Verso coloro che sono sbarcati sulle nostre coste il nostro compito di cristiani è quello dell’accoglienza, del prendersi cura vincendo il muro dell’indifferenza, sullo stile del Buon samaritano. Siamo chiamati a farci prossimi degli altri, chiunque egli sia, da qualsiasi parte arrivi, qualsiasi problema porti, qualsiasi sia la difficoltà. Siamo chiamati a fare sempre il primo passo verso uno stile di accoglienza e di misericordia, a guardare in chiunque bussa alla mia porta i tratti di Gesù, che ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35): “Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un’occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato di ogni epoca (cfr Mt 25,35.43).
Il Signore affida all’amore materno della Chiesa ogni essere umano costretto a lasciare la propria patria alla ricerca di un futuro migliore. Tale sollecitudine deve esprimersi concretamente in ogni tappa dell’esperienza migratoria: dalla partenza al viaggio, dall’arrivo al ritorno. E’ una grande responsabilità che la Chiesa intende condividere con tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà, i quali sono chiamati a rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza, ciascuno secondo le proprie possibilità”. E’ necessaria una rivoluzione culturale.
Occorre aprirsi alle logiche dell’accoglienza e della solidarietà. Bisogna lavorare moltissimo sull’educazione, sulla cultura dell’incontro, fornendo dati reali. Prima ancora del semplice accogliere, oggi è fondamentale creare una cultura dell’accoglienza, correlata alla cultura della mondialità, per creare una globalità umanizzata ed umanizzante. Tale nuova cultura potrà poi trovare supporto nella politica locale, nazionale, europea e mondiale, che non ha ancora provveduto a sviluppare corrette politiche di accoglienza e integrazione, capaci di dare una risposta virtuosa al fenomeno. Bisogna adoperarsi per una nuova cultura che non consideri i migranti mezzi di produzione, ma uomini dotati della dignità di figli di Dio e soggetti di diritti inalienabili. Credo che l’unica maniera umana di accogliere queste persone consista nel tentativo di integrarle sul territorio, attraverso strutture piccole, a misura d’uomo, in grado di far fronte alle esigenze di tutti. Nei centri in cui vengono accolti tutti insieme migliaia di profughi, è molto più difficile andare incontro ai bisogni di ciascuno. Spetta alle autorità politiche e militari contrastare i mercanti di morte, che impunemente solcano il Mediterraneo vendendo sogni di libertà a ignari migranti, traghettati verso l’Italia in condizioni di estremo pericolo, senza alcuna sicurezza, e facendosi pagare profumatamente.
L’annunciato decreto flussi triennale aumenterà le possibilità di ingresso legale per i cittadini di alcuni Paesi in crisi, come Tunisia ed Egitto, ma non servirà per chi fugge da guerre e oppressioni, come l’Afghanistan, la Siria, la Somalia, l’Eritrea. Non possiamo immaginare che tutto il peso dell’immigrazione debba gravare esclusivamente sulla Sicilia e sull’Italia. Deve essere l’Europa a farsi carico di questo problema, che non si esaurirà nel breve periodo. Ad una concezione dell’Europa chiusa ed egoista che punta solo sulla sicurezza, bisogna sostituire nella coscienza popolare una Comunità europea aperta, coraggiosa protesa ad uno sviluppo integrale e alla costruzione della pace e della solidarietà tra i popoli. È tempo che l’Unione Europea rompa gli indugi per una politica “comune” nella gestione dei flussi migratori, che armonizzi le varie legislazioni nazionali, vada al di là dell’emergenza e veda gli Stati membri uniti in un’azione di cooperazione allo sviluppo nei Paesi di provenienza. E’ necessario un approccio globale su migrazioni e, che dovrebbe portare a una politica comune su migrazioni e protezione internazionale. Si dovrebbe rivedere la convenzione di Dublino. Una proposta potrebbe essere il reciproco riconoscimento dello status di rifugiato fra tutti i paesi dell’area Schengen. Bisogna incrementare i corridori umanitari e altre soluzioni alternative. Bisogna impegnarsi a favorire i ricongiungimenti familiari. Chi, per esempio, sbarca in Sicilia per ricongiungersi con i suoi parenti che stanno in Germania, ha bisogno dello status di rifugiato. Ma, per ottenerlo, prima che le commissioni apposite decidano e diano parere favorevole, passano spesso molti mesi. Allungare i tempi del riconoscimento significa aumentare i mesi durante i quali i migranti devono rimanere nei centri collettivi, aumentare le spese da parte dello Stato e i guadagni dei gestori dei centri. E’ importante aumentare il numero delle commissioni e rendere più agile il loro lavoro.
È giunto il tempo di abbattere il muro dell’indifferenza e del cinismo. E se può scoraggiarci la sfida di quanto c’è ancora da fare, ci può consolare quanto amava dire il beato Giuseppe Puglisi, sacerdote e martire vicino alle sofferenze dei più poveri: «Se ognuno fa qualcosa, allora possiamo fare molto…» Molto, non tutto. Il “molto” compiuto insieme sprona ad andare avanti senza adagiarsi, perché “molto” ancora resta sempre da fare, specie in mezzo alla gente, soprattutto fra i più poveri. Nessuna realtà può automaticamente e quasi “magicamente” cambiare. Perché costruire il bene è impegnativo, e fa appello alla responsabilità di tutti, al modo in cui ciascuno fa la sua parte, nel poco come nel molto. Gli innumerevoli morti (uomini, donne, bambini), che sono seppelliti nel Mediterraneo con la loro speranza di vita e di libertà, scuotono le nostre coscienze con il loro grido di giustizia. Che il nostro silenzio e la nostra inerzia non vanifichino il loro sacrificio.
Mons Michele Pennisi
Pubblicato su Interris (CLICCA QUI)