuridico.

Nello stesso modo, non può aver senso punire chi rifiuti l’esercizio di un diritto, ancorché motivato per le ragioni di cui si tratta, allorché tale diritto non spetti alla persona in questione: la motivazione “personale” in questione non rileva sotto il profilo giuridico e, dal punto di vista del diritto penale contemporaneo, una simile punibilità si giustificherebbe solamente per censurare un’opinione o un modo di pensare di per sé irrilevante, giuridicamente, sotto il profilo della negazione del diritto di cui si tratta.

Naturalmente, è possibile che determinate distinzioni legali vengano col tempo ritenute non più accettabili e quindi che muti l’ordinamento sul punto, ma tale modifica – quando avverrà – potrà avere effetti solo per l’avvenire.

E’ anche possibile che la norma invocata per “giustificare” la discriminazione “legittima” sia in contrasto con la costituzione: in tal caso, ciò che sarà oggetto di sindacato atterrà alla legittimità della norma in questione e la sua caducazione non potrà che avere effetti – sul piano della repressione – all’esito della dichiarazione di incostituzionalità (o dell’eventuale disapplicazione in ragione del diritto comunitario).

Da ultimo, la discriminazione sussiste sicuramente quando ciò che ha spinto all’atto discriminatorio è stato fondato in maniera preponderante sopra i criteri che si ritengono non accettabili.

Diversamente, la punibilità non sarebbe ragionevole, poiché se l’asserita discriminazione è stata attuata facendo leva innanzi tutto sopra elementi non contemplati dalla norma penale, allora si punirebbe più che l’atto discriminatorio, l’opinione dell’agente non conforme ai desiderata della pretesa vittima.

In sostanza, si deve evitare che la norma penale venga utilizzata non per proteggere diritti ma per ottenere indebitamente benefici in punto di fatto o per modificare, sotto minaccia di denuncia, comportamenti ed opinioni che di per sé non recano alcun danno effettivo o che hanno una soglia di lesività estremamente eseguita e tale da non meritare l’intervento penale (il richiamo va alla non punibilità per esiguità/tenuità del fatto).

Tutto quanto sopra porta allora ad evitare di far rifermento, nel contesto de quo, al concetto astratto di “discriminazione”, ma di concretizzarlo rendendo chiaro ed accettabile il precetto penale.

Da ultimo si osserva che il concetto di “discriminazione” riferito ai motivi razziali, etnici, nazionali e religioni di per sé potrebbe tranquillamente accettare queste specificazioni, se del caso, o ristrutturando l’intero articolo o attraverso definizioni ad hoc, che però potrebbero apparire come arbitrarie e quindi censurabili sul piano della ragionevolezza.

  • Sul concetto di “omofobia”, “identità di genere” et similia

Con riferimento a tali aspetti, la vacuità e vaghezza dei termini sono tali da legittimare (fosse anche solo indirettamente) ogni libido e da ampliare oltre misura il concetto di omofobia in maniera del tutto inaccettabile, per la sua vaghezza e per la capacità di poter essere strumentalizzata.

Ecco che allora conviene definire in maniera oggettiva (se mai possibile) i contenuti in questione.

Un punto sul quale non vi è molto disaccordo è il caso della “violenza”.

Purtroppo, è vero che, per esempio, vi sono stati e vi sono casi di violenze contro chi è ritenuto (a torto o a ragione) omosessuale o transessuale.

Nello stesso modo però il rapporto omosessuale in sé (come ogni altro comportamento ricadente nella sfera sessuale) non è un diritto soggettivo, posto che comunque nessuno può essere obbligato a “obblighi di natura sessuale” (del resto, ci sono fiumi di volumi anche per le violenze sessuali tra coniugi).

Altro aspetto è la definizione delle categorie in questione. E’ necessaria una “certificazione”? Basta o è necessaria la dichiarazione anche ex post della vittima oppure l’appartenenza a gruppi LGBT?

