Il 25 aprile, ricorrenza della insurrezione nazionale e della vittoria della Resistenza italiana contro il nazifascismo, è sicuramente quest’anno un’occasione non solo per fare memoria ma anche per mettere a punto una riflessione su un dibattito pubblico, che, sviluppatosi in relazione alla resistenza ucraina all’invasione russa, ha suscitato polemiche intorno al pacifismo e alle posizioni assunte dall’ ANPI, peraltro in un momento in cui l’aggressione all’Ucraina sembra riportarci” alle pagine più buie  dell’imperialismo e del colonialismo”, come ha denunciato il capo dello Stato, Sergio Mattarella.  Quale connessione può esservi tra pacifismo e Resistenza?  L’articolo di Domenico Galbiati su “ La Resistenza, l’ Ucraina,  la vita e la vera ricerca della libertà e della pace” (CLICCA QUI) suggerisce osservazioni sul rapporto tra il valore della vita e quello della libertà (con la priorità, tutt’altro che retorica,  del valore della libertà sul valore della vita, priorità oggi annebbiata, ma un tempo chiarissima “come sa chi per lei vita rifiuta” –Purgatorio I, 71-72) e sulle differenze tra pacifismo e ricerca della pace più che condivisibili, cui mi permetterei però di aggiungerne altre, volte soprattutto a focalizzare il concetto di Resistenza, nonché il suo rapporto col concetto, tutt’altro che univoco, di pace.

Pacifismo e lotta per la pace non sono la medesima cosa. Un punto fermo ed essenziale questo. Ovviamente i meriti del pacifismo come movimento di massa, dal XIX secolo ad oggi, non sono in discussione, ma il pacifismo, anche quando si è mosso non in modo apolitico, semplicemente attraverso il rifiuto individuale di usare le armi, ma organizzando azioni collettive volte ad impedire le guerre, ha operato purtroppo in modo inadeguato, più per rimozione delle cause che per costruzione di relazioni ( ” La pace: costruzione positiva e ordine delle cose, U. Baldocchi CLICCA QUI). A dispetto del termine, il “pacifismo” storicamente ha cercato più che di ricercare la pace, di impedire le guerre.  E impedire le guerre (o la guerra) non equivale affatto a costruire la pace. Un punto su cui è necessario insistere.  Se causa della guerra è ad es. il capitalismo (ed il commercio delle armi) il pacifismo si opporrà alle guerre volute dal capitalismo , alle guerre imperialistiche, ma non considererà una guerra da evitare quella che potrebbe portare alla distruzione del capitalismo medesimo. Dallo sciopero generale contro la guerra si potrà così passare alla trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile ed alla accettazione della guerra. Queste ambiguità del pacifismo valgono anche se si ritiene che la guerra sia scatenata dai regimi autoritari o dittatoriali ( le democrazie non fanno le guerre tra loro!): si potrà sempre ritenere accettabile una guerra contro gli Stati autoritari. E le ambiguità ci sono anche se si ritiene che il libero mercato o magari la globalizzazione economica siano il toccasana per avere la pace.

E qui veniamo alla Resistenza. Si possono mettere insieme Resistenza e lotta per la pace, anche se non Resistenza e pacifismo?   La Resistenza, vale a dire la opposizione armata fatta, in una guerra asimmetrica,  contro un potere decisamente più potente, come era la opposizione armata degli Italiani  al nazifascismo, e come è in parte anche l’opposizione fatta dall’  Ucraina ( in questo caso si tratta però soprattutto una guerra di indipendenza nazionale)  che connessioni ha con la pace? Si può affermare che la Resistenza è stata anche “lotta la pace”?

Può sembrare strano. Ma se prendiamo due documenti della Resistenza italiana ai suoi inizi, non è possibile alcun dubbio, possiamo notare che un obiettivo esplicito della guerra di Resistenza- forse il principale-  in questi due documenti-proclama è proprio costruire la pace, assieme all’altro di salvaguardare la dignità della persona umana .

“….Liberate l’ Italia dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università  la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo” (Appello agli studenti dell’ Università di Padova,  del comunista Concetto Marchesi  28 novembre 1943). “ Ora, in nome dello spirito, del pensiero, della persona umana  L’Università italiana , nel suo vetusto e glorioso Ateneo, ha nobilmente  riaffermato la sua volontà di lotta  contro il nazifascismo” Studenti in piedi !  Il popolo Roma,  31 dicembre 1943

