Esistono tre grandi correnti di pensiero politico che in Italia hanno trovato terreno fertile: quella d’ispirazione cristiana, quella liberale e il marxismo.
Le prime due non hanno un carattere organico. Il pensiero cristiano ha confluito nell’alveo della Dottrina sociale un numero ampio ed eterogeneo di affluenti, il liberalismo scaturisce da riflessioni di pensatori accomunati da ispirazioni simili ma anche molto diversi tra di loro, nonché da battaglie condotte ”in vivo” nel segno della libertà; il marxismo che pure privilegia la dualità di teoria e prassi è più sistematico e se è vero che non ne esiste una sola versione la dottrina presenta un’organicità sconosciuta alle altre due.
Del rapporto fra marxismo e cristianesimo si è detto e scritto molto, soprattutto qualche decennio fa (pensiamo all’opera di Maritain e agli esperimenti talora controversi della “teologia della liberazione”, la più politica certamente delle teologie). Meno esplorata è invece la relazione fra liberalismo e pensiero politico di ispirazione cristiana (uso questa formula per allargare il campo di indagine anche se il termine Dottrina sociale, seppur apparentemente focalizzato sulle questioni economiche sia già epistemologicamente significativo).
Chi volesse approfondire la conoscenza del liberalismo può avvalersi di intere librerie; io suggerirei un ottimo compendio di quella dottrina politica, Il Liberalismo in un mondo in trasformazione di Nicola Matteucci (Il Mulino) dove si rimarca il fatto che un tratto caratterizzante del pensiero liberale è il realismo (“…il momento del potere e della forza è ineliminabile dalle società umane… dunque il potere può essere diviso o limitato… alla violenza si deve contrapporre un’autorità legittima e responsabile”, pag. 46). Ma il realismo non è anche appannaggio, quasi a livello genetico, del pensiero cristiano?
Sturzo poneva al centro dell’azione politica e dello Stato la persona considerata nella sua “finalità” naturale e insieme soprannaturale. Due dimensioni distinte ma, come annotava Giuseppe Lazzati (il “beato” rettore dell’Università cattolica) mai separate nell’ambito dell’unità della persona.
L’apertura al soprannaturale, che discende dall’“attualità” della redenzione, non significa certo che l’uomo sia simile a un angelo: non abbiamo raggiunto la perfezione, siamo “già” salvati ma prigionieri del “non ancora”. Con tutti i nostri limiti naturali, le nostre imperfezioni, il peso dei nostri peccati. La dimensione spirituale è una specie di terminus ad quem: vivere coerentemente con la salvezza non può che tradursi in una ricerca incessante del miglioramento personale ma anche collettivo nella consapevolezza dei nostri limiti creaturali; la natura umana è costantemente messa in tensione con la promessa, soprannaturale, di redenzione, il cristiano vive ogni istante in questo dramma dialettico, in qualità di individuo o membro di una società. Come se Dio ci ripetesse: ti ho redento, ho abbattuto a prezzo del mio sangue la distanza esistenziale fra l’assoluto e il relativo, adesso spetta a te, creatura, il compito di vivere coerentemente con quest’orizzonte di senso che ho spalancato di fronte al tuo sguardo: nella dimensione individuale e collettiva. È proprio all’interno dello spazio sociale che questa battaglia per superare il limite della natura trova il suo compimento più specifico: la famosa frase mille volte citata, “la politica è la forma più alta di carità”, appare la sintesi migliore di questa antropologia cristiana.
Proprio la consapevolezza della nostra imperfezione esistenziale è il fondamento del realismo cristiano. Non è possibile sognare il paradiso sulla terra. Dobbiamo lavorare incessantemente e disperatamente per migliorare noi stessi, la società e il mondo che ci circonda: adeguarci alla volontà di un Dio (non mi piace il termine abusato il “progetto” di Dio, progetto è parola che presuppone una sequenza temporale, Dio è oltre il tempo e lo spazio, in questo consiste la sua alterità totale) che rispetta la nostra libertà. Dobbiamo interrogarci sul significato profondo del termine libertà. Che cosa intendiamo con questa parola, libertà? Il monoteismo veterotestamentario è essenzialmente anti idolatrico, ci invitano infatti le Scritture a evitare il rispetto immotivato verso gli idoli costruiti da mano d’uomo che “hanno bocca e non parlano orecchi e non odono”. Costruire un idolo con le proprie mani o prostrarsi di fronte a un feticcio che altri ci suggeriscono di adorare equivale a una comoda e facile rassicurazione: restiamo in compagnia dei nostri pregiudizi senza correre il rischio di rivedere la nostra vita e rinunciamo pigramente al rischio della libertà , la servitù è in fondo una condizione confortevole. Il senso profondo della libertà “dei figli di Dio” (Rm 8,21), la libertà giudeo-cristiana, ha essenzialmente il significato di un affrancamento dalle costrizioni idolatriche e da ogni “rispetto immotivato”: quegli antichi nomadi e quei pastori che costituivano l’embrione di Israele avevano operato una spettacolare desacralizzazione del creato. Il sole e la luna non sono divinità, Dio esige il rispetto della persona e svincola gli uomini dall’obbligo del sacrificio umano, i re sono bene accolti soltanto se interpretano la volontà dell’Unico che deve essere ubbidito (la causa prima delle cose, colui che è) e non godono di quello status divino di cui si fregiavano i sovrani delle grandi potenze dell’epoca. Una visione laica , moderna, che sfocerà nell’idea sorprendente della separazione fra sfera civile e religiosa predicata da Gesù.
