Anche in questi ultimissimi giorni, sono rimbalzate dalla cronaca notizie relative a sentenze con le quali, di fatto, la Magistratura – o almeno alcuni magistrati – surroga il ruolo del Parlamento. Imponendo, autoritativamente, indirizzi normativi in materie delicatissime, quale, ad esempio, il cosiddetto “fine vita”. Temi – il nascere ed il morire – che, in funzione delle modalità con cui vengono affrontati, legittimando o meno determinate prassi che la scienza e le biotecnologie  mettono oggi a nostra disposizione, esercitano un forte impatto “ antropologico”.
Incidono, cioè, pesantemente sulla nostra autocomprensione; sulla stessa concezione di sé, della vita e della storia che l’umanità del terzo millennio va rielaborando. Insomma, quanto basta per ritenere che questioni talmente dirimenti non possono essere impunemente delegate alla libera ermeneutica di singoli magistrati. Taluni, infatti, facendo leva sulla interpretazione di norme già acquisite nel nostro ordinamento, a fronte di casi particolari, estendono i confini della loro l’applicabilità quel tanto che di fatto ne muta la fattispecie, generando, sostanzialmente, nuovi indirizzi generali che pur fanno giurisprudenza.
Se a ciò si aggiunge la studiata carica emozionale con cui tali casi specifici vengono letteralmente somministrati ad una opinione pubblica sostanzialmente acritica in materia, si comprende come fatalmente si formi una cascata di opinioni, a sua volta cavalcata dai mass-media, che confina argomenti di straordinario e vitale rilievo nel limbo edulcorato di un “politicamente corretto” che, di fatto, altro non è se non il cavallo di Troia del relativismo morale dominante.
Succede, cioè, non solo che si determini questa fatale sovrapposizione tra poteri che dovrebbero essere separati ed indipendenti, ma che la pubblica opinione, la gente comune o meglio il popolo “sovrano” venga privato della facoltà di affrontare in proprio, neppure attraverso gli organi della propria rappresentanza parlamentare, questioni che lo toccano così, da vicino. Quando gli argomenti in gioco hanno una forte valenza di ordine etico, viene quasi spontaneo chiedersi: dove stiano i parlamentari cattolici?
Ammesso che si tratti di una categoria che, almeno ipoteticamente, ancora sussista o comunque di un insieme che pur dovrebbe riconoscersi come tale, quasi d’istinto e al di là delle diverse appartenenze, se ognuno dei possibili soggetti di tale “raggruppamento” avvertisse l’urgenza di convergere in un’azione comune, in nome di valori ed orientamenti che precedono la contingente collocazione politico-partitica. In effetti, nulla di simile si è mai verificato. Peraltro, c’è da osservare che, trattandosi di ripristinare la necessaria distinzione tra i poteri propri di uno Stato di diritto, la questione, ben oltre i cattolici, meriterebbe una reazione da parte dei parlamentari come tali, di ogni parte politica. I parlamentari cattolici, per tornare a loro, salve qualche rara eccezione,  “non pervengono”.
Se, almeno una volta, dalla sinistra alla destra e viceversa, li avessimo visti impegnati in una comune assunzione di responsabilità, a costo di andare un passo oltre e perfino contraddire, in nome di un principio superiore, l’appartenenza di ciascuno, potremmo ritenere che la visione cristiana che li accomuna sia, in qualche misura, sopravvissuta e possa dar conto di sé. Ma non è così.
L’ispirazione cristiana che pur vive nella libera, personale coscienza di molti non riesce ad emergere, in una dimensione collegiale, non per la cattiva volontà dei singoli, ma per una ragione strutturale di fondo. Ne consegue che l’ autonomia politica dei cattolici che rivendichiamo non è un’opzione soggettiva, ma piuttosto la necessaria, oggettiva condizione da ristabilire.
I partiti politici,  e i rispettivi gruppi parlamentari che non reagiscono all’invasione di campo dei magistrati, rendono plasticamente l’idea della difficoltà in cui versa, su temi di questo spessore, un apparato funzionale alla propaganda piuttosto che all’elaborazione concettuale. Da una parte, vi sono forze che sembrano preferire che siano i magistrati a fare il “lavoro sporco”, dall’altra forze che temono di assumere posizioni che non concorrerebbero a rimpinguare il loro patrimonio elettorale.
Domenico Galbiati

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