La resistenza armata al nazifascismo è dunque contemporaneamente anche lotta che ha la pace come obiettivo finale, insieme alla giustizia. Le due cose, Resistenza e pace,  non si contraddicono. La Resistenza non è semplicemente la lotta per distruggere un nemico. Essa   nasce non dall’odio fanatico, non dal nazionalismo scatenato, non da una volontà di vendetta, né da un bisogno di autodifesa, ma semplicemente  dal senso del dovere morale, da un profondo amore per la giustizia. All’inizio della Resistenza vi fu proprio questa riscoperta “sorprendente” del dovere morale, dopo gli anni di corruzione e immoralità del fascismo. Ha scritto Claudio Pavone nel suo saggio sulla moralità nella Resistenza, in riferimento a quegli anni:  “Diffusa è la convinzione che la politica  costituisca un dovere. Era come se, ritrattasi dallo stato che aveva fallito, la morale cercasse nella politica la strada per riqualificare  la propria dimensione pubblica” ( C. Pavone Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1994, p. 517). Ed una lotta fondata su una  intrinseca moralità non può che progettare una realtà fondata sulla dignità umana e sulla umanità delle relazioni, quella cioè  che contraddistingue la pace e che  segna la dimensione umana del vivere insieme.

Non può allora questa lotta che essere guidata da un’etica peculiare, che non ha molto in comune con l’etica del terrorista o del rivoluzionario. L’etica del “resistente” è un’etica che rifiuta la guerra assoluta , un’etica che non può essere un’ etica fanatica della convinzione. Fiat justitia pereat mundus, non valgono in questo caso. Il “resistente” non si affida mai a categorie astratte che considerano la dinamica della storia mossa da forze impersonali e inarrestabili.  Non è animato da una fede cieca e disincarnata  che lo distanzia dal resto del mondo e fa di lui un “lupo solitario”, alterandone  persino l’identità.

Se alla base della scelta resistenziale c’è infatti un senso del dovere, l’etica del resistente non può essere che quella della responsabilità. Il resistente deve sempre render conto di ciò che fa.  In alcune lettere dei condannati a morte della resistenza italiana il resistente chiede scusa ai parenti di aver amato più la patria che i propri cari. Altre volte il senso del dovere è così radicato che non sembra ci sia né eroismo né coraggio in ciò che pare naturale  e  doveroso come il nascondere un ebreo mettendo a rischio la propria vita. “Abbiamo fatto ciò che dovevamo”, mi confidò anni fa, rispondendo  ad una mia ingenua domanda,  uno straordinario sacerdote, che faceva parte del gruppo di sacerdoti che aveva assistito e sostenuto la popolazione e i resistenti lucchesi durante la guerra, Don Sirio Niccolai, parroco di Paganico ( Lucca).

E se vi è un’etica della responsabilità, allora ogni lotta di questo tipo  possiede principi interni di autolimitazione che impediscono alla Resistenza  di procedere senza tener conto degli effetti immediati e indiretti delle proprie scelte, anche laddove scegliere talvolta è difficilissimo. E soprattutto gli impongono di agire in modo da non compromettere il risultato  finale ( la pace in senso vero e profondo) . E gli impongono di pensare  che  la vera vittoria finale non può mai essere un Diktat imposto all’altra parte, persino all’aggressore, ma  consiste nel progetto di convivenza fra i  popoli e fra le persone,  non nel procurare posizioni di forza per dominare o prevaricare su altri.  La logica della guerra assoluta non può appartenere a chi lotta per la libertà e per la giustizia. Il buon senso ci dice  che i dittatori, gli autocrati, i signori della guerra, che appaiono fortissimi e intoccabili passano , mentre  invece i popoli restano . E dalle relazioni tra i popoli, non dalla difesa contro i tiranni, che pure è necessaria, discende la pace duratura.

La pace europea, dal 1945 ad oggi, non è stata il frutto spontaneo della costruzione europea, come  superficialmente si afferma. Essa è stata il frutto delle scelte lungimiranti degli uomini ai vertici delle istituzioni europee.   Ci sono molti nomi che si potrebbero fare, ed alcune date. Due in particolare  sono stati  i momenti storici in cui si iniziarono davvero a costruire relazioni di pace in Europa.  Furono il 1950 e il 1975. Da quelle date dettero inizio a due periodi ( molto brevi purtroppo) di straordinario progresso, umano, sociale, economico, che durò fino al ritorno della guerra, in qualche modo “legittimata” dall’ ONU ( 1990 Iraq). I due nomi che, senza nulla togliere d altri, possiamo fare sono quelli di Robert Schuman, l’autore della Dichiarazione del 9 maggio 1950, da cui nacque la CECA e quello di Aldo Moro, il protagonista dimenticato che fu firmatario, anche come presidente della CEE, dell’Atto finale di Helsinki del 1975, che rese possibile il crollo pacifico del sistema di Jalta e del comunismo, ma non ebbe continuatori. Di un po’ di questa saggezza oggi tutti abbiamo bisogno. Lì erano anche le premesse di quella pace solida e vera per cui si erano battuti gli uomini della Resistenza. Far rivivere questa pace è oggi continuare il 25 aprile.

Umberto Baldocchi

About Author