“Non siamo all’economia di guerra, ma bisogna prepararsi” ha detto il Presidente Draghi nella conferenza stampa dopo il vertice dei capi di Stato e di governo europei.

Ecco finalmente una precisazione opportuna e doverosa in un momento difficile  che taglia corto dopo le accentuazioni dei soliti titoloni. Il ricordo è andato subito al tempo lontano dell’università, quando tra le materie di studio vi era anche quella sull’economia di guerra. Testi ormai spariti, o limitati alle ricerche accademiche, che trattavano l’adeguamento del sistema economico alle necessità imposte dagli eventi bellici. La materia riguardava gli aspetti di politica economica e finanziaria in conseguenza delle carenze di materie prime, di energia, di utilizzo delle risorse fino all’uso degli edifici e al razionamento. L’aumento del debito pubblico era dato per scontato così come lo spettro dell’inflazione che, in tempo di guerra, si manifesta nella sua forma più brutale: il mercato nero.

Ecco perché Draghi ha fatto bene a precisare che non siamo a questo punto anche se è necessario rivedere i programmi di governo.

D’altra parte è sotto gli occhi di tutti ciò che sta avvenendo. L’aumento del costo della vita non si ferma; le imprese incontrano sempre maggiori difficoltà ad acquistare materie prime; il costo dell’energia è alle stelle e i blocchi nelle filiere di approvvigionamenti e dei trasporti cominciano a farsi sentire.

Non siamo in una economia di sopravvivenza, insomma, ma nel breve volgere di due settimane dalla feroce aggressione russa all’Ucraina è già cambiato il mondo

Sono ancora tanti coloro che ricordano la crisi petrolifera del 1973 quando i Paesi produttori di petrolio tagliarono le produzioni imponendo l’embargo all’occidente e il prezzo del barile aumentò di colpo del settanta per cento.

Le domeniche a piedi, le targhe alterne nei giorni feriali, il taglio della pubblica illuminazione, la chiusura anticipata di negozi, locali pubblici uffici, la sospensione serale dei programmi televisivi: tutto questo era poco meno che folklore rispetto a quanto ne seguì. Una recessione lunga e profonda, la disoccupazione, l’aumento del debito pubblico, cinque anni di inflazione con tassi oltre il venti per cento. Successe allora quello che gli economisti definiscono con una parola sgraziata: stagflazione, cioè recessione economica e aumento dei prezzi nello stesso tempo.

Oggi non siamo certo in recessione, anche se il forte balzo dell’ultimo anno è in calo e l’inflazione si manifesta entro limiti ancora controllabili dalle autorità monetarie. Ma i costi delle risorse energetiche sono letteralmente esplosi, quello del gas è quadruplicato e il petrolio è oltre i cento dollari al barile. Alcune materie prime non sono facilmente reperibili sul mercato, come il nichel tanto per citarne una, ed altre di uso più diffuso come l’acciaio registrano aumenti considerevoli. Anche il prezzo del grano e di tante derrate agricole è in tensione sia per i minori volumi sui mercati che per i costi di trasporto. E così per la chimica, per l’edilizia, per i servizi. C’è poi la caduta delle vendite e basta citare l’automobile e altri beni durevoli per avere una idea di quanto stia accadendo. Per non parlare delle vendite al dettaglio. Quanto ai mercati finanziari, gli operatori sembrano scontare che in qualsiasi momento la guerra alle porte di casa potrebbe degenerare in misura che fa paura solo immaginare.

La frenata c’è già, rischia di essere brusca e il sentimento diffuso è quello di un equilibrio che si è rotto, non ancora nella vita quotidiana di ognuno ma certamente nei modelli di riferimento del mondo che viviamo. E soprattutto nel grande quadro geopolitico nel quale siamo inseriti senza intravedere almeno per ora quali saranno le nuove stabilità, la “frontiera come metafora di un mondo alternativo in continuo divenire” come scrive Antonio Spadaro nel suo ultimo libro sulle parole per immaginare il futuro.

L’unico confortante riferimento è un ritrovato sentimento comune nei confronti dell’Europa che ha spazzato via in un solo colpo quel marasma di impulsi sovranisti che inquinava la politica italiana. Forse più che convinzioni erano le convenienze elettorali ad alimentarli. Così esposti al rischio, ora viene il tempo della concretezza.

Guido Puccio

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