Donald Trump, come al solito, interpreta a modo suo le vicende che lo riguardano. Lo ha fatto anche nel caso dei risultati elettorali di ieri di una gran quantità di aree, da una costa all’altra degli Stati Uniti. Votazioni per governatorati, sindaci, ma anche altro come nel caso della California – una vera e propria America a sé stante – dove si decideva per ridisegnare i collegi elettorali che i repubblicani volevano avere per provare a guadagnare qualche posto in più al Congresso.
“Abbiamo perso perché non c’era il mio nome sulla scheda e per lo “shutdown” – la crisi finanziaria pubblica provocata dalla mancata approvazione di una consistente parte del Bilancio federale. Questa la sua dichiarazione consolatoria. In effetti, siamo oltre al quarantesimo giorno di impasse al Congresso dov’è bloccata l’attività governativa. Ma, in realtà, egli avrebbe dovuto candidarsi in decine di posti “coast to coast” per avere i voti dalla Florida, all’Ohio, al Michigan. Oltre che nelle quattro competizioni più cruciali che hanno segnato, in negativo, una verifica del suo primo anno di insediamento per la seconda volta alla Casa Bianca. E cioè la corsa a New York – altra America a sé stante – per la carica di Sindaco, nel New Jersey e in Virginia, per quella del Governatore dello Stato, e per la già citata California.
Per quanto riguarda lo “shutdown”, il Presidente guarda il dito e non la Luna. Perché l’elettorato statunitense – che ha partecipato al voto come non accadeva dal 1969 – periodo cruciale di crisi per le conseguenze della guerra nel Vietnam – non lo ha seguito nel suo muro contro muro verso i democratici. Innalzato per la sua determinazione a tagliare servizi sociali che anche i repubblicani vogliono in tanti stati, come nel caso di quelli previsti dalla cosiddetta “Obama care” che offre più copertura sanitaria ai ceti più deboli. La sua, quindi, è una sconfitta politica e sociale, al tempo stesso.
Così, nonostante i suoi appelli dal sapore xenofobo, a New York ha visto vincere, e subito al primo turno con oltre il 50%, quel Zohran Mamdani di origine Indiana, ma nato in Uganda, e musulmano, che egli subisce come fumo negli occhi per il suo deciso impegno sociale. L’inatteso candidato ufficiale dei democratici si è rivelato la carta vincente. Sia nei confronti del candidato repubblicano – Curtis Anthony Sliwa, rimasto fermo a poco più di un desolante 7% – sia del vecchio “establishment” democratico newyorchese. Rappresentato da Andrew Cuomo intestarditosi a candidarsi da indipendente dopo aver già perso le primarie contro il suo giovane avversario di partito che non si vergogna a definirsi socialdemocratico. Cuomo ha continuato a dire come egli rappresentasse l’unico in grado di sconfiggere Trump, ma gli hanno preferito un’autentica novità.
E questo della battaglia vincente contro gli apparati di potere – di entrambi i vecchi partiti – sembra costituire il filo rosso che lega e spiega tanti risultati di ieri. Dalla corsa alla carica di Sindaco di Miami – dove sono state sconfitte le “famiglie” che da sempre guidano la città più importante della Florida- a quella di Detroit dove Mary Sheffield, è stata eletta alla guida cittadina. Prima donna a riuscirci nella storia di questa importante realtà industriale dello Stato del Michigan. Significativa anche l’elezione in Virginia della democratica Ghazala Hashmi quale prima vicegovernatrice musulmana della storia in compagnia della nuova governatrice Abigail Spanberger. Le due hanno strappato lo Stato ai repubblicani.
Insomma un “sinistro” martedì elettorale per Trump che suona come un brutto campanello d’allarme in vista delle cruciali elezioni di “midterm” del prossimo anno quando sarà in gioco il controllo della maggioranza dei due rami del Congresso di Washington. Donald Trump aveva da subito affilato le armi, non appena era tornato alla Casa Bianca, in vista di quell’appuntamento con un’attitudine aggressiva su tutti i fronti, ma oggi il leader democratico del Senato Chuck Schumer può sottolineare che i risultati di ieri costituiscono un “ripudio del suo programma”.
Se la battaglia per New York è stata al centro dell’attenzione più di altre, è sicuramente preoccupante per il Presidente il dover registrare le due dure sconfitte subite in Virginia e nel New Jersey dove le cose gli erano andate decisamente meglio lo scorso anno per le presidenziali.
I suoi oppositori incassano i risultati della contestazione delle sue politiche sui dazi, i tagli al personale federale e il blocco dei fondi federali e, soprattutto, l’aver messo in campo nuovi volti a livello locale. Cosa che ancora faticano a fare nella dimensione più ampia del voto per la Presidenza. Poi l’analisi del voto ci dirà anche come possono aver influito altri fattori come i suoi attacchi alla libertà di stampa e delle università, al suo sostegno incondizionato ad Israele e le minacce di guerra rivolte a mezzo mondo.
Giancarlo Infante