La dinamica della libertà, sia nella sfera individuale che sociale, non si risolve in una sorta di pratica anarchica o nel vagheggiamento fantasioso di una realtà che corrisponda più o meno ai nostri desideri o ai nostri capricci: questa non è vera libertà; occorre un confronto costante con la realtà di cui l’altro, il diverso sono parte integrante per determinare autentiche evoluzioni coerenti con il proprio sistema valoriale. La libertà è tale se si esercita nel segno della responsabilità. Il celebre detto “ama e fai quello che vuoi” è emblematico: fai quello che vuoi a patto di rispettare una precondizione pesantissima. Ama! E cioè ricerca e massimizza il bene comune a voler tradurre in chiave politica l’assioma agostiniano. L’altro spesso rappresenta un ostacolo e può assumere le sembianze di un nemico ma non possiamo fingere che non esista. Magari scopriremo che non ci resta come extrema ratio che combatterlo ma non possiamo eluderlo o delegittimarlo.
Questo mi pare sia il principio di realtà che caratterizza l’agire del cristiano nella sfera personale ma ancora di più in quella politica. E proprio in questo aspetto cruciale mi sembra che sia ravvisabile una convergenza con la tradizione liberale più autentica. Lo sforzo per determinare la curvatura della realtà nel senso auspicato e coerente con i valori che si intendono perseguire sia per il cristiano che per il liberale non può che seguire un percorso graduale. In qualche caso si renderà necessaria la contrapposizione frontale di fronte a un avversario interno (da cui la liceità della tutela mediante la forza dell’ordine pubblico) o esterno (e qui si apre la grande questione della guerra giusta).
Ma il confronto, lo sforzo inteso a persuadere l’avversario, la ricerca della mediazione, il negoziato che comporta qualche rinuncia, costituiscono la strada maestra: nella dimensione sociale la verità, e cioè il valore di una soluzione politica o economica che interessa la comunità, non discende da un principio astratto e assoluto ma deriva da una ricerca condivisa; occorre mirare alla massimizzazione del bene comune in una realtà collettiva che è plurale per sua natura: privilegiare una classe sociale ai danni di tutto il resto del corpo sociale o affidarsi agli uomini della provvidenza è fuorviante, equivale a una fuga dalla realtà oggettiva.
I buoni risultati, pur ridimensionati rispetto a quelli che possono essere i nostri obiettivi ideali, si raggiungono insieme. Insieme “per” la società nella sua interezza. In questo senso non credo che il populismo sia una sorta di popolarismo degradato: si tratta di due strutture mentali e politiche antitetiche; il primo prefigura una popolazione ridotta a folla soggiogata dalla comunicazione manipolativa di un capo (già nel 1895 Le Bon aveva saputo descrivere una simile dinamica) il secondo l’integrazione partecipativa e la dialettica fra tutte le componenti della società. Oltretutto il gradualismo che nasce dall’osservazione spassionata, priva di astrazioni utopiche, della realtà non solo colloca i cristiani e i liberali nel campo riformistico opposto a quello rivoluzionario (Bobbio considerava Riforma e Rivoluzione una dualità ermeneutica essenziale) ma li avvicina alla dottrina gandhiana della nonviolenza il cui fine ultimo è la “persuasione” dell’avversario.
Gene Sharp (The politics of noviolent action) sottolinea che le tecniche nonviolente – ne enumera ben 123 – non si devono limitare a quelle finalizzate al boicottaggio dell’avversario ma puntare, ove possibile, a fargli mutare o per lo meno a mitigare gli intendimenti ostili, esplorando un terreno comune, valorizzando ciò che unisce: e ricercando, quando non si riescano a sopprimere gli elementi di divergenza (ecco il realismo!) un onorevole compromesso che assicuri almeno una coesistenza pacifica.
Naturalmente occorre esercitare un grande discernimento. E cioè bisogna capire se la ricerca di un’intesa ad ogni costo non conduca al deterioramento dei propri valori e a un risultato impalpabile. Di fronte al male radicale non è possibile alcun compromesso.
È lo stesso principio di realtà che in queste situazioni impone, costi quel che costi, l’intransigenza. È sintomatica la stima che un liberale rivoluzionario come Gobetti aveva tributato a don Sturzo (dopo le critiche rivolte a figure come Toniolo, troppo suggestionato dalle forme sociali arcaiche, o Meda, troppo prudente e compromissorio): Gobetti non si lasciava imprigionare da quegli stessi dogmi nati in seno al liberalismo stesso come l’anticlericalismo di maniera e in questo senso si rivelava autenticamente liberale. “Il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione” aveva proclamato Sturzo nel 1919 al primo congresso del Partito popolare e questa affermazione era piaciuta moltissimo al giovane Gobetti che auspicava una società viva, aperta al confronto e se necessario al conflitto, ben lontana dalla staticità dell’Italietta giolittiana. Ma era calata una pietra tombale sulle libertà civili, e gli spiriti come Sturzo e Gobetti si ritrovavano uniti da una comune intransigenza contro quell’autobiografia della nazione che era il fascismo.
Ho qui tentato di tracciare le linee di un possibile studio delle relazioni (e delle differenze beninteso) fra cattolicesimo democratico e liberalismo. Sarà molto interessante indagare per esempio la duplice ispirazione dell’economia sociale di mercato instaurata in Germania nel dopoguerra, quell’ordoliberalismo scaturito dalle riflessioni della scuola di Friburgo che peraltro, e non da oggi, manifesta segni di stanchezza, rigidità eccessive, contraddizioni: ma forse proprio nella dottrina sociale si possono rinvenire gli antidoti per attualizzarne le motivazioni originali. È un tema dal respiro europeo che merita di sicuro ulteriori approfondimenti.
Andrea Griseri
Pubblicato su www.associazionepopolari.it