È un cattivo giornalismo quello che piega i fatti alle proprie teorie. Il rischio è sempre presente, tanto più in tempo di bilanci. Cadere in questo errore è addirittura inevitabile quando si tenta di interpretare fatti, circostanze, dinamiche presenti in angoli del pianeta spesso lontanissimi e molto diversi fra loro. Vanno colti segnali, semmai.
Nel corso del 2019 ce ne sono stati diversi. Per esempio è curioso osservare come l’anno si sia aperto (8 gennaio) con Donald Trump che chiede al Congresso più soldi per costruire il muro con il Messico e si sia chiuso (19 dicembre) con il voto favorevole della Camera dei rappresentanti alla messa in stato di accusa del presidente degli Stati Uniti. Intendiamoci, il percorso è tutt’altro che lineare. E non solo perché sull’impeachment deve ancora votare il Senato a maggioranza repubblicana. La verità è che non c’è una partenza e non c’è un arrivo. C’è, appunto, solo un segnale. Inquietante, da qualsiasi parte lo si voglia vedere.
È un mondo difficile, si sa. Ma ora rischia di essere un mondo sempre più diviso. E le numerose consultazioni elettorali (una cinquantina) che si sono tenute nel mondo quest’anno lo hanno certificato. Il discorso di Trump dell’8 gennaio, sebbene certo non inaspettato, è un po’ il prologo di questa breve storia lunga 12 mesi. Da tre settimane, si ricorda, il governo federale era nel secondo shutdown più lungo verificatosi negli Stati Uniti: diverse attività governative erano state sospese, perché la Camera dei rappresentanti non aveva approvato il bilancio nel quale Trump aveva appunto inserito lo stanziamento di fondi per la costruzione del muro. Dal Messico, disse l’8 gennaio il capo della Casa Bianca nel suo primo discorso alla nazione, entrano i tanti immigrati illegali colpevoli di «efferati omicidi a sangue freddo» ai danni di cittadini americani. La barriera doveva servire appunto ad affrontare questa grande “emergenza sicurezza”. Le spese per la sua costruzione avrebbero potuto essere coperte con la rinegoziazione degli accordi commerciali con il Canada e lo stesso Messico (poi effettivamente portata a termine qualche settimana fa).
La nuova politica di Washington ha come liberato tensioni che anche altrove erano ben presenti, in primo luogo in Europa. I primi mesi del 2019 sono stati infatti caratterizzati dai “porti chiusi” e dalla drammatica presa di coscienza di come l’Europa si sia dotata di istituzioni comuni ma non di responsabilità realmente condivise. All’immigrazione ispanica che tanto preoccupa Trump, si è sovrapposta, nel vecchio continente, quella nordafricana o proveniente dai paesi teatro di conflitti armati. Così, ad aprile, poco prima che l’Europa si scoprisse ferita dall’incendio della cattedrale di Notre Dame, considerato uno dei grandi simboli della cultura cristiana continentale, la nave Alan Kurdi con 60 profughi a bordo è costretta a rimanere in mare per 10 giorni, in attesa che, dopo il rifiuto dell’Italia, Germania, Francia, Lussemburgo e Portogallo aprano finalmente le loro porte. Ma le navi hanno continuato tutto l’anno a solcare le onde con il loro carico di disperati. E il Mediterraneo è diventato un cimitero.
La propaganda antimmigrati si è saldata in maniera naturale con quella che fa leva sull’odio religioso. E siccome, ancor più nell’era di internet, tutto il mondo è paese, a Christchurch, nella lontana Nuova Zelanda, il 15 marzo, un giovane ispirato dai deliri del “primatismo bianco” ha messo in scena una tragica sequenza da videogioco, filmandosi mentre faceva irruzione in tre moschee uccidendo in totale 50 persone. E poco più di un mese dopo, il 21 aprile, in risposta, una serie di attentati contro i cristiani nello Sri Lanka hanno provocato 259 morti (la persecuzione dei cristiani è per altro una delle grandi tragedie trascurate dall’informazione internazionale). Non si sa cosa possa aver fermentato nella mente dell’attentatore di Christchurch ma la sensazione diffusa è che nel mondo occidentale si sia assistito, in particolare quest’anno, a una sorta di sdoganamento dell’odio: il rispetto è diventato buonismo, il politicamente corretto ipocrisia, il luogo comune vera saggezza.
Il muro è la rappresentazione fisica della differenza. Fra chi è dentro e chi è fuori, fra un “noi” e un “loro”. Fra la ricchezza e la povertà. In Algeria ne hanno avuto abbastanza, di stare fuori. E il 2 aprile, dopo settimane di proteste cominciate a febbraio contro la quinta rielezione di Abdelaziz Bouteflika, il capo dello stato, malato e da tempo assente dagli eventi pubblici, si è dimesso. Gli algerini protestavano, e continuano a protestare, contro la povertà nel paese e i privilegi di cui, a loro parere, godono i membri dell’establishment. Non si sono fermati e chiedono riforme reali.
