Passati due mesi dall’inizio dell’epidemia in Italia e ancora immersi nella forzata quarantena domestica (che ha già superato i 40 giorni racchiusi nel nome), siamo tutti preoccupati per il futuro. Non ci aiutano le parole degli esperti, spesso dissonanti tra loro ma abbastanza univoche nel prospettare – ancora non esaurita la prima ondata – possibili riprese della pandemia e soluzioni nebulose e lontane nel tempo. Non ci aiutano le parole della classe dirigente del Paese, politica ed economica, comprensibilmente in affanno di fronte a una situazione di crisi mai presentatasi prima, e nella quale molti ragionano con il solito, miope, metro del proprio tornaconto.

Sarebbe poi impietoso riprendere recenti e contraddittorie affermazioni dei patetici teatranti della politica-spettacolo (Salvini e Renzi su tutti), disperatamente alla ricerca di uno spazio mediatico in tiggì e notiziari tutti assorbiti dagli aggiornamenti sull’emergenza sanitaria. Ma sarebbe tempo sprecato, anche perché si ha l’impressione che gli italiani stessi stiano sempre più maturando gli anticorpi contro imbonitori e demagoghi, una “immunità di gregge” acquisita – lentamente, di delusione in delusione – nei decenni della Seconda Repubblica.

Lasciamo quindi perdere la politica politicante e teniamo anche in disparte, per questa volta, la buona Politica e le prospettive dell’economia e dell’Europa, i temi su cui maggiormente – anche nel nostro piccolo – sono puntate attenzioni e preoccupazioni. Vorrei invece riflettere su due aspetti “antropolologici”, che sento ancor più importanti – direi essenziali – in quanto partono dalla “persona”, che la nostra cultura mette al centro della società, in una dimensione non individualista ma di relazione sociale, familiare e comunitaria.

I decessi per Covid-19 sono arrivati a circa 25.000 in Italia e a fine settimana supereranno i 200.000 nel mondo. Numeri che colpiscono. Ma soprattutto non si può tacere l’angoscia che deriva dal pensare a queste decine di migliaia di persone, più o meno anziane, morte in solitudine, senza il conforto di un figlio, una sorella, un fratello, una nipote che li vegliasse nei giorni della terapia intensiva, che stringesse loro la mano nel momento del trapasso. Senza una carezza, un ultimo bacio, senza poter rivolgere lo sguardo a un volto amato prima di chiudere gli occhi per sempre.

Ma è per i famigliari che si è creata una situazione del tutto nuova, innaturale e angosciante: l’impossibilità di con-patire, di riunirsi per elaborare insieme il lutto, pratica ancestrale di ogni cultura – non solo quella cristiana – mirata a superare collettivamente il momento peggiore dell’esistenza (per chi rimane… ). Il coronavirus ci ha messi di fronte ad una morte che impedisce la presenza e l’abbraccio della “comunità di affetti” che chi se n’è andato aveva realizzato nel corso della sua esistenza.
I camion militari carichi di bare incolonnati verso il cimitero di Bergamo e le sepolture in fosse comuni nell’isola del Bronx a New York – realtà lontane accomunate dall’innaturale assenza di persone, se non gli autisti e gli addetti agli escavatori – rimarranno tra le immagini peggiori di questa tragedia, il cui il più crudele aspetto è proprio la morte in solitudine, l’impossibilità di riunire la comunità di affetti.

Difficile ipotizzare ora se e come cambierà il modo di rapportarsi alla morte. Ma certamente da questa dolorosa esperienza la società contemporanea non uscirà identica a prima.

Vi è poi un secondo aspetto che potrebbe mettere in crisi la nostra concezione di umanesimo cristiano.

Sappiamo che il dominante liberismo economico affermatosi nella società globalizzata ha eretto a modello l’individualismo esasperato, con protagonista “l’Homo aeconomicus tutto teso a soddisfare le proprie esigenze, il cui egoismo tuttavia tramite il mercato si risolverebbe a favore della società” (Giuseppe Ladetto), messo “nella condizione di soddisfare indisturbato i propri appetiti, liberandolo dai limiti posti dalla natura, dalla tradizione, e da tutte le relazioni non strettamente scelte” (Domenico Accorinti). Insomma, questo moderno superuomo, trionfante epigono dell’Homo homini lupus di hobbesiana memoria, dovrebbe aver ricevuto un colpo ferale dal microscopico virus che ha messo a nudo a livello planetario la sua vulnerabilità, e che costringe tutti a interrogarsi sui limiti e le storture – etiche, ambientali, sociali – di un modello di economia e sviluppo, quello liberista, che Stefano Zamagni ha indicato apertamente come “il nemico numero uno”. Un modello non da aggiustare, da riformare, ma da “tras-formare” radicalmente, come spiega lo stesso economista nel Manifesto di cui si è fatto primo promotore. Una trasformazione non poi così tanto diversa da una rivoluzione…

Proprio la Rivoluzione francese aveva segnato la nascita di un nuovo mondo caratterizzato da liberté, égalité, fraternité. I primi due ideali, assolutizzati e portati a compimento, hanno mostrato i loro limiti. Con la caduta del Muro di Berlino si è spalancato agli occhi del mondo il fallimento dell’egualitarismo marxista. La crisi bancaria del 2008 prima, e la certa recessione dell’economia dovuta alla pandemia ora, sono la dimostrazione dell’insostenibilità del modello economico dominato dal turbocapitalismo finanziario, ultima evoluzione del liberismo selvaggio.

Ci rimane la fratellanza, il terzo ideale accantonato per secoli pur avendo antichissime e solide basi, dalla concezione aristotelica dell’individuo naturalmente sociale, lo zoon politikon, alle varie letture dell’Homo homini deus che progredisce “insieme” e non “contro” i suoi simili, dall’originale messaggio evangelico al Concilio Vaticano II.

È di grande suggestione la prospettiva di costruire un nuovo modello di società sulla fratellanza (e richiamo a proposito il bell’articolo di Minnetti). Ma come la si può praticare con il “distanziamento sociale”? Come si può essere solidali, dialoganti, attivi con e per gli altri se si è distanti, isolati?

La quarantena nelle proprie case abitua ancor più all’isolamento sociale, quello che si poteva praticare benissimo anche prima del coronavirus, anche abitando in un condominio di 600 persone, senza conoscere né i vicini di pianerottolo né la panettiera all’angolo. Il lungo (e non sappiamo ancora quanto lungo…) isolamento porterà per reazione a riscoprire la gioia dello stare insieme, della partecipazione, oppure non farà altro che favorire una ulteriore chiusura nel proprio particulare, preoccupati per il futuro e sordi a tutto ciò che esula dalle proprie necessità? Dopo tutto in tempi di crisi e di incertezza è persino comprensibile, se non giustificato, guardare a se stessi…

Poi, l’uso delle mascherine, il metro e passa di distanza, la scomparsa della stretta di mano, insomma tutto l’insieme del “distanziamento sociale”, non è che in ultima analisi finirà per determinare  un aumento della diffidenza verso il prossimo, terreno di coltura dellla destra?

Papa Francesco, in una delle sue ultime omelie, ha espresso proprio una preoccupazione originata da questi interrogativi: “Il rischio è che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente”, che si manifesta nel “dimenticare chi è rimasto indietro”.

Oltre che alla ripresa produttiva, dovremo guardare anche a come riprenderanno i rapporti sociali. Sperando che la pandemia non finisca per rivelarsi un prezioso alleato dell’individualismo egoista.

Alessandro Risso

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte

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