Un “soggetto politico” – soprattutto se nuovo, come quello cui aspiriamo – che intenda operare nell’attuale contesto deve coltivare una doppia ambizione. Da un lato, assumere la funzione classica di “partito”, inteso come formazione che concorra, laicamente, cioè impegnando soltanto la personale e diretta responsabilità di chi, liberamente, vi aderisce, al confronto politico-istituzionale, prendendo parte alle competizioni elettorali. “Partito”, dunque, ma pur sempre orientato non alla “parte”, bensì al bene comune.
In secondo luogo, poiché la soggettività politica appartiene ad ognuno e non si esaurisce nella militanza partitica e, per di più, oggi la politica va assunta come “funzione diffusa” e non arroccata esclusivamente nel “palazzo”, la formazione cui intendiamo dare vita deve essere in grado di animare un più vasto concorso di popolo, in vista di quell’attitudine a “pensare” in termini politici che rappresenta il presupposto necessario per un costante incremento di maturità civile, in carenza del quale una società complessa sfugge di mano e diventa ingovernabile.
Insomma, rispetto ai vecchi partiti, è necessario introdurre elementi innovativi che, almeno, provino a risolvere a monte quell’eterna controversia, per dirla in breve, tra “interni” ed “esterni”, tra azione politica e cultura, attraverso cui sono passati anche i partiti popolari della prima Repubblica, senza venirne a capo.
Un soggetto che sia, quindi, “politico” nella misura in cui è, ad un tempo, luogo di pensiero condiviso e di azione congiunta. Soggetto inevitabilmente plurale, allora. Ispirato ad un metodo di collegialità, lontano dalle derive leaderistiche oggi imperanti. Sapendo che le attitudini personali sono differenti e si declinano in ruoli che, pur diversi, possono concorrere allo stesso disegno.
Chi fa una scelta di militanza attiva deve sapere che, se la intende seriamente, va incontro ad un impegno severo, anche perché si colloca nell’ottica di porre, o perlomeno di concorrere, a gesti che non restano confinati alla sua persona, ma ricadono, poco o tanto, sulla intera collettività. In certo modo, si può dire che ne va della vita di chi ci si impegna. Nel senso che si assume un onere cui si deve seriamente corrispondere e si dà una definizione pubblica di sé stessi che resta nel tempo ed impegna ad una coerenza che non può mutare ad ogni stormir di fronda. Implica una responsabilità ed esige un atteggiamento di umiltà. In quanto si accetta, salvo i casi di coscienza, di vincolare la propria autonomia di giudizio ad una sforzo di condivisione con altri amici, anche quando non è esattamente e pedissequamente la propria particolare opinione a prevalere.
Chi non ritiene di dover o poter assumere un compito di militanza attiva, cioè un ruolo che diventa intrusivo, e inevitabilmente disloca diversamente l’intera gamma degli impegni della propria vita quotidiana e preferisce dare un contributo sul piano dell’azione sociale o dello studio e della riflessione, può trovare un vasto campo di applicazione delle proprie competenze. Così, il partito in senso stretto diventa un po’ la testa di ponte avanzata di uno schieramento ideale più vasto, articolato per diverse funzioni. Capace, così, di andare oltre il proprio recinto e di creare quell’area “più allargata” di cui parla sovente Leonardo Becchetti. Cosa che poi significa un radicamento ulteriore e un coinvolgimento costante e fecondo con le ampie presenze e forze che compongono la società civile, così tanto più articolata ai giorni nostri rispetto che nel passato.
Non si tratta di rieditare forme di un collateralismo in qualche modo “servile”, ma piuttosto di stabilire una relazione di reciproca creatività tra chi, assorbito nella partita politica ed istituzionale, premuto dall’urgenza della funzione di governo, sollecitato dalle ragioni del potere che, per quanto legittime, ad un certo punto si chiudono a riccio in un circolo autoreferenziale, finisce per smarrire il rapporto empatico con la effettiva realtà sociale; e chi può, al contrario, più liberamente sviluppare un pensiero critico che dia conto di quanto appena si annuncia e si va via via formando nel corpo sociale.
Se vogliamo, possiamo pensare in questo senso a una forma moderna di rappresentazione di quell’interclassismo della Dc degasperiana utile a cogliere, a portare a sintesi e a mediare ciò che costituiva la complessità sociale dell’Italia del secondo dopoguerra e, poi, quella dello sviluppo degli anni successivi.
Abbiamo bisogno non di “intellettuali organici”, arruolati per ricondurre all’uniformità del pensiero dominante i mille rivoli che comunque irrorano un certo campo della cultura e del pensiero, ma piuttosto – nel partito, anzitutto, e nelle sue pertinenze culturali – di “uomini liberi”, di menti aperte, perfino irriverenti, capaci di interrogarsi senza posa. Abbiamo bisogno di una dimensione “popolare” autentica, che vuol dire anti-ideologica, radicata nel sentimento comune di chi vive le difficoltà della vita quotidiana ed è lì, non sui sacri testi della politologia, che affina la sua capacità di orientare il giudizio politico. Che non a caso si riscontra spesso più penetrante nelle persone di più modesta condizione sociale.
Nella stessa Democrazia Cristiana, la necessità di porre in una relazione virtuosa il momento dell’azione politica e la comprensione dell’incessante evoluzione culturale del contesto civile è stata avvertita lucidamente più volte ed in più occasioni si è cercato di strutturare una risposta. Eppure la DC non ha saputo, secondo l’ammonimento del Presidente Moro, essere “alternativa a sé stessa”, pagandone lo scotto.
È successo perché – rovesciando i termini di una annosa questione – si potrebbe dire che la Democrazia Cristiana ha dovuto sopportare una sorta di “conventium ad includendum”, una tale duratura e persistente azione di supplenza democratica nei confronti di forze che solo progressivamente hanno maturato altrettanta convinzione su questo fronte, da essere schiacciata sulla linea del potere, senza un momento di respiro e di pacata, libera riconsiderazione del suo percorso e della sua funzione storica.
Ma è successo anche per un difetto strutturale dei partiti di quel tempo, dove il luogo della riflessione più profonda era dislocato fuori dalla compagine del partito come tale. Per cui i tentativi di irrobustirlo culturalmente si sono risolto o in una modesta e transitoria campagna acquisti di qualche grande firma della cultura o dell’impresa o tutt’al più in una brillante manifestazione “una tantum”, come avvenne nell’autunno del 1981, con la cosiddetta “assemblea degli esterni”.
Per quanto grandi momenti di riflessione collegiale non siano mancati: i convegni di San Pellegrino del ‘61 e dell’anno a seguire; il convegno su Don Murri e le prime esperienze di “democrazia cristiana” che si tenne a Fermo nel ‘69; il convegno economico di Perugia del dicembre ‘72. Insomma, attrezziamoci su questo fronte nel congegnare la fisionomia del nuovo partito.
Anziché fermarci al “pre-politico”, momento rilevante, ma pur sempre insufficiente, preoccupiamoci, verrebbe da dire, del “post”, cioè data la determinazione a stare in campo, cerchiamo come rifornire chi combatte in prima linea di idee, progetti, concetti che diano in grado di dare consistenza, continuità ed un efficace orientamento all’azione politica.
Domenico Galbiati