Quest’ultima soluzione sembra quella sotterranea ed implicitamente ammessa. Ma l’appartenenza ad una associazione di tal genere non implica alcuna scelta particolare o qualificazione sotto il profilo della sfera sessuale. Per contro, non si vede perché mai non si debba tutelare la persona, che abbia subito un torto, perché ritenuta (anche erroneamente) o qualificata come omosessuale, lesbica o transessuale.

Né un tesserino ufficiale potrebbe aiutare se non ridicolizzando la persona stessa, fermo restando che nell’ottica LGBT si possono assumere vesti infinite o, meglio, indefinite, con conseguente difficoltà di identificazione e classificazione penale.

Se poi la categoria di riferimento dipende sostanzialmente dalle scelte della presunta vittima, diventa alquanto difficile far dipendere la punibilità da classificazioni oggettivamente molte volte evanescenti.

Tuttavia, se si spostasse il punto di vista dalla vittima al “carnefice”, allora forse la soluzione potrebbe essere più semplice e chiara.

In questo caso, non vi sarebbero insormontabili difficoltà nel considerare punibile chiunque “discrimini” (nel senso sopra indicato) in base al convincimento, anche errato, che la vittima sia omosessuale oppure lesbica o transessuale.

In questo modo chiunque sarebbe protetto e non ci sarebbe – se non in minima parte – una legittimazione dei gruppi LGBT.

Naturalmente si potrebbe obiettare che nell’elencazione sopra riferita non vengono considerate altre “categorie”.

Tuttavia, trattando di diritto penale e di norme giuridiche, bisogna far riferimento a categorie che siano in qualche modo considerate dalla legge.

Ad oggi, se non si erra, solo quelle citate sono propriamente analizzate dall’ordinamento giuridico.

  • Formalizzazione dell’emendamento

Dal punto di vista poi della tecnica legislativa, anche per semplificare la lettura dell’articolato, ben si potrebbe riscrivere l’art. 604bis lett. a) c.p., provvedendo ad approvare emendamento alla proposta di legge de qua, nel seguente modo.

L’art. 604bis lett. a) è sostituito dal seguente:

Ipotesi I):

con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi:

– propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero 

– istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi ovvero

– contro una o più persone istiga a porre in essere o pone in essere specifici comportamenti, che ingiustamente ostacolino o impediscano l’esercizio di un diritto o di un interesse legittimo riconosciuto dall’ordinamento giuridico e che siano motivati esclusivamente o prevalentemente dal convincimento, anche errato, che la vittima sia omosessuale, lesbica o abbia avuto alla nascita un sesso naturale diverso da quello apparente o anagrafico

Ipotesi II):

con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi:

– propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero 

– contro una o più persone istiga a porre in essere o pone in essere specifici comportamenti, che ingiustamente ostacolino o impediscano l’esercizio di un diritto o di un interesse legittimo riconosciuto dall’ordinamento giuridico e che siano motivati esclusivamente o prevalentemente su motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi ovvero dal convincimento, anche errato, che la vittima sia omosessuale, lesbica o abbia avuto alla nascita un sesso naturale diverso da quello apparente o anagrafico

Da qui, si potranno poi a cascata ricavare gli altri emendamenti all’intera proposta di legge.

Il termine “sesso naturale” si potrà eventualmente intendere come “sesso biologico”.

Nessuno poi potrebbe seriamente lamentarsi, anche in una prospettiva veramente egualitaria, di proteggere anche gli eterosessuali.

Per cui si potrebbe, eventualmente, prospettare un’ulteriore ipotesi di emendamento, che potrebbe di per sé eliminare in radice molti problemi, considerando ogni orientamento sessuale.

Di seguito l’ipotesi finale.

Ipotesi III)

con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi:

– propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero 

– contro una o più persone istiga a porre in essere o pone in essere specifici comportamenti, che ingiustamente ostacolino o impediscano l’esercizio di un diritto o di un interesse legittimo riconosciuto dall’ordinamento giuridico e che siano motivati esclusivamente o prevalentemente su motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi ovvero sull’orientamento sessuale della vittima.

Alfredo De Francesco

 

Immagine utilizzata: Pixabay

 

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