L’uscita del segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, di avviare un percorso che in qualche modo porti ad andare oltre questo partito, merita, a mio avviso, di esser presa in considerazione a due condizioni.

La prima, ovviamente è che non si tratti solo di un mero quanto effimero espediente tattico legato ai precari equilibri di governo e a campagne elettorali complicate, prima fra tutte quella per la Regione Emilia Romagna. La seconda condizione è che un tale orientamento del più grande partito del centrosinistra costringa tutto lo schieramento riformatore a fare i conti con la realtà, oltre le pur legittime, e forse in qualche misura addirittura opportune, manovre parlamentari che lo hanno riportato al governo.

E la realtà del Paese è quella data dagli indicatori economici e sociali e dai dati elettorali. Una lunga stagnazione economica, una inquietudine sociale profonda, diffusa e soprattutto maggioritaria, dovuta all’impoverimento della classe media, che arretra negli anni in modo forse non plateale ma in un modo impercettibile quanto però inesorabile.
Un tale scontento aveva determinato l’esito delle politiche del 2018, ma a ben vedere a questo stesso processo si deve attribuire anche il trionfo elettorale di Renzi alle elezioni europee del 2014 nonché il suo successivo ko al referendum costituzionale del 2016. Sulla base dei risultati del 2018 sono cambiate le formule di governo, ma quello che non è cambiato è il messaggio dato dall’elettorato. Una richiesta di forte discontinuità tale da generare effetti tangibili e in tempi non indefiniti sulla vita del cittadini.

Ebbene, se la proposta di Zingaretti avrà come conseguenza non l’ennesimo dibattito nominalistico sul cambio del nome e del simbolo (è dagli anni Novanta che gli eredi della Democrazia cristiana e del Partito comunista, pur per ragioni opposte, si cimentano in questo sterile esercizio, ma le culture politiche sempre quelle sono, il pensiero di Sturzo e quello di Gramsci tali e quali rimangono) ma avvierà una fase di dibattito franco sulle questioni fondamentali di questa fase storica, allora potrà ritenersi una proposta da valutare con la massima attenzione.

In tal caso vi sono ragioni per immaginare che il contributo dei cattolici democratici e popolari potrebbe essere decisivo, insieme a quello di pezzi delle altre culture riformiste che in questi anni non si sono piegati al totem del primato della moneta sulla persona e a quello del primato dell’economica virtuale, speculativa su quella reale delle famiglie, delle aziende e del settore pubblico. Se la fase che porterà al post-PD, al nuovo partito del centrosinistra, consentirà un reale confronto di posizioni su temi come la fine dell’austerità, la fine del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, un europeismo non di facciata ma la definizione di una posizione dell’Italia nell’Unione Europea che faccia da apripista per giungere a decisioni definitive e in tempi ravvicinati per lo stato federale europeo, allora potrà ritenersi un percorso degno di attenzione e capace di riattivare dei canali di comunicazione con quei mondi sociali, quegli interessi popolari che nel decennio appena trascorso paiono aver voltato le spalle al centrosinistra dopo che per decenni costituirono il serbatoio elettorale di DC e PCI.

Se, a differenza dello stanco e predeterminato processo – la fusione a freddo fra DS e Margherita – che portò alla nascita del PD, nel nuovo partito proposto da Zingaretti vi saranno le condizioni per una battaglia per affermare una netta discontinuità, una inversione di rotta a 180 gradi delle politiche economiche, monetarie, sociali che hanno portato il Paese al punto estremamente critico in cui si trova, allora si potranno realmente mobilitare nuove energie ed evitare che tutto ciò si riduca ad un espediente di sopravvivenza fra il gatto e la volpe, fra un PD in crisi di consensi e di idee e un Movimento 5 Stelle in disgregazione.

Giuseppe Davicino

Pubblicato da Popolare dell’Associazione i popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )

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