In Sudan la situazione non è più serena che ad Algeri. L’11 aprile, dopo settimane di proteste e sit in permanenti, il presidente Omar al Bashir è stato deposto dall’esercito. Anche qui però la popolazione non si è accontentata della mera rimozione di una persona ma ha chiesto riforme radicali e un governo civile, che non sia espressione delle forze armate. Qualche mese dopo, in ottobre, saranno i cittadini di altri tre paesi a scendere in piazza, spinti da condizioni di vita insoddisfacenti. Il 14 ottobre sarà la volta del Cile, dove la popolazione protesta contro l’aumento dei prezzi (a partire da quelli dei trasporti) e la corruzione diffusa. Il 17 farà sentire la sua voce il Libano, per una crisi economica che a dire dei manifestanti non è affrontata con la necessaria competenza. Quattro giorni dopo toccherà alla Bolivia, dove la rivolta si concentrerà contro la rielezione del presidente indio Evo Morales, considerata illegittima dai manifestanti. A giugno invece inizierà la protesta dei giovani di Hong Kong, che più avanti si intensificherà diventando una rivolta generalizzata contro il ritorno della piena autorità della Cina. Non si può dire che tutti questi movimenti trovino genesi e obiettivi solo negli strati più disagiati delle popolazioni (la strumentalizzazione politica ha sempre un grande ruolo). Tuttavia i segnali di malessere sono reali così come la percezione che nell’era di internet tutto possa diventare di colpo molto fluido e molto potente, nel bene come nel male. Pensare di poter fare sempre argine potrebbe essere un’illusione.
Il 2019 del resto è anche l’anno della “grande arroganza”, dell’egoismo assurto a dottrina. Della politica internazionale che ha rinunciato al multilateralismo a favore della trattativa “uno a uno” condotta con i tempi e le strategie del mercante più che dello statista. Un metodo che ha toccato un po’ tutti i grandi temi della politica globale, non escluso quello legato all’emergenza climatica. Il viso imbronciato di Greta Thunberg ci ha accompagnato tutti i giorni. Ci ha accusato di non prenderci abbastanza cura del pianeta, di rubare il futuro alle nuove generazioni. Ci ha esortato a smetterla con le parole vuote. La risposta del mondo adulto è stata emblematica: Greta ovunque e sempre, arrabbiata o sorridente, perplessa o commossa. Greta protagonista assoluta delle vignette dei social, usata per ogni evento, con un taglio grottesco che indugia a mani basse nell’ironia feroce di chi tende a rappresentarla come una sorta di insopportabile iettatrice. Creata e data in pasto. Masticata, ruminata. Ma non ascoltata. Il 20 agosto, a un anno dall’inizio della sua protesta solitaria, Greta è partita per un giro del mondo ideato per sensibilizzare le coscienze di tutti al tema ambientale. Più che altro si parla e si polemizza sulla sua scelta di usare mezzi di trasporto inquinanti, per dimostrare che tanto siamo tutti uguali e che no, non vogliamo ascoltare lezioni da nessuno. Lo stesso 20 agosto però un rapporto choc dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali brasiliano ha fornito dati allarmanti sugli incendi in Amazzonia, che avrebbero subito un’accelerazione impressionante negli ultimi mesi (con un aumento dell’83 per cento rispetto all’anno precedente). Il presidente Bolsonaro ha smentito i risultati di questo rapporto e all’omologo francese Macron che lo aveva criticato per la gestione dell’emergenza, ha risposto con attacchi personali che hanno riguardato l’età della first lady francese.
Mentre gli italiani erano ancora al mare (ed enti scientifici e organizzazioni ambientaliste ci ricordavano che a causa dei rifiuti ingeriti dai pesci e da altri animali ogni mese mangiamo una quantità di plastica pari a quella contenuta in una carta di credito), il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sempre il 20 agosto, ha dato le dimissioni, a seguito di insanabili contrasti verificatisi nella maggioranza parlamentare che sosteneva l’esecutivo (Lega e Movimento 5 Stelle). E il secondo governo Conte, nato grazie all’accordo fra lo stesso Movimento 5 Stelle e il Partito democratico, si è trovato subito a dover affrontare la difficile partita della manovra economica e le diverse impegnative crisi internazionali. Fra queste, la situazione militare in Libia, dove dal 4 aprile è in corso l’offensiva del generale Khalifa Haftar, determinato a conquistare Tripoli, dove risiede il governo guidato da Fayez al Sarraj. La situazione è ora complicata dalle ipotesi di un intervento turco a fianco di quest’ultimo. Ankara per altro è reduce da un altro intervento che per qualche giorno ha allertato, ma non troppo, le cancellerie mondiali: quello compiuto in Siria a partire dal 9 ottobre, volto a creare a ridosso del suo confine una fascia di sicurezza entro la quale i curdi non possono entrare. L’intervento turco è stato tollerato dagli Stati Uniti e anche dalla Russia. La comunità internazionale ha fatto reiterati appelli a cessare immediatamente le operazioni militari. L’Europa, nel suo insieme, non ha dato grande prova di determinazione. Così come in Afghanistan e nello Yemen, dove si è continuato a morire tutti i giorni, nel 2019, nel silenzio generale. Nello Yemen, in particolare, i bambini sono le grandi vittime di una guerra alimentata dalle armi vendute dall’Occidente.
Il 12 dicembre, giorno delle elezioni in Gran Bretagna, con la vittoria di Boris Johnson che sembra rendere più vicina alla conclusione la lunga vicenda della Brexit, in Italia si è commemorata, a mezzo secolo di distanza, la strage di Piazza Fontana. L’attentato in cui a Milano morirono 17 persone viene comunemente considerato l’inizio della cosidetta strategia della tensione che innescò una terribile escalation di violenza. Secondo alcuni la vicenda fu segnata anche dai depistaggi da parte di settori deviati dello stato. Un segnale: la “fine dell’innocenza” delle istituzioni. Era un’altra epoca. Le ombre rimangono e la verità, forse, non è di questo mondo. Ma, sarà pure una suggestione, il sospetto che anche nel 2019 siamo stati tutti, se non colpevoli, un po’ meno innocenti, c’è.
Marco Bellizzi
Pubblicato su L’Osservatore Romano il 30 dicembre 2019 ( CLICCA